Sembra che il vento di cambiamento stia soffiando davvero.
Speriamo non mi spettini tutti i capelli.
Sembra che il vento di cambiamento stia soffiando davvero.
Speriamo non mi spettini tutti i capelli.
Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Spenderai tutti i tuoi averi in scarpe e vestiti ma, a ogni occasione importante, non avrai mai nulla da metterti.»
In alcuni momenti ti distrai da te stessa e sembra che le cose siano al loro posto.
Il solito disordine in cui ritrovi tutto, i soliti colori, il caldo di fine maggio, le scatole con i vestiti leggeri, sparpagliate per le stanze in attesa della voglia di un vero cambio di stagione, i libri iniziati e lasciati a metà per leggere altri libri, le chiavi sul muretto dell’ingresso, le scarpe abbandonate in salotto, i cucchiaini nel lavello, i jeans sulla sedia vicino alla finestra.
Resisti e il tempo scorre ed è la vita e la conosci. Ti sembra di saperla interpretare, questa vita con le cose a posto, e allora vivi, ti muovi nel tuo spazio, senti la primavera che entra dalla finestra, sorridi, canti le canzoni ad alta voce.
Poi inciampi in qualcosa, in un’intuizione, in un ricordo che non sapevi di aver lasciato lì.
Ti accorgi che l’assenza non è in quello che manca, ma nel troppo che rimane, nella caffettiera da due tazze che finisci ormai da sola, nel lato del letto che non usi, nel piatto di pasta che avanza e conservi in frigo, nel latte che non consumi tutto e che va a male, nel cesto dei panni sporchi che ancora mischia un po’ di tuo e un po’ di suo, nell’abitudine del messaggio di buonanotte che non mandi più quando sei in viaggio, nella giacca appesa nell’armadio, nelle fototessere nascoste nel portafogli sotto la patente.
Lasci le cose come stanno e a volte parli con le cose e poi succede che sorridi, senza motivo, e senti che non hai perso per sempre, che tutto rimane nella vita che hai vissuto, in tutta la meraviglia e la bellezza di ieri, e ti farà compagnia ancora, come il formicolio di un arto amputato che senti di continuo attaccato a te.
Non puoi perdere una parte di te, nemmeno se ci provi; te la porti dietro anche se manca.
La primavera, questa volta, sembra fare sul serio. Presto ti deciderai a svuotare gli armadi e a riempirli di abiti leggeri, di colori chiari, di abitudini nuove e di ricordi dolci.
Ho tagliato i capelli.
Sono stata a Barcellona a fare un test drive della nuova DS4 Citroën (e le persone che erano con me in auto sono ancora quasi tutte vive), ho dormito, ho bevuto sulla spiaggia al tramonto, ho scritto su diari di carta, ho sorriso, ho riso.
Domenica 22 maggio, alle ore 21.00, all’Auditorium San Michele di Selvazzano Dentro (PD), parlerò a un incontro del ciclo Maggio Saggio intitolato “Bla, bla, WEB!”, in cui discuteremo di web, social media, rivoluzione, gioventù e altre amenità. A seguire, il concerto dei Lava Lava Love.
Il 28 e 29 maggio sarò a Bologna per degli eventi organizzati con Stiletto Academy (se siete a Bologna e avete voglia di imparare a volteggiare sul tacco 12, scrivetemi).
Nel frattempo ricostruisco, ascolto molta musica, leggo molti libri (e non tutti fanno bene), cammino, parlo con gli sconosciuti, penso sempre al mare.
Da qualcosa poi dovrai ricominciare.
E decidi di partire dalle parole.
Dalle parole delle amiche che ripeti come un mantra, dalle parole di chi ti conosce davvero e ti ha capita e ti ama senza porti condizioni e ti dice ce la fai anche stavolta, devi crederci anche tu, devi prendere il dolore e trasformarlo in rabbia, devi prendere a calci in culo il destino.
Dalle parole dei libri, che divori come un tempo, che trascini nei viaggi in treno verso luoghi in cui non sai nemmeno se vuoi andare. Le parole di qualcuno che non conosci e che ti sembra ti conosca da sempre. Le parole che ti dicono ah, è così per tutti, è umano questo stropicciarsi il cuore, questo rimanere senza fiato per l’abbandono, per l’attesa. Le parole che ti dicono non muori per amore e se muori ne è valsa la pena, perché vale sempre la pena amare, anche se non sei amata, anche se smetti di amare. Le parole scritte da quelli bravi, quelli che sanno arrivare in quel punto del cervello in cui nascondevi le tue paure e i tuoi desideri e sanno tirarteli fuori e farli scivolare nella pancia e farti sorridere e farti dimenticare oggi e ieri e, a volte, anche domani.
Dalle parole delle canzoni, che ascolti in silenzio, mentre cammini con la testa bassa, con passo veloce.
Dalle parole degli sconosciuti che entreranno nella tua vita, che riempiranno lo spazio vuoto lasciato dalle parole gelide e dai mi dispiace sterili di chi è andato via.
Dalle parole che hai dentro, ma solo quelle al singolare. Quelle che parlano di te, nonostante gli altri. Quelle che dicono sei rimasta e respiri ancora e il tempo di ripartire è arrivato e non credere che finirà qui. C’è ancora un sacco di strada ed è piena di persone e farà bene e poi di nuovo male e poi bene e poi male. Adesso sai che puoi difenderti, ma sai anche che non lo farai, perché hai un cuore kamikaze che continuerà a lanciarsi in picchiata e schiantarsi ancora e ancora.
Domani sarò al Salone del Libro di Torino a intervistare Daria Bignardi. Speriamo di trovare le parole che servono.
La Terra, però, se ne fotte di te e continua a girare.
E viene giorno e viene sera e poi la notte e tu lo sai che non dormirai, che ti rigirerai nel letto con i soliti pensieri in testa, che percolano sul cuscino, che non vanno via nemmeno con l’alcol, che tornano a torturarti nel buio.
Poi ti svegli, bevi il caffè, fai le cose da fare. Le fai con questa fatica nuova, come se fossi una statua di gesso. Hai i riflessi lenti, i pensieri fermi, gli occhi distratti. Ti ritrovi pieno di lividi e non capisci, guardi gambe e braccia attaccate al tuo corpo e ti chiedi da dove siano venute fuori.
A volte ti incroci allo specchio e ti domandi chi sei, perché un tempo conoscevi tutti gli sguardi e questo non lo afferri, non ti appartiene.
Vivi, con quelle cose naturali del vivere: inspirare, espirare, nutrirti, lavarti, vestirti. Segui il rituale, scandisci il tempo, ma il tempo non è più lo stesso.
Il tempo del non amore è un tempo lentissimo, eterno. È un tempo che non scorre, ma gira su se stesso. È un tempo di immobilità e non progresso, è un tempo di attesa, di respiro affannato, di distrazione, di sovrappensiero.
È il tempo in cui rimani in compagnia di migliaia di parole, le parole non dette, quelle più dolorose, quelle più delicate e intense. Sono le parole che non dirai più, perché gli altri sono andati, perché seguono un tempo diverso, perché hai dovuto farli uscire dalla tua vita per sopravvivere, perché loro vanno avanti mentre tu sei fermo, perché tu hai la tua valigia di parole, troppo pesante, da trascinare.
Il tempo del non amore è un tempo per i poeti, è un tempo per i cantautori.
Il tempo del non amore, con tutte le sue parole splendide e crudeli, è un tempo da raccontare, da condividere. È il tempo delle poesie intense, è il tempo delle canzoni eterne. È il tempo che chi ha vissuto conserva per sempre nella testa, nascosto dai successivi amori, sepolto e mai rimosso, protetto.
E tu pensi sono solo un povero stronzo, fermo al mio giro di Do, con queste parole difficili, che non posso alleggerire, che non posso gridare, che non posso rendere musica. Sono solo un povero stronzo, in un tempo doloroso e lento, che non produrrà cose meravigliose, che non farà piangere le generazioni. Sono solo un povero stronzo e non un fottuto cantautore. Non è giusto che io soffra, non io, no.
Al mondo dovrebbero soffrire d’amore solo i poeti, i cantautori, gli scrittori, gli artisti, perché loro sanno cosa fare delle parole non dette.
Mentre tu non puoi fare altro che ripetertele nella testa, e ripeterle e poi ripeterle ancora, fino a quando il tempo non tornerà a scorrere e ti sveglierai una mattina – e non sai quando – con parole nuove e la solita voglia di caffè.
Non lo sai quando l’hai capito, quando l’hanno capito gli altri.
È successo quando eri bambina, è successo che si notava, si intuiva, lo capivano gli adulti, lo dicevano.
Gli adulti dicono cose ai bambini che i bambini nascondono come un tesoro nel loro cuore per tutta la vita e il peso di questo tesoro a volte li tiene con i piedi per terra, a volte li schiaccia.
È successo che tu eri forte, eri la bambina forte. E c’erano le sorelle belle, i fratelli fragili, i cugini ammalati, i compagni di scuola poveri. Tu eri la bambina forte e ti dicevano tu ce la farai sempre da sola, sei forte, guarda l’altro, guarda gli altri, hanno bisogno di aiuto, non se la caveranno da soli, ma tu sei forte, tu andrai dove vorrai, tu non hai bisogno che ti teniamo la mano, tu sei forte.
E tu allora provavi a essere forte e andavi avanti e non chiedevi aiuto e stringevi i denti e aiutavi quelli non forti e crescevi e facevi quelle cose difficili del vivere da sola e la gente ti diceva sei forte, ce l’hai fatta da sola, ce la farai sempre tu, sei forte.
C’è questa maledizione della forza che esonera gli altri dalla fatica di non saperti aiutare, dall’impotenza di non sapere cosa dirti. C’è questa maledizione della forza che non ti fa essere amata come vorresti, che ti costringe a ricucire da sola gli strappi, che ti condanna a essere quella che dà di più di quello che prende. C’è questa maledizione della forza che non ti regala abbracci, che ti sotterra sotto i numerosi meriti di meglio, ce la farai anche senza di me, non sono quello giusto, sei forte sei forte. C’è questa maledizione della forza che lascia a te decidere se andare o restare, che ti attribuisce le responsabilità e anche le colpe.
Non l’hai scelto, non volevi essere forte. Volevi essere come gli altri bambini che piangevano, che sbagliavano, che si facevano baciare le ferite per mandare via il dolore.
Un giorno ti accorgi che la tua forza ti rende fragile, ti impedisce di andare avanti, che essere forti è troppo faticoso, che non puoi più farcela da sola.
È il giorno in cui cadi e resti immobile e non riesci a respirare e non sai aggiustare le cose e non sai tenere le spalle dritte e stramazzi e rantoli e non riesci a gridare e non ti muovi e non respiri e non ce la fai e aspetti e aspetti e aspetti e imprechi e maledici e aspetti.
E poi chiedi aiuto e ti lasci aiutare e capisci che non fa niente, che non sei obbligata a essere forte, non lo sei mai stata, che puoi scegliere di non esserlo, che la vita è un mestiere di traguardi e di fallimenti, per tutti.
Capisci che la tua forza è la tua debolezza e che la debolezza è la tua nuova forza.
Non avere paura, bambina, di non essere forte oggi.
Domani ci sarà di nuovo il sole e le montagne da scalare e i mari da attraversare e la vita da vivere e le cose da cambiare e le città da costruire e le parole da scrivere e i cuori da riempire e gli abbracci da prendere e le tue spalle dritte e il tuo sorriso sicuro e le idee nella testa e il futuro nelle tasche.
Da anni, ogni tanto, qualcuno grida da qualche pagina di blog che i blog sono morti e, all’improvviso, tutti noi sperperatori di tempo e byte ci sentiamo in dovere di pregare per l’anima dei nostri diari virtuali.
I blog che parlano di blog non sono affascinanti come i libri che parlano di libri, come i film che parlano di film.
Questi diari sono solo posti in cui siamo arrivati perché volevamo dire qualcosa.
C’è chi ha detto tutto, chi ha preferito continuare a dire sui social network, chi si è accorto di non avere un cazzo da dire o di non avere più voglia di dirlo.
C’è chi rimane, perché non riesce a farne a meno, perché gli strumenti nuovi, i facebook, i twitter, i friendfeed, sono più conversazione e meno riflessione, perché ha voglia di scrivere senza essere fagocitato dalla serendipity, perché l’archivio dei suoi post gli ricorda dove è stato e dove sta andando.
Un paio di anni fa avevo pensato di uccidere il blog.
E poi non l’ho fatto.
Ho passato quasi otto anni della mia vita tra queste pagine e non saprei come si fa a tornare a vivere senza rielaborare i monologhi interiori in forma di post.
Dopo quasi otto anni il mio blog è cambiato, sono cambiata io, sono cambiati i tempi, le idee, le percezioni, le ambizioni, i ritmi, le persone, gli spazi, i lettori, il personaggio, le parole.
Dopo quasi otto anni il mio blog è diventato il posto delle cose non urlate, il posto dove mi sono accorta che c’è una crasi perfetta tra Dania e Daniela.
Un giorno non avrò più niente da dire e dirmi e spegnerò la luce anch’io e di tutto quello che è stato scritto non saprò cosa fare.
Quel giorno credo che mi sbronzerò.
Lasciare il lavoro, iniziare a vivere della propria arte senza avere talento, cambiare città, cambiare amici, cambiare abitudini, viaggiare sempre, scrivere, parlare tanto, ricevere proposte professionali insperate, ritrovare amici persi da anni, amare, smettere di amare, incasinare le relazioni, confondere i sentimenti, pretendere ciò che non puoi avere, perdere ciò che avevi, piangere, avere paura, scoprire di essere umana, imparare a chiedere aiuto, bere con amiche bellissime, leggere sui treni, dimagrire di due taglie, cambiare taglio di capelli, cambiare guardaroba, ripeterti che ce la puoi fare, ricominciare da tre.
I giorni in cui vivi nel corpo di un’altra, in affitto dentro di te, quei giorni lì non ti entrano dentro, ti sfiorano ma non li afferri, li guardi ma non li capisci.
In quei giorni cammini e non sai dove stai andando, mangi e non senti nessun sapore, parli e non segui le tue parole, pensi e non ti salvi, ti osservi e non ti riconosci, non sei tu, non sei tu.
Sono giorni di attesa di qualcosa che non arriva, sono giorni di troppo, troppo passato e ancora nessun futuro, sono giorni lunghi che finiscono in notti senza sonno.
Soffri di meno, non sei tu. Il bello non ti sembra bello, non è tuo.
I giorni in cui vivi nel corpo di un’altra, le persone che ti amano ti dicono andrà tutto bene e tu pensi che quella che dovresti essere tu è una persona fortunata ad avere tanti amici che si preoccupano.
Ma non sei tu.
Un giorno tornerai, perché si torna sempre, e vivrai di nuovo nel tuo corpo e non ricorderai molto di quei giorni in cui il cuore aveva deciso che non dovevi essere più tu.
Quel giorno tornerai e sarà naturale vivere.
Quel giorno penserai che è stato solo un malinteso, che il tempo ha messo a posto le cose.
Andrà tutto bene.
Andrà tutto bene.
A volte bisognerebbe smettere di cercare di dire la cosa giusta e imparare a usare il silenzio giusto.