Il futuro è già iniziato da un pezzo

Ieri sera camminavo nella nebbia, rientrando da una cena con amici. Camminavo nella nebbia gelida, con i capelli gonfi di umidità e le dita ghiacciate, ascoltando la musica e pensando alle cose.

Pensavo che per me il presente è sempre stato una sala d’aspetto del futuro. Tutto sarebbe successo poi: la serenità, la felicità, i progetti, i traguardi, i successi, i soldi, la vita.

Mentre ero ferma al semaforo pensavo che ho sempre vissuto ora come se il domani sarebbe stato meglio, pensando che un giorno tutto sarebbe stato perfetto, senza sbavature, senza fastidio, senza dolore, senza intoppi.

A vivere pensando al futuro, spesso non ti accorgi del presente. Lo senti, ti attraversa, ti invischia, ma non lo vivi davvero.

E se quello che aspettavo, per cui ho patito tanto, per cui ho atteso, per cui ho lottato, per cui ho perso e per cui ho vinto, fosse già qui?

Se questo fosse tutto? Se fosse arrivata l’ora di raccogliere e smettere di seminare?

Pensavo a queste cose, mentre camminavo nella nebbia, ieri sera, con le dita ghiacciate e i capelli gonfi.

E pensavo a quando mi hai detto che avremmo passato tutto il futuro insieme, fino a diventare vecchi.

Ecco, non so come dirtelo… il futuro, il nostro futuro è già iniziato da un pezzo.

 

Avvisi (che, poi, anche chissene)

L’elettricista, dopo mesi di solleciti, non è mai passato. Non credevo che Milano avesse così tanto bisogno di luce.

Ho ripreso a drogarmi di carboidrati.

Anche domani mattina, alle 10.25, sarò in diretta da Unomattina Rosa, RaiUno. Meno male che mia madre è in pensione e può guardarmi. Qui trovate le puntate precedenti.

A metà febbraio, vado in Brasile a diventare zia.

Sono in ritardo con le consegne e, per la disperazione, perdo tempo.

È sempre il momento giusto per un boccone di mozzarella di bufala. Anche a colazione.

Tra le nuvole

La prima volta che ho preso un aereo avevo appena compiuto due anni. I miei genitori erano ancora sposati e ci stavamo trasferendo in Olanda, a Deen Haag. Mia mamma aveva il pancione, aspettava mio fratello. Siamo partiti di notte, da Roma, con un volo della Thai che faceva scalo a Scheveningen. Non ricordo quasi nulla. Dev’essere stato bello.

Il volo più emozionante che ho fatto è stato quello il secondo anno di università, per Damasco. Era un viaggio organizzato con i compagni del corso di arabo. Nessuno sull’aereo allacciava le cinture o stava seduto e io mi sentivo come in partenza per la scoperta del mio futuro. Un futuro da antropologa del Medio Oriente che ho abbandonato tre anni dopo la laurea.

Il volo con più aspettative è stato quello da Venezia per Parigi, quando mi sono trasferita per l’Erasmus. La borsa di studio durava nove mesi. Sono rientrata in Italia dopo due anni.

Il volo più silenzioso che ho fatto è stato quello da Monaco a Mosca. Stavo raggiungendo il mio ragazzo dell’università. Ero innamorata come una scema. Non capivo una sola parola di russo. Lui si è presentato all’aeroporto con un’ora di ritardo. Stava giocando a calcetto.

Il volo più divertente è stato durante il mio primo viaggio in SudAmerica. Con la mia splendida cognata Irma, siamo partite da Santa Cruz de la Sierra per Cochabamba, in Bolivia. Da brave sudamericane, ci eravamo presentate la mattina nell’aeroporto sbagliato. Così abbiamo preso un taxi e ci siamo ritrovate nell’aeroporto giusto con solo 20 minuti di anticipo sul volo. Erano tutti divertiti. Non hanno fatto passare i bagagli nello scanner, ci hanno aperto un enorme portone e ci hanno lasciate correre per la pista per salire sull’aereo con i motori già accesi.

Il volo più turbolento è stato quello di rientro da Lampedusa, per Catania, nell’estate più bella della mia vita. L’aereo aveva cominciato a ballare come un Tagadà. Ero con gli amici di una vita. Ci siamo tutti guardati e, per istinto, ci siamo fatti il segno della croce. E poi siamo atterrati sani e salvi per raccontarlo.

Il volo che ho più rimpianto è stato quello che ho perso nel settembre scorso, per New York. Non sono partita, rinunciando a un viaggio che desideravo da tanto tempo e che spero di fare presto.

Poi ci sono tanti, tanti voli belli e brutti che ho preso e tanti, tantissimi ancora da fare. Volare non è come viaggiare in treno o in macchina. Ogni viaggio in aereo è l’inizio o la fine di un’avventura.
Appena laureata avevo fatto le selezioni per fare la hostess. Ma poi ho capito che lavorare su un aereo non era una cosa per me.
Io voglio guardare fuori dal finestrino e leggere e stringerti la mano e sorriderti e farti appoggiare la testa sulla mia spalla e sconfiggere il mal d’orecchie e prendere in giro quelli che applaudono all’atterraggio e lamentarmi di quelli che non riescono a tenere spento il cellulare e studiare il catalogo di meraviglie che ti vendono a bordo e che non comprerei mai e immaginare come sarà, una volta scesi a terra, dopo aver recuperato il bagaglio e varcato l’uscita e respirato l’aria dell’ennesimo altrove.

(Domenica sarò ospite all’inaugurazione del terzo satellite di Malpensa, insieme a Linus, Nicola Savino e tanti altri. Sarà divertente passare la giornata in aeroporto. Se passate, ci vediamo lì. E se ci va, prendiamo il primo e volo e non torniamo più).

Un anno in più

Un anno in più sono centinaia di sorrisi, migliaia di caffè, dozzine di pizze con la mozzarella di bufala, un sacco di scarpe, tantissimi treni, un po’ di aerei, camere di hotel, valanghe di righe di chat, tanti baci, ma mai troppi, qualche lacrima, sveglie presto e mattinate a letto, amici nuovi e vecchi amori, giornate di sole e maledetta pioggia, innumerevoli bicchieri di vino, molti libri letti e uno scritto, sorprese, cambiamenti e vizi antichi, qualche nuovo paia di jeans, tutte le tue carezze, tante ore chiusa in palestra a sperare che il tempo non passi, progetti, discese ardite e risalite, una torta con sopra le candeline e tanta, tanta strada ancora da fare.

(Sono passati un po’ di anni dai venticinque, ma se facciamo finta di niente è come se non fosse mai successo).

Quella volta che sono diventata David Trueba (ovvero della menzogna sul web)

Vi riassumo in breve quello che succede su tumblr e come questo modifichi la nostra idea di realtà.

Un paio di anni fa ho scritto questo.

Terminava in questo modo:

“E io ho capito, in questo anno di rimpianti, speranze, persone, tante parole e tantissimi silenzi, una verità crudele e dolce, che mi ha fatta sentire completamente adulta: la vita non è l’insieme di tutto quello che abbiamo perso, ma la somma di tutto quello che ci è rimasto.
Allora prendo la vita che mi resta e provo a viverla, perché quello che mi aspetta non può che essere il migliore dei futuri possibili.”

Sì, lo so. Quando mi impegno scrivo cose belle. Poi mia mamma le legge e mi chiama per dirmi “core de mamma, vedi che non sei proprio l’ultima dei cretini?”.

Queste righe sono state tumblerate tanto, poi postate sui gruppi di Facebook, poi altrove. Il fatto che le avessi scritte io si è perso nella nebbia.

Un genio, un anno fa, le ha postate attribuendole a David Trueba, affermando che erano tratte dal suo libro “Quattro amici”, libro pubblicato nel 2003, un bel po’ di anni prima che io potessi anche solo pensarle. È stata tumblerata centinaia e centinaia di volte. Cioè, mi dovrei sentire anche lusingata! E a ruota, altri furbi, non sapendo nemmeno chi fosse Trueba, hanno riportato la stessa citazione in quei siti che raccolgo aforismi di tizio e caio, sempre attribuendola a lui.

Ecco, io mi immagino quello che, leggendo la frase, dice “ah, bravo ‘sto Trueba, mo’ mi compro il libro”, per poi non trovare traccia di queste righe.

Penserà che gli hanno venduto una copia difettosa.

Così, per dire che su tumblr si crea, spesso in buona fede, una nuova intelligenza collettiva che attribuisce i vostri pensieri a Trueba.

Che, comunque, adesso mi deve dei lettori. Dico lui, Trueba.

Io non dimentico.

Adesso gli scrivo un’email.

Quella cosa che mi manca

Sento che mi manca qualcosa. La cerco ovunque. Scaricando email, rovistando nell’armadio, sfogliando libri, passando per le strade che abbiamo attraversato insieme.

Cerco quella cosa che mi manca e non so dov’è, come quando non trovo quella borsa che mi piaceva tanto, come quando non so dove sono finiti i guanti, dove ho lasciato gli occhiali, dove ho messo le chiavi. Quella cosa che mi manca e che adesso è la più importante, quella fondamentale.

In questi giorni c’è la nebbia e l’umidità gonfia i capelli e appanna i vetri e ti fa sentire più grigia del solito. Indosso stivali caldi e quintali di mascara. Mi proteggono dall’inverno.

Sento che mi manca qualcosa. Apro i cassetti, chiamo gli amici, rileggo cose lette centinaia di volte, bevo vino, mi tuffo nei saldi, mi chiudo in palestra.

Da qualche parte devo averla messa. Da qualche parte al sicuro. Quella cosa che mi manca e che conosciamo solo io e te.

Io e te.

Ci puoi scommettere

Tra pochi giorni sarà il mio compleanno.
Non mi è mai piaciuto invecchiare. E non mi piace festeggiare subito dopo il tripudio natalizio, capodannesco e dell’Epifania.
Non amo invecchiare, ma quest’anno mi sembra più accettabile, meno crudele.

Dicono che succede quando diventi adulto.

Ho capito delle cose, ultimamente. Delle cose che erano lì, a ronzarmi nella testa da anni, ma che sembravano distanti, criptiche, complicate, inopportune.

Ho capito che ci sono stagioni della vita e sono tutte belle e impegnative ed emozionanti. Ma bisogna saperle accettare. E a me non andava proprio a genio di lasciare andare i vent’anni, così comodi, così ribelli, così leggeri, così appassionati.

Un giorno ti svegli, ti guardi intorno, e hai costruito delle cose. Non tutte reggono, non tutte funzionano. Il lavoro va e viene e ti angoscia, ti mortifica, ti dispera o ti gratifica sempre di più. I tuoi amici hanno fatto dei figli, hanno comprato automobili grandi, hanno iniziato a fare le ferie in montagna o al lago, passano le sere a guardare reality in TV. I tuoi genitori sono invecchiati, ti chiamano in continuazione per delle sciocchezze, ripetono sempre le stesse cose, diventano meno indipendenti, hanno più bisogno di attenzioni.
Non fa male essere cambiati, essere cresciuti. Infilarsi a letto il sabato sera a mezzanotte sembra quasi una conquista: non devi più dimostrare niente, non devi più aggredire il mondo, non devi più trasgredire.
Anche se poi lo fai quando ne hai voglia e con più stile e con più classe e con più lentezza.

Non so esattamente cosa volessi dire.

Non credevo che la mia vita sarebbe stata questa. Poteva andarmi peggio.
Ho passato tanti anni ad avere fretta. Sempre di corsa. Sempre di corsa.
Avevo fretta di vivere, di provare, di sentire, di fare tutto tutto, di rompere gli schemi, di andare oltre le regole.
Sempre di corsa. Sempre di corsa.
A volte arrivavo prima. E magari il portone era chiuso e dovevo comunque aspettare che qualcuno mi venisse ad aprire.

Per colpa di desideri o di ambizioni sbagliate, ho passato tanto, troppo tempo, circondata da persone che non mi hanno fatto bene. Ho usato parole belle che si sono consumate in fretta e allora mi sono nascosta nelle parole brutte, violente, faticose.

Sono scappata innumerevoli volte e non sono tornata quasi mai, perché ho sempre considerato i ritorni dei fallimenti.

Adesso sono adulta e capisco e non ho fretta e aspetto e scelgo. Soprattutto scelgo. Le persone, i colleghi, i posti, gli affetti, l’amore.

Anche l’amore diventa diverso, quando non hai più vent’anni.

Ho desiderato tutta la vita uomini che non potevo avere o uomini che fuggivano o uomini tormentati, strambi, eccentrici, figlidiputtana.

Ho passato la vita a cercare l’uomo che mi facesse vivere continuamente con le farfalle nello stomaco, che mi dicesse no, no, non posso, non voglio, non voglio stare con te, non posso stare con te. Un passo avanti, due passi indietro. Un passo avanti, due passi indietro.

Non so perché l’ho fatto. Per sfida, per paura, per desiderio. C’è così tanta passione nelle storie difficili! Non sarebbe bello vivere in un romanzo di quelli incasinati, ma che, poi, finisce bene?

Ho passato la vita a cercare la metà della mela. Perfetta. Precisa. Ho fatto un po’ di strada con uomini speciali, ho costruito castelli, case, sogni, desideri. Poi è tutto finito.

Passi tutta la vita a idealizzare l’uomo giusto, il principe azzurro, l’artista bello e dannato, e poi ti innamori di un esattore delle tasse o di un maestro elementare o di un metallaro quarantenne dai capelli lunghi.

L’amore è la cosa più ridicola e bella che ti possa capitare.

Alla mia età lo accetti e impari.

Impari che non è necessario riempire i vuoti e avere fretta e accontentarsi e rinunciare ai propri sogni e mettere le ambizioni e i desideri in un cassetto.
Impari che se non credi in te stesso, nessuno crederà in te, che se non impari a stare da solo, nessuno starà bene con te, che se non impari a godere delle cose che hai, non sarai mai sazio.

Tra pochi giorni è il mio compleanno.
Ho quasi capito cosa voglio fare da grande.
Ho capito che non bisogna dare agli altri illudendosi che un domani diano a te.
Ho capito che c’è ancora tanto lavoro da fare.
Ho capito che l’unico amore per cui vale la pena di lottare è quello che ti dice “voglio stare con te. Anche se fa paura, fa male, è difficile, è complicato, io voglio stare con te”.
Ho capito che tutto passa.
Ho capito che senza di te spariscono i colori.
Ho capito che nei fine settimana Milano si svuota.
Ho capito che sarà un grande anno. Il migliore.
Ci puoi scommettere.