Stiletto Academy

Ho cambiato vita ed è cambiato anche il blog.

Sono diventata più saggia e sentimentale, vado in palestra, sono dimagrita senza volerlo, non prendo più i treni tutte le mattine, sono una libera professionista e non più una dipendente, ho una socia in affari bionda, creo il caos nella vita di amori e amici (questo l’ho sempre fatto, ma adesso lo faccio a tempo pieno), bevo meno caffè, ma lo bevo più buono, scrivo di più, dormo di più, non parlo quasi mai al telefono, ho trasformato la camera verde della casa nuova nel mio ufficio, ho ritrovato vecchi amici, sto provando ad aggiustare le cose.

Ho tanti progetti nuovi e un cassetto pieno di altre idee.

Il primo progetto neonato è la Stiletto Academy, che è quella meravigliosa cosa per cui due donne brillanti decidono che hanno voglia di insegnare ad altre donne a sorridere della vita e a sentirsi le femmine che hanno sempre sognato di essere. Tutto sui tacchi a spillo.

Inauguriamo l’agenzia sabato prossimo, il 26 febbraio, a Milano, con un workshop su tacco 12, il 12camp, un pomeriggio di lezione sui tacchi, di consigli sul portamento, di benessere, di aperitivi e di ricchi premi e cotillon.

Le iscrizioni sono già sold out, ma potete seguire l’evento in diretta streaming dalla pagina di facebook.

E il resto ve lo racconto poi.

Adesso devo indossare tacchi e mantello e tornare a salvare il mondo.

Macchiato freddo

Sono una misantropa che non sa vivere senza le persone, sono una cinica sentimentale, sono una squilibrata perfezionista, sono un’egoista altruista, sono una carnefice buona, sono una pacifista violenta.

Devi avere pazienza con me, lo so.

Però ricordo sempre come bevono il caffè le persone che amo e tu lo prendi macchiato, con il latte freddo.

Te l’ho lasciato sul tavolo, stamattina, insieme alle mie ennesime scuse.

La buona fede

Quell’estate lì, quando ero bambina, i criceti avevano fatto i cuccioli, che erano dei piccoli fagottini di carne rossa, un po’ disgustosi. Ed erano tanti e riempivano tutta la gabbia.

Il gatto infilava la zampetta tra le sbarre della gabbia e provava a rubarli e una volta c’è riuscito e abbiamo trovato la testa del criceto sgranocchiato nella scodella della pappa e abbiamo pianto come se non ci fosse fine alle lacrime.

Allora ho pensato che dovevo difendere i criceti, dovevo proteggerli, metterli al sicuro dal gatto e dai pericoli. Li ho messi in veranda, ho chiuso a chiave la porta, sono tornata a giocare e a vivere la vita.

Poi il pomeriggio è passato, un pomeriggio di un caldo devastante, un caldo napoletano afoso e grasso, e alla sera sono andata in veranda a dare da mangiare ai criceti sopravvissuti al gatto.

E la temperatura della veranda era salita troppo, era diventata incandescente, e forse era mancata l’aria, forse era finita l’acqua, forse il sole batteva troppo sulla gabbia, forse avrei dovuto lasciare almeno una finestra aperta, anche se mia madre diceva sempre chiudi, perché entrano i ladri, perché a Napoli è normale che i ladri entrino in casa e quindi le finestre, quando si andava via, erano sempre tutte sprangate.

I criceti era tutti morti. Quasi tutti. Solo un paio si erano salvati e ansimavano.

Li avevo uccisi io, per difenderli. Li avevo soffocati per proteggerli.

Ero stata una bambina peggiore di un gatto.

Mi sono sentita in colpa per decenni, anche se molti mi hanno detto che non avevo colpa, che non potevo sapere, che volevo fare la cosa giusta.

E a volte mi consolo anch’io, pensando che è la cosa giusta, credendo sia la cosa migliore, sbagliando ogni volta per proteggerti, chiudendoti in gabbia in veranda, per difenderti dai pericoli e per tenerti sempre con me.

Con quell’orrendo alibi che chiamano buona fede.

Il cambio di stagione

Cambiare vita è come cambiare gli armadi a inizio stagione.

È un cambio di stagione emozionale.

Alcune cose, alcune persone le tieni, vanno bene per tutti i periodi, continuerai a indossarle, forse, per tutta la vita.

Altre le butti via o le regali, spesso a malincuore, perché non ti vanno più bene, ti vanno strette, ti vanno larghe, ti cadono troppo male.

A volte ritrovi nel fondo di un cassetto cose o persone che avevi dimenticato, ma che ti piacevano così tanto, allora le rimetti all’aria, decidi di indossarle nuovamente, le porti con allegria.

Altre che ti stanno male, che ti fanno male, ma che ti sono costate così care, le chiudi in un baule, provi a dimenticarle, ma non le butti via, perché prima o poi, lo sai, vorrai indossarle ancora o solo guardarle e toccarle, per sapere che, un tempo, sono state così tanto tue.

Cambiare vita è un faticoso lavoro di rimettere in ordine, togliere, rammendare, lavare e stirare le cose e le relazioni.

Svuotare gli armadi e riempirli di colori nuovi.

E la cosa meravigliosa è che, per riempire di cose belle e nuove i tuoi vecchi armadi, non hai nemmeno bisogno della carta di credito.

Come una libreria Ikea

Finito l’assemblaggio, come a tutte le persone, mi hanno dato un cuore.

Me l’hanno messo lì, appeso al petto, senza spiegarmi come funziona, senza lasciarmi un libretto di istruzioni, senza dirmi come accenderlo e spegnerlo.
Mi hanno detto “usalo” e io pensavo fosse facile, un cuore ce l’hanno quasi tutti, non dev’essere così complicato, insomma, si istallerà da solo, si aggiornerà da solo.

A volte mi è sembrato di usarlo bene. Si gonfiava, faceva entrare le persone, batteva, andava veloce, mi rendeva felice. Altre volte si chiudeva, cacciava tutti fuori, diventava freddo, diventava duro, faceva male. Spesso se ne stava lì, a non far nulla, a non dire niente, a non sentire niente, a non provare niente, calmo, addormentato.

Quando non c’è nessuno dentro, dentro al cuore, le giornate sono tutte uguali, tutte tranquille, tutte senza colori forti, tutte lente. Quando è pieno, ha sempre fretta, ha voglia di cambiare le cose, ha voglia di partire, ma anche di restare, salta dallo stomaco alla gola, scende dalla gola allo stomaco e, di notte, fa così rumore che non riesco a dormire.

All’inizio, lo regalavo spesso a gente che non l’aveva chiesto in dono, che lo guardava e diceva no, grazie, non mi serve questo cuore, puoi riprenderlo. E io lo riprendevo e mi dicevo mai più, mai più regalerò il mio cuore! Dovrete implorarmi, dovrete piangere per avere anche solo un grammo del mio meraviglioso cuore!
E poi, invece, lo regalavo ancora e lo riprendevo e lo regalavo e lo riprendevo.

Crescendo, quand’è diventato un cuore più allenato, ho iniziato a tenermelo stretto, a contrattare ogni minima cessione, a darlo in prestito per poco tempo, a richiederlo indietro quando iniziava a fare male.

In alcuni momenti, per paura di romperlo, l’ho chiuso in cassaforte e lui, senza aria, ha rischiato di morire.

Ogni tanto, qualche zingaro me l’ha rubato per gioco, ci ha passato qualche pomeriggio al sole e poi l’ha abbandonato su una panchina. E ho dovuto percorrere tutta la città, a piedi, per recuperarlo, per pulirlo, per rimettermelo al collo.

Non sono sicura, dopo tanti anni che porto questo cuore, di essere riuscita a capire come farlo funzionare. Spesso sbaglio ancora, lo uso troppo o troppo poco, lo uso troppo presto e, molte sciagurate volte, troppo tardi.

A volte si frantuma. E allora provo a ripararlo.
Con le mie mani piccole incollo le schegge minuscole, le rimetto tutte insieme, copro i buchini invisibili e ci soffio sopra, aspettando che la colla si asciughi.

Ma quando le fratture sono grandi, mi serve tanta forza per riattacarle insieme. Mi servono mani più grandi, tipo le tue, che tengano stretti i due pezzi squarciati, uno contro l’altro, e che facciano forza, fino a quando la pressione non li aggiusta e la frattura è solo una linea sottilissima, una cicatrice che, col tempo, non noterò nemmeno più.

In fondo, ecco, è questa la cosa che ho imparato: a volte bisogna essere in due per riuscire a usare un cuore.

E se mi avessero dato quel maledetto libretto di istruzioni, forse ci sarebbe anche stato scritto, che per usare un cuore è meglio essere due. Come c’è scritto sulle istruzioni della libreria dell’Ikea, che ti fanno anche un disegno di due omini per spiegarti che da solo sarebbe troppo complicato montarla, e tu ci provi sempre a farlo da solo, ma mica ci riesci, allora mi chiami e ci mettiamo lì, con la brugola e le viti, a seguire tutti i passaggi e a lavorare, lentamente, insieme.

Se non ora, quando?

Oggi pomeriggio andrò a manifestare anch’io, insieme a tante altre donne che chiedono più dignità.

Non lo faccio perché credo che cambi le cose, non lo faccio perché mi aspetto che scendere in piazza sensibilizzi, non lo faccio perché ho smesso di essere cinica e ho iniziato a credere davvero in un cambiamento possibile.

Lo faccio perché -e mi si perdoni la metafora poco femminile- mi sono rotta i coglioni!

Me li sono così fracassati che ho bisogno di uscire, marciare, gridare, stare con gente stufa quanto me, non sentirmi sola, non sentirmi cretina per essere così inadeguata in questo paese, non sentirmi sempre incazzata, non sentirmi sempre una donna fuori luogo, non dover sempre spiegare la differenza tra libertà e mercimonio, tra indignazione e frustrazione.

Manifesterò per il motivo meno nobile e non sono nemmeno convinta che una manifestazione del genere sia qualcosa di positivo.

Però camminare e urlare non ha mai fatto male a nessuna.

E poi fa dimagrire.

Come quelle donne

Avrei voluto essere come quelle donne leggere, che hanno i sorrisi che coinvolgono, che hanno gli occhi chiari che brillano. Quelle donne dolci, che sembrano eterne ragazzine, che parlano sottovoce, che ridono per le sciocchezze, che piangono per le canzoni d’amore. Avrei voluto essere come quelle donne fragili, che devono essere protette, che devono essere difese, quelle donne che ti fanno sentire forte, che ti fanno sentire uomo. Avrei voluto essere come quelle donne che sbagliano, ma si perdonano sempre, che dimenticano in fretta, che ti lasciano con il cuore a pezzi, ma non si sentono in colpa. Quelle donne che sono il centro del mondo, che sono le regine della festa, quelle donne facili da amare, quelle donne semplici. Avrei voluto essere come quelle donne che parlano a chiunque di sentimenti, che si innamorano con un bacio e smettono di amare all’improvviso, senza rimpianti. Avrei voluto essere come quelle donne che sanno mentire, che sanno mentire a se stesse, che sanno dimenticare, che bevono con le amiche e tutto passa, che ballano sotto la luna e tutto è a posto.

Avrei voluto non dover fare sempre la cosa giusta, non avere le spalle forti, non dover difendere e difendermi, non dover sempre lottare. Avrei voluto perdonarmi, riuscire a dimenticare, avrei voluto saper mentire, avrei voluto saper scappare. Avrei voluto essere meno dura, meno saggia, meno forte. Avrei voluto affidarmi agli altri, essere quella che sbaglia e non quella che aggiusta, essere quella che distrugge e non quella che costruisce, essere quella che sbanda e non quella che regge.

Avrei voluto essere come quelle donne e sono come me, e non l’ho scelto. E non si può cambiare quello che abbiamo così dentro, dentro l’anima. E non si può scegliere di essere diversi da noi stessi.

Ma tu, tu che mi sei accanto tutti i giorni, tu mi hai scelta. Hai scelto me che non sono facile da amare, hai scelto me che porto sulla schiena il peso di tutto il fottuto mondo, hai scelto me che sono sempre in battaglia, che non smetto mai di pensare, che osservo troppo le persone, che capisco troppo, che non mento mai, che pretendo non mi si menta mai. Hai scelto me mille volte e poi ancora e ancora.

E fino a quando continuerai a scegliermi, sarò la donna migliore che posso essere.

Agende e salotti

In caso di emergenza, se aveste bisogno di me, domani sarò presente alla Social Media Week di Roma e parteciperò al panel “Salotto 2.0: i luoghi fisici dell’impresa, della vita e del desiderio nella società 2.0″ con un intervento dal titolo “Divano, notebook, password e la conquista del mondo“.

Se non doveste partecipare, alle 17.30 a Palazzo Giannelli Viscardi, potreste anche solo offrirmi da bere, dopo.

A buon rendere.

Da grande

Da bambina, quando mi chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo sempre “la regina”.

Mi sembrava una professione onesta, un lavoro nobile, per il quale ero naturalmente portata.

Sarei stata una regina illuminata, avrei aiutato i poveri e le persone in difficoltà, avrei punito i cattivi, ma avrei anche cercato di farli ragionare per far capire loro che essere buoni sarebbe stato di sicuro più vantaggioso. Avrei dato tantissime feste, aperte a tutti, e buoni consigli. Avrei salvato tutti i cani randagi del mio regno e costruito parchi giochi per i bambini.

Volevo fare la regina perché pensavo che avrei evitato le guerre, che avrei parlato con gli altri re e governanti e avrei spiegato loro che era meglio lasciar perdere, chi vuole mettersi a combattere tutto il giorno, a sporcarsi i vestiti di sangue, a sparare, a recuperare brandelli di cadaveri, quando si poteva giocare insieme, mangiare la pizza, bere la fanta, piantare fiori, andare al mare?

Mi sembrava un’ambizione lecita, fare la regina, molto più intelligente di fare l’astronauta o la ballerina.

Poi, un giorno, mia madre sorrise, mentre spiegavo ai miei zii come sarebbe stato bello il mio regno, e mi disse che, salvo rarissimi casi, per diventare regina sarei dovuta nascere in una famiglia nobile. Regine si nasceva, quasi sempre, e la nostra famiglia non era affatto nobile (forse solo un po’, nell’inutile cognome) e certo avrei potuto fare tanti altri splendidi lavori da grande, ma la regina forse no, non era detto, ma probabilmente no.

Allora avevo iniziato a odiare la mia famiglia, la mia famiglia che non era nobile e che non mi permetteva di diventare regina e salvare il mondo dalle guerre con la fanta, la pizza e i giochi. Mi sembrava di aver sprecato una nascita, venendo al mondo così portata per regnare in una famiglia qualsiasi.

Pensavo che mi sarei dovuta inventare un altro futuro, dopo che avevo già detto a tutti i miei amichetti che sarei stata la loro regina. Mi pesava deluderli.

Poi, mentre il tempo e la vita passavano, iniziai a capire che questi che nascevano re erano persone peggiori di quanto mi fossi immaginata. Non era nemmeno colpa loro, era regnare che era sbagliato. Studiavo le monarchie sul sussidiario e capivo che io non volevo averci nulla a che fare con questa gente, brutta gente.

E un giorno, a casa, mentre facevo i compiti, chiesi a mia madre “mamma, noi siamo poveri o ricchi?” e lei mi rispose che eravamo gente normale, gente onesta che avrebbe lavorato tutta la vita per campare.

Allora capii, mi fu tutto chiaro: noi eravamo il popolo, gente che lavora e campa, quelli che stanno fuori dai cancelli dei castelli dei re, che vivono, mangiano, amano e muoiono senza corona. E mi piacque scoprire di essere il popolo, mi piacque scoprire di non essere destinata a diventare una brutta persona.

E fu allora che guardai mia madre e dissi, con la solennità di una bambina che aveva capito tutto, “mamma, ho deciso, io da grande voglio fare la rivoluzione!”.

Tutte le altre vite

C’è che io le scelte che non ho fatto, le decisioni che non ho saputo prendere, le storie in cui non ho avuto il coraggio di tuffarmi le vivo tutte nella mia testa.

Passo giornate intere, nella mia fantasia, a continuare amori mai nati, a fare lavori che non ho fatto, a dire frasi che non ho mai detto, a costruire castelli in cui non ho abitato, a baciare bocche che non ho baciato, a prendere treni che non ho preso, a scrivere frasi che non ho scritto, a sorridere nei momenti giusti, a dire resta a chi, invece, se n’è andato, a dire ti amo al posto di gridare ti odio, a dire proviamo al posto di finiamo, a essere felice invece di essere triste.

Passo giornate intere a vivere la mia vita e le vite che non ho vissuto, tutte insieme, tutte nel cervello, negli occhi e nel cuore.

Passo giornate intere a vivere così tanto che poi, la sera, sono distrutta.

Ma non riesco mai dormire, perché, di notte, c’è tanta, ancora tanta vita perfetta da immaginare.