Mondi nuovi

A vent’anni gli altri sono mondi nuovi. Le persone ti sorprendono, ti insegnano, ti mostrano le cose che non avevi mai notato. E se ti deludono, lo fanno in maniera nuova, in modi che non avevi mai visto né provato. A vent’anni le persone sono prime volte, da gustare, da scoprire, anche quando sono orribili e fanno male.

Crescendo impariamo a capire, a proteggerci, a prevedere. Gli altri diventano categorie, li capiamo con un paio di sguardi, soppesiamo la prima impressione, selezioniamo quelli che ci piacciono e ci somigliano.

Da adulti, gli altri sono linguaggi decifrabili, sono libri da leggere, anche quando sono noiosi o faticosi. Alcuni sono repliche di persone già incontrate, già amate, già lasciate.

È sempre più raro che le persone ti sorprendano quando diventi maturo e corri verso gli ‘anta, tuo malgrado. Eppure accade, in circostanze molto fortunate, di inciampare in due occhi che sono pianeti completamente nuovi, mai visti, mai provati. Incontrare una persona che non riesci a decifrare, alla mia età, è un evento che scuote, è un terremoto, è uno tzunami.

E cerchi di capire e di inquadrare e di cogliere somiglianze e trovare una chiave di lettura e non c’è nulla che possa aiutarti a comprendere la persona speciale. Puoi solo viverla per conoscerla.

È bello e spaventoso stupirsi di un altro. Un altro tanto unico che non ne avevi conosciuti mai così. Un altro che ti ha costretta a usare parole nuove. Un altro che non vuoi perdere. Un altro che diventa una prima volta che conserverai per sempre nella memoria, come il biglietto di quel concerto nascosto tra le pagine del vecchio diario, che sbuca fuori all’improvviso e ti ricorda quanto è bello vivere.

Tempi di recupero

Ho sempre pensato che il più grade lusso sia poter gestire il mio tempo come credo.

Gli ultimi anni da dipendente li ho vissuti da pendolare: bici legata dietro la stazione, treno all’alba, battello fino a Rialto, solo mezz’ora di pausa pranzo, battello, treno, bici, rientro.

E poi ci sono stati quei lavori in auto a 25 km da casa e quelli per cui prendere la metro, l’autobus, la corriera, il calesse. E i cartellini e gli straordinari e i recuperi e il lavoro fatto a casa nei weekend e mai retribuito e le riunioni che finivano alle nove di sera perché l’amministratore delegato si era svegliato nel primo pomeriggio e aveva fatto tardi.

Tutti lavori pagati pochissimo, perché ringraziaiddio che ce l’hai un lavoro, perché cèlacrisi, perché è il mercato, perché potremmo sempre fare a meno di te, perché – vedrai! – al rinnovo ti facciamo lo scatto di livello e invece mai.

Quando ho deciso di diventare una libera professionista, ero molto stanca. Guadagnavo poco, lavoravo tanto e avevo troppe responsabilità e poca soddisfazione. È stata una scelta obbligata: esaurimento nervoso o tranquillità. L’uno o l’altra.

Adesso il tempo lo gestisco io. Quel poco che mi rimane. Perché non ci sono più orari, fine giornate, fine settimana. I giorni in cui posso dormire fino a tardi sono quelli in cui non c’è lavoro. Quando non c’è lavoro non si guadagna. Nell’ultimo anno ho lavorato molto poco e ho guadagnato pochissimo. Un anno che ho chiamato “tempo di recupero”.

Non tornerei indietro. Preferisco inseguire tanti clienti che leccare il culo a un solo padrone. Preferisco lavorare di notte e poi dormire un paio d’ore dopo pranzo. Preferisco stare a casa che in ufficio. Tra guadagnare poco alla scrivania di un’azienda e guadagnare poco sul mio divano, ho scelto la seconda. L’ho fatto soprattutto per un motivo: il posto fisso non mi avrebbe comunque garantito di campare serena.

Fino a quando potrò resistere, resisterò. Negli ultimi due anni ho fatto molte cose belle e ho stretto molto la cinghia. Ho avuto il tempo per scrivere e leggere. Un ottimo tempo di recupero.

Sono convita che le cose andranno meglio. Vivo un’altalena emozionale continua. Un mese fa temevo di morire di fame, adesso penso che potrò arrivare almeno a luglio.

Stamattina ho dormito fino a tardi. Stanotte lavorerò per recuperare.

È tutta una questione di gestione del tempo e gestione delle tazzine di caffè.

Caffè e tempo. È tutto lì.

Festival di Cannes – mattina #2

Se potessi, vivrei tutto il giorno, tutti i giorni, leggendo libri e guardando film. Lo farebbe chiunque (anzi, in molti non leggerebbero, perché – ahinoi! – sta passando di moda).

A Torino c’è il Salone del Libro, a Cannes la meraviglia del cinema.

Se potessi, vivrei in un festival perenne. Tre pellicole al giorno, un caffè a due passi da François Ozon, discussioni lunghissime su significati e montaggi, sorrisi della gente, male ai piedi e poche ore di sonno.

Se potessi, vivrei la vita come se fosse un film, con i tempi giusti, i dialoghi in cui non sbagli una parola, gli sguardi perfetti, i silenzi impeccabili.

Se potessi, scroccherei champagne tutte le sere e metterei sempre l’abito lungo che mi hanno prestato e sorriderei pensando che la vita è tutta patinata, che i capelli ti stanno sempre perfettamente, che il rossetto non  sbava mai, che la tua storia basta solo raccontarla al meglio e che ogni esistenza è un film, che puoi guardare anche senza aver fatto l’accredito.

Carlton Cannes

Festival di Cannes 2013 – mattina #1

Siamo arrivati di notte con il diluvio e l’autista che prendeva scorciatoie che conosceva solo lui, inerpicandosi tra discese ardite e risalite.

Pioveva. Piove anche stamattina.

Siamo arrivati troppo tardi per l’attesissimo party del Grande Gatsby. Tanto non avevamo l’invito. Ma dice mettiti un vestito elegante e facciamo le gnorri e andiamo a imbucarci. Non so se avrebbe funzionato. Secondo me, no. Ché io non ce l’ho nemmeno un vestito Prada e senza Prada non ero né grande né Gatsby.

Da lontano sembra che il cielo si stia aprendo. Noi gente dello staff di Magnum (sì, sono la tipa del gelato più famoso del mondo) andiamo a fare foto e video.

Bite me

È un festival di gente seria. Ci sono i professionisti del cinema. Poi ci sono io. Io so fingere bene.
Se tutto va come deve andare, François Ozon mi noterà a mi prenderà nel suo prossimo film.

Vi tengo aggiornati e mi fiondo sulla Croisette.

Sono sopravvissuta e vado a Cannes

Avevo finito, in tempo per la scadenza.

Felice, cantavo ad alta voce scuotendo il sederone come Beyoncé.

Mentre rileggevo, prima di spedire all’editore, a meno dieci pagine dalla fine, un bug ha trasformato tutte le parole in asterischi. Tutte. Asterischi. No parole, non più. Asterischi. Nonostante avessi salvato, non tornava indietro. Asterischi. Ho chiamato amici, santi, madonne, parenti. Ho passato una notte terribile. Ho preso tranquillanti, ho rischiato che lui mi legasse al letto. PANICO. Ho recuperato con calma un backup di qualche giorno prima. Ho spiegato all’editore. Ho scritto giorno e notte. A due giorni dalla scadenza, ho riconsegnato.

Adesso mi sento come dopo una raffica di ceffoni, quando finalmente puoi sciacquarti la faccia e stendere un po’ di Cera di Cupra lenitiva.

Grazie a Maurizio, Giulia, Claudio, Daniela, Michela, Valeria, Elisabetta.

Stasera parto per il Festival di Cannes. Vado a fare l’inviata per Magnum (quella dei gelati buonissimi). Quattro giorni in cui spero di farmi notare da qualche regista che mi dice vieni via con me.

Vi filmo e racconto tutto.

Tutto è bene quel che finisce bene, ma la prossima volta, un backup ogni due ore.

Il maledetto mestiere di scrivere

Sono assente perché sto finendo un altro libro.

Ho scritto veramente un sacco, negli ultimi due anni, che quasi sembra un lavoro. E lo faccio sempre allo stesso modo, all’ultimo momento. Mi lambicco il cervellino per mesi, penso, ripenso, distruggo, parlo, racconto la storia agli amici per capire se funziona, poi la cambio, poi dico ma chi me lo fa fare, in rari momenti penso invece che può funzionare.

Sotto scadenza, quando proprio il tempo è finito e non ce la farò mai mai mai, inizio a scrivere. Il mio amico Emilio dice che siamo quelli che, durante i temi di italiano, prendevano la penna in mano a mezz’ora dalla fine, mentre il resto della classe stava già copiando in bella.

Non è un modo sano. Il tempo non fluisce più in avanti, ma diventa solo un conto alla rovescia. Segno su un foglio quanto manca, quante pagine scrivere al giorno per farcela. Mi dico “se mantengo il ritmo, è fatta”. Poi esco per un aperitivo, prendo un treno, passo il pomeriggio a far l’amore, vado dal parrucchiere. Rifaccio il piano di battaglia. Più pagine al giorno. Se mantengo il ritmo e non dormo, è fatta. Per qualche settimana, alla domanda “come stai?” rispondo sempre “non ce la posso fare”.

Quelli che fanno sul serio questo mestiere, ci mettono metodo e disciplina. Non tutti. Solo quelli che non amano vivere sempre con l’ansia e l’acqua alla gola. Non so se potrei farcela, a pianificare tutto per benino, a non essere sotto pressione, a non rompere le scatole a tutti gli amici con il devastante piagnisteo di quella che si riduce all’ultima ora.

Per esempio, adesso dovrei finire tre pagine prima di pranzo, mentre sono qui a scrivere che non credo di riuscire a finire prima di pranzo.

Scrivere è una fatica pazzesca. Non fidatevi di chi dice che si diverte taaaaaanto a scrivere. A Napoli diciamo che bisogna buttare il sangue. Non è una cosa facile.

Leggere  è facile. I libri sono già pronti e sono tantissimi. Dentro c’è il sangue di qualcun altro. Bisognerebbe leggere tanto di più e scrivere molto meno.

Ho una pila di libri sul comodino e nel kindle che mi terrebbe occupata per mesi. Appena finisco, mi ci tuffo. Devo solo finire queste paginette. Se non mangio e non dormo e non esco di casa e non respiro, secondo me, è fatta.