Cambiamento lento

Ha fatto il cambio di stagione, costretta dal freddo improvviso, molesto e insistente.

Ho cambiato abitudini alimentari, perché il mio metabolismo sta facendo i capricci.

Ho cambiato, ancora una volta, taglio di capelli.

E poi, grazie ai ragazzi di Weesh, ho cambiato la grafica del sito. Che ricorda un po’ la vecchia, perché mi affeziono alle cose e vorrei, da vera Gattoparda, che tutto cambi, affinché tutto resti uguale.

Buon Halloween per chi lo festeggia, buon ponte per chi ha un lavoro, buona fortuna per chi cambia tutto, in continuazione, come me.

Troppo in fretta

Ci sono periodi in cui scrivo tanto e parlo poco.

E periodi in cui parlo tanto e non scrivo quasi mai.

Poi ci sono i giorni come questi, in cui penso e penso e cammino, poi canto a bassa voce, poi penso ancora, poi leggo, poi sospiro, poi penso.

Scrivo poco e parlo poco.

Sono i giorni in cui sembro intelligente.

Passano sempre troppo in fretta.

Play it again, Sam

L’altro giorno sono uscita con gente giovane.

Anche io sono giovane, ma era gente più giovane. Gente che ricorda ancora cosa ha detto all’esame di maturità, gente che ha festeggiato da poco gli ‘enti, gente che solo per un pelo è riuscita a guardare Bim Bum Bam.

L’altro giorno sono uscita con gente giovane e ho detto “ai miei tempi”. Come se questi non fossero i miei tempi. Come se fosse già tutto finito, ti ricordi com’era?, ah, com’eravamo migliori di questi qui che ai loro tempi nemmeno sanno com’erano i nostri tempi.

Insomma, ai miei tempi si ascoltava la musica con le cassette. Quelli prima di noi avevano i dischi di vinile, noi no, le musicassette. Fragili, deperibili, meravigliose cassette. Noi registravamo le compilation, non come si fa adesso che selezioni i file da iTunes et voilà, senza fatica, senza sbattimento.

Noi avevamo gli stereo con due scomparti per le cassette e mettevamo da una parte quella vergine (da 45, 60 o da 90 minuti) e dall’altra quella con la musica e premevamo REC e PLAY e registravamo e poi interrompevamo col dito appena era finita la canzone che ci interessava e nelle cassette delle compilation c’era sempre qualche secondo di silenzio tra una canzone e un’altra oppure si accavallavano, oppure si interrompevano a metà, quando registravi direttamente dalla radio.

Quando volevi ascoltare proprio quella canzone lì, mandavi avanti la cassetta e poi indietro e poi avanti e non beccavi quasi mai il momento giusto, quindi ascoltavi quasi sempre un po’ della canzone prima o dopo.

E quando finiva il lato della cassetta, dovevi tirarla fuori e girarla, a meno che tu non fossi uno di quei maledetti fortunati con l’autoreverse. E quando uscivi, se volevi più di un disco alla volta, dovevi portarti dietro più cassette, che durante le ore di storia e di latino avvolgevi con l’aiuto di una matita, per non consumare le pile del walkman.

Adesso ho un telefono che fa le foto, che fa i video, che archivia, che manda le e-mail e che riproduce la musica. Tanta musica. Così tanta che se fosse in cassetta dovrei andare in giro col trolley per portarla dietro.

E il telefono ha questa funzione bellissima che è la riproduzione casuale. Decide lui che canzone farti ascoltare in quel preciso momento. Un po’ come se creasse per te una cassetta-compilation nuova ogni attimo, sorprendendoti, irritandoti o commuovendoti.

Ai miei tempi tu non c’eri, ma stamattina l’iPhone, mentre correvo all’ennesimo treno e pensavo che tutto non va mai come deve andare e che l’inverno mi fa paura e che le cose rotte, quando si aggiustano, restano con le crepe e che bisogna davvero essere adulti e forti, l’iPhone, dicevo, stamattina ha scelto per me quella canzone che ti somiglia, ci somiglia. E io ho rallentato il passo e ho pensato cazzo! è un segnale, una coincidenza, è così che dovevano andare le cose, era destino, non potevano andare altrimenti, non potevano andare altrimenti, non potevano proprio.

In questa riproduzione casuale c’era un destino, era come se il regista di questa mia maledetta vita avesse scelto perfettamente la colonna sonora dei pensieri di questa mattina nella stazione di Torino Porta Nuova.

Quella canzone apparsa per caso mi ha fatto capire che c’è qualcosa di drammatico e crudele nelle scelte giuste, che non bisogna mai accontentarsi del troppo poco, ma pretendere il meglio, che non bisogna mai aspettare chi non è disposto ad arrivare, che non bisogna mai avere paura di chiedere di essere amati di più, di più, di più.

Ai miei tempi facevamo le cassette e ce le regalavamo e coloravamo le copertine con l’Uniposca e scrivevamo le dediche sugli adesivi da attaccare alla plastica.

Erano tempi belli, i miei tempi. Sono belli anche adesso, questi tempi qui, dove a volte ci siamo incontrati e siamo stati vicini e sembravano davvero momenti perfetti, riprodotti chissà come, così, in maniera casuale.

Domani mattina

Quello che ci frega è che abbiamo tutti e due un passato.

Abbiamo vissuto tanto e visto e viaggiato e provato e assaggiato. Abbiamo pianto tutte le lacrime del mondo e goduto e ferito e siamo fuggiti e siamo tornati. Abbiamo seppellito i nostri padri sbagliati, distratti, crudeli e lontani. Abbiamo pianto amici che non ci sono più. Abbiamo detto mille volte ti amo e mille volte è finita. Abbiamo lavorato e fatto cose che ci hanno resi migliori e cose che ci hanno resi brutti e cinici e meschini e piccoli. Abbiamo detto basta e abbiamo detto ancora.

Sono adulta da una vita. Lo sono diventata troppo presto. Succede. E non mi è piaciuto. Non mi è piaciuto perdermi la spensieratezza e il disimpegno e i capricci e i sogni leggeri e stupidi.

Sono adulta da una vita e ho già imparato tanto e sono caduta tante volte e mi sono rialzata quasi sempre e qualche volta sono rimasta a terra ad aspettare, ad ascoltare le voci distratte intorno a me che si allontanavano, a darmi la spinta per riportare le spalle in alto.

Sono la somma di tutte le cose che ho vissuto, di tutte le cose che ho imparato, di tutte quelle che ho dimenticato. Sono l’insieme del bello che ho incontrato, dei sorrisi, delle carezze rubate, dei baci, delle urla disperate, dei silenzi, degli occhi lucidi, degli schiaffi, del dolore.

Quello che ci frega è che abbiamo tutti e due un passato e fantasmi e scheletri e zaini pesanti sulle spalle e parole lasciate in sospeso e bisogni inconfessabili e paure e desideri.

Quello che ci frega è che il passato non possiamo cambiarlo. Non ce la possiamo fare.

Possiamo cambiare il futuro.

Magari ci proviamo domani mattina.

L’umidità

Quelle giornate in cui il cielo è bianco vorresti soltanto rimanere a letto e rigirarti tra le lenzuola e non aprire gli occhi, fino a quando non fanno male i muscoli o devi fare la pipì, e restare fermo, nel dormiveglia, a pensare e sognare, sognare e pensare.

Quelle giornate umide e grigie, come oggi, come forse l’altro ieri, non sono fatte per vivere, sono fatte per resistere, sono fatte per escogitare una fuga, sono fatte per sopravvivere.

Così cammino poco, leggo, scrivo, però lascio a metà le frasi, rileggo dieci volte le e-mail prima di spedirle, prendo il telefono, provo a chiamarti, poi prima del primo squillo metto giù. Ti chiamo dopo. Anzi ti scrivo.

È umido. Il gatto dorme da ore. Ho rotto quella regola che mi ero imposta di non bere più caffè il pomeriggio, dopo le sei.

Ascolto una canzone, ma la interrompo a metà. Preferisco il silenzio, oggi. E il rumore lontano della strada che entra dalla mia finestra al quinto piano.

È umido. Ho i capelli gonfi. Tu non rispondi. Ti scrivo ancora. Poi conto fino a cento. Poi ti chiamo. Faccio solo tre squilli. Se non rispondi metto giù. Se rispondi, ti dico che mi manchi.

E poi aspetto che faccia buio buio, chiudo la finestra, accendo la TV e guardo e penso e mi addormento sul divano, senza dire una parola.

Generazione 56k

L’estate dei blogger finisce con i giorni della Blogfest.

Fino all’ultimo giorno indecisa se andare o meno. A Riva del Garda farà freddo, come sempre, pioverà, poi ci saranno troppe persone, troppe poche persone, troppo alcol, troppo poco alcol, troppi amici, troppi pochi amici. Vado. Non Vado. Vado. Non vado.

Alla fine ci sono andata. C’era il sole e un sacco di pioggia. C’erano amici veri e persone che non avrei mai voluto rivedere. C’erano i vecchi blogger e i nuovi abitanti della rete.

Un tempo la Blogfest era la nostra festa, quel momento che ti faceva dire ecco la mia gente! o frasi così. Era una delle poche occasioni per vedersi, nel senso proprio di guardarsi in faccia, di associare la faccia a un nick, di chiacchierare senza uno schermo, di fare sesso dal vivo e non in cam con qualcuno conosciuto tra i commenti di splinder.

Il primo anno lo sponsor aveva spesato tutti quelli che qualcuno aveva definito blogstar. Gli altri, come me, erano esclusi da alcuni posti, eventi, ristoranti. Entravi solo se eri Blogstar. Tutti i blogger sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Il primo anno è stata una festa fascista, probabilmente in buona fede, e io mi ero detta mai mai mai più.

Poi ci sono tornata sempre, tranne l’anno scorso che proprio no, no, no. Era diventata una festa bella, erano tutti uguali, si mangiava insieme, si discuteva, si scambiavano idee, si creavano connessioni, si cercava lavoro, si cercavano amicizie.

I blogger non ci sono più. Sono in via d’estinzione. Quest’anno c’erano tante facce nuove: facce da twitter, da facebook, da friendfeed.

C’eravamo noi in un angolo, i vecchi dinosauri, la generazione splinder, la generazione che bloggava con il 56k. Guardavamo i giovani e le agenzie venute a fare markette e gli sponsor che chiedevano twit in cambio di alcol, magliette, caffè, spille, borse, penne.

C’erano i barcamp, ma poca partecipazione dal basso. C’erano più momenti di socializzazione che momenti di condivisione di idee e progetti.

La Blogfest è una festa. Non si va per imparare, si va per chiacchierare, abbracciare, salutare, bere, mangiare, accoppiarsi, ballare.

La maggior parte degli amici che c’erano a Riva del Garda li vedo tutto l’anno. Però è bello incontrarci per ricordare solamente come ci siamo conosciuti. Ci siamo conosciuti ognuno sul proprio divano, alla propria scrivania, passeggiando per la rete.

All’improvviso, seduti a un tavolo, riparandoci dalla pioggia, ci siamo messi a rievocare i “vecchi tempi”.

Siamo diventati bambini grandi. Alcuni si sono sposati, altri hanno figliato, altri sono spariti, altri ancora hanno fatto fortuna, moltissimi invece no. Era un po’ come il finale di Sapore di mare, con noi seduti alla Capannina e, in sottofondo, le note di Celeste Nostalgia. Che quasi ci scappa la lacrima.

Sono stata bene. Il mio blog respira ancora, anche se a fatica. Se mi chiedono cosa fai nella vita? la prima cosa che rispondo è sempre la blogger.

I blog stanno sparendo, come i calzolai, come i Blockbuster, come gli impagliatori di sedie. Arriveranno cose nuove e bellissime e ci sarà tanta altra gente che si ama-odia-abbraccia-lavora insieme-disprezza-discute. Noi saremo in un angolo a dirci che siamo stati i primi. Poi inizierà come sempre a piovere e allora ordineremo un altro spritz, guardando il lago grigio e silenzioso.