La generazione dello speriamo

“Siamo la generazione dello speriamo”, ci siamo dette un paio di sere fa io e la mia coinquilina, mentre consumavamo una delle nostre cene improvvisate davanti al solito telegiornale apocalittico.

Le nostre non sono speranze allegre e motivanti, così normali da giovani e così appaganti da vecchi. Il nostro speriamo nasconde fatica, frustrazioni, terrore per il futuro e un enorme dispendio di energie.

L’Italia non è mai stato un Paese meritocratico e non ne ha mai fatto mistero. Importa molto poco il talento. Quello che ha davvero valore è il cognome. Eppure siamo riusciti ad andare avanti senza estinguerci (forse nostro malgrado) e a costruire qualcosa che sembra progresso e, molto raramente, sembra anche democrazia.

Per quelli come noi, nati alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80, c’è stata anche la sfiga generazionale. Siamo entrati nel mercato del lavoro quando stava cambiando, sgretolando certezze e condannandoci a effimeri spiragli di normalità professionale che la storia ha bollato come precariato.

È vero, e lo sosterrò fino alla morte (che mi travolgerà precoce per l’ansia da mutuo), che la rivendicazione di un diritto al lavoro non deve essere alibi per mascherare incompetenza, inadeguatezza e pigrizia. Non tutti siamo bravi, non tutti siamo all’altezza, non tutti ci facciamo davvero il mazzo e meritiamo di poter progettare un futuro. La crisi aumenta la competitività e dovrebbe fare emergere talenti.

Dovrebbe.

Purtroppo non ci riesce sempre, perché qualsiasi talenti e idee hanno bisogno di un fazzoletto di terra per essere piantati, curati e lasciati crescere. Un piccolo capitale da investire, un mecenate, un’occasione, un contatto, un’università prestigiosa pagata dai genitori, la casa di tua zia presa in affitto per due lire. Esistono persone che si sono fatte da sole, ma la maggior parte ha iniziato a navigare nel grande mare delle professioni aggrappata a un piccolo salvagente che aveva in dotazione.

E comunque non siamo giustificati, quando ci lamentiamo senza dare il massimo, quando ci rassegniamo e smettiamo di cercare, quando pur di rimanere nello stesso quartiere in cui siamo nati, rinunciamo a possibilità di lavoro più lontane.

Nella giungla, se ti fermi troppo tempo sotto a un albero ad aspettare che la frutta ti cada in mano, rischi di essere sbranato dai ghepardi o, se ti va di lusso, che le scimmie ti usino come toilette.

Chi si ferma è perduto, ragazzi! Celacrisi, celacrisi, celacrisi!

Detto questo, però, non raccontiamoci balle. Anche quando diamo il meglio e siamo bravi e non molliamo e rischiamo e abbiamo coraggio e non tentenniamo, finiamo a guardare il calendario sul nostro computer, a contare i giorni che ci separano alla fine del mese e a dire speriamo.

Nell’ultimo periodo, mi sono ritrovata a sopravvivere facendo solo cose che mi piacciono. Dopo anni e anni di frustranti lavori svolti, anche con entusiasmo, solo in funzione dello stipendio, inizio a occupare il mio tempo facendo cose molto vicine a quelle che avrei voluto fare da grande.

Va bene, certo, non mi ci mantengo ancora, ma spero di farlo molto presto (e lo spera anche la mia commercialista, che passa il tempo a tirarmi le orecchie per la mia incapacità non di essere libera, ma di essere professionista).

Quando mi dicono eh, però hai avuto fortuna, avrei voglia di saccheggiare tribù e radere al suolo villaggi. La fortuna è quella di Gastone Paperone, che si china ad allacciare la ghetta e trova un portafogli colmo di dollari. La fortuna è quella della ragazza della porta accanto che accompagna l’amica a un casting e viene scelta come testimonial planetaria di una campagna pubblicitaria fichissima (NdR storia che, tra l’altro, fa parte della mitologia di quasi tutte le top model, pensaunpo’).

La fortuna è quando a prescindere da merito, impegno, fatica, dolori, lacrime, porte in faccia, le faremo sapere, ti viene dato qualcosa.

In pochissimi hanno davvero fortuna e, tra questi pochissimi, non ci siamo né io né te.

Siamo una generazione fondata sullo speriamo. In questi giorni speriamo addirittura che ci diano un governo che finalmente possa indicarci come continuare a morire ammazzati. Speriamo e stiamo invecchiando. Facciamo progetti sperando, conviviamo sperando, figliamo sperando.

La sola consolazione è che abbiamo imparato la leggerezza e che, mai come ora, l’ironia sembra essere epidemica.

Dicono che toccato il fondo, si inizi a risalire.

Speriamo.

Speriamo.

Chi vive sperando, muore cagando! Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941.

I ricordi perfetti

Qualche giorno fa ho ritrovato in un cassetto delle foto di quando ero ragazzina che non mi sono mai piaciute. L’immagine ritratta in quelle foto non mi rappresentava. Non mi vedevo così. Anzi, non volevo vedermi così.

L’adolescenza non è stata clemente con me. Fino ai 17 anni sono stata cicciotta e poco carina, dopo i 17 sono diventata scheletrica e poco carina. Avevo un sacco di personalità, senso dell’umorismo e cervello, però, eh, oh, è andata così.

Mentre facevo a brandelli quelle fotografie, mi sono chiesta come mai non me ne fossi liberata prima.
Per molto tempo ho avuto il timore di sbarazzarmi di alcune immagini che ricordavano il mio passato, comprese quelle a cui erano legati ricordi spiacevoli. Mi sembrava di rinunciare a un pezzo di vita. Attribuivo un valore sacrale a quelle stampe 10×15 cm.

Nel mio recente viaggio in Brasile, durante il quale ho scattato così tante foto che non basterebbe un social network intero per contenerle, mi sono accorta che qualcosa è cambiato.

Uno scatto che non mi piace lo cancello. E ci riprovo. Se mi trovo brutta in una foto, la rifaccio. Se non posso rifarla, amen, la butto nel cestino e finisce lì.

La tecnologia ci ha dato una grandissima possibilità: costruire e preservare i ricordi migliori che possiamo avere.
Ormai salviamo solo il meglio, quello che non ci mette a disagio e ci fa stare bene.

In Tutto su mia madre di Almodóvar, il meraviglioso personaggio di Agrado dice “Una es más auténtica cuanto más se parece a lo que ha soñado de sí misma“. Più somigli all’idea migliore che hai di te stessa, più sei vera.

Non c’è nessun motivo per non riempire la memoria di ricordi perfetti. Io ci sto provando.

(Questo post è anche per chiederti di non taggarmi in foto in cui faccio schifo. Non lo fare. Davvero. Non farlo. Grazie).

Parto prima io

Io sono una che corre. A dispetto della mia pigrizia, dell’accidia, del terrore di sbagliare, della malinconia sempre infilata tra le ossa. Sono una che corre, perché bisogna andare avanti e arrivare e realizzare, perché bisogna guadagnare il proprio posto al sole, che è sempre un po’ oltre, più avanti, più avanti.

Sono una che corre e inciampa e cade e si sbuccia le ginocchia e si rialza e poi corre ancora. Prima o poi si arriva. Prima o poi.

Mi capita di fermarmi, a volte, per scelta o accidente, per motivi tristi e motivi felici, e metto a posto i tasselli, tutto in fila, tutto in ordine.

Perché le cose non le capisci mentre corri, ma quando ti fermi a riprendere fiato.

E capisci che gli affetti, le risate, le cene insieme, seduti a tavola per ore, il bagno a mare e nei fiumi scuri, le foto con i sorrisi, i regali, soprattutto quelli superflui, i pianti liberatori e gli abbracci, i progetti e i ricordi, raccontati davanti a una birra ghiacciata, valevano tutti gli ostacoli e tutti gli affanni.

La vera fortuna nella vita non è avere tutto con facilità, ma riuscire a capire il valore di quello che hai.

Ieri l’ho capito. E mi sono asciugata di nascosto una lacrima infame.

I colori, i suoni, le parole, le risate, il vento caldo, i silenzi sono tutti dove dovrebbero essere.

Abbiamo fatto proprio bene a fermarci a riposare qui. Domani torneremo a correre, con le gambe leggere e lo zaino sulle spalle.

Parto prima io e prendo il posto per tutti.