Quella volta che eravamo brava gente

Qualche anno fa avevo in progetto un lungo viaggio intorno al mondo, alla ricerca di connazionali immigrati di vecchia e nuova generazione, per fare un documentario che avrei chiamato “Italiani brava gente”.

Mi sarebbe piaciuto intervistarli, per sapere non solo perché si erano decisi a lasciare il Belpaese, ma anche cosa ne pensavano, cosa ricordavano, se il viaggio aveva aperto loro la mente, li aveva dotati del senso civico di cui in patria siamo totalmente privi, aveva dato loro un nuovo metro di giudizio sul “bene comune”. Se c’è qualcosa di italiano che ti resta attaccato addosso per sempre, un tempo come ora, oltre alla pasta, al parmigiano e alle camicie stirate da mammà per tutta la vita. Se abbiamo dei valori più forti perché cresciamo sotto l’ala ingombrante del Vaticano. Se il nostro attaccamento, spesso morboso, alla famiglia e la nostra espansiva gestione degli affetti ci rendano persone più tolleranti.

Ogni incontro con un italiano, in viaggio, è un momento di autoanalisi. Ci riconosciamo dall’aspetto esteriore, dagli immancabili occhiali da sole, dai vizi che detestiamo, ma di cui non riusciamo a fare a meno, dall’incapacità di adeguarci alle differenze culturali, dal bisogno di maccheroni, dalla fissazione (sacrosanta) per la pulizia, dal bisogno di fare shopping nelle catene della grossa distribuzione.

All’estero siamo più disciplinati perché ci accorgiamo che lo sono tutti gli altri, ma se percepiamo un malcostume lo facciamo subito nostro. Osserviamo le leggi degli altri come se fossero qualcosa di ineludibile, ma riteniamo che le nostre siano superflue, moleste, inutili, dannose. Siamo geneticamente portati alla scorciatoia, al disprezzo per le istituzioni. Nessuno ci ha mai spiegato che le tasse servono per pagare i servizi, che gli ospedali gratuiti, le strade, le scuole, gli asili, senza i soldi delle imposte non ci sarebbero. Quando funziona qualcosa in altri paesi è perché lì non ci sono “italiani ladri” e quando siamo a casa ci esercitiamo tutti alla furberia, perché la qualità che più apprezziamo in un essere umano è la scaltrezza.
Molti sono cervelli in fuga, quelli che hanno capito che la cultura è un valore aggiunto, che è un mezzo e anche un fine, che serve a renderti un essere umano migliore e non solo uno stipendio più alto. Sono quelli che trovano insopportabile l’idea di arrangiarsi con i “500 euro al mese che mi passa papà”, quelli che tanto il mondo è così piccolo che farsi una famiglia altrove è ormai come essere a casa.

La maggior parte apre la mente con il confronto e la distanza. Impara che non esiste una gerarchia naturale per cui il maschio è al di sopra della donna, che non “pare brutto”, se non ci si sposa in chiesa, che è del tutto lecito e naturale amare chi ti pare, anche fosse del tuo stesso sesso.

La maggior parte di quelli che si allontanano diventano ancora più brava gente.

Non tutti. Come non tutti sono demotivati, abbruttivi, incattiviti e intolleranti qui da noi.

Mi sarebbe piaciuto capire se è l’aria umida che si respira da troppo tempo qui a casa a renderci crudeli, a spingerci a idolatrare un politico ultrasettantenne che va con le ragazzine e a disprezzare un ragazzo che ama un altro ragazzo fino a fargli togliere la vita. Avrei voluto sapere se disimpariamo la civiltà perché siamo in guerra per il pane o se abbiamo sempre mascherato una nostra profonda ignoranza con le griffe che non possiamo nemmeno più permetterci all’outlet.

Volevo sapere se siamo un paese cattivo o solo un cattivo paese, perché nonostante il disprezzo che provo per molti di noi, nel leggere i titoli dei quotidiani, io penso ancora che possiamo essere migliori di così.

Non sono mai partita. Forse un giorno lo faccio. Nell’attesa, anche solo per farmi un favore, potremmo provare tutti a essere gente meglio, bravissima gente, italiani belli.

Il punto di non ritorno

Il punto di non ritorno è quando il viaggio diventa interiore.
Parti, ti decontestualizzi e vedi le cose da una prospettiva diversa, con colori che non ti erano sembrati mai di quella tonalità, con i suoni che ti sorprendono alle spalle e ti fanno sentire teso come un animale selvatico. Pronto all’attacco. Pronto.
I viaggi più incredibili sono quelli che ti succedono dentro, quando sei a casa e non la riconosci, quando le persone che ti stanno intorno tornano a essere mondi nuovi e ti sembra che tutto possa, debba, iniziare da zero.

Ricordo il primo lungo viaggio che ho fatto da sola con mio fratello. Avevamo vent’anni, un padre appena seppellito, il bisogno di sentirci vivi e la fame di scoperta. Mi è sembrato eterno ed è durato soltanto due settimane e poi mesi e mesi dopo, dentro, trasformandomi in qualcosa di diverso.

Non importa dove vai, ma come ci vai. E come torni, quando torni e se mai torni.

Sono rientrata piena di entusiasmo e di appunti. Mi sono detta adesso scrivo e scrivo e allora acquisterà un senso tutto quest’anno passato a dire che bisogna fare delle proprie passioni un mestiere, sarà servito a qualcosa rinunciare al terzo libro previsto a Natale di una trilogia che non finirà, per raccontare le storie che mi vivono dentro da un po’.
Mi sono detta torno a commentare la politica e l’attualità, riprendo il mio blog sull’Unità, sarò più presente su twitter, mi infilerò in tutti questi spazietti lasciati liberi dai veri intellettuali per dire la mia, mi risveglierò dal torpore accidioso e terrò duro fino a quando non mi arriveranno un po’ di soldi e potrò tirare il fiato.
Ho dormito per due giorni e ho sentito i muscoli rilassati e ho fatto una scorpacciata di sogni confusi.
Mi sono seduta al tavolo bianco della sala milanese, quella con le finestre grandi che guardano in due direzioni e che a volte ammiccano, col sole forte, e ti danno l’idea di affacciarsi sul mare.
Nulla.
Non è successo nulla.
Ho risposto alle email, fatto un paio di lavoretti piccoli piccoli, ho guardato tanti telefilm, ho sfogliato i giornali online, ho letto le notizie e ho pensato bisognerebbe indignarsi, scrivere, dire, fare qualcosa, fare davvero qualcosa. E poi non ho fatto nulla.
Sono uscita a passeggiare e mi sembrava tutto nuovo. Il caldo imprevisto di ottobre, il cielo grigio senza speranza, le mani degli amici, i banconi dei bar.
Un pomeriggio sono uscita per fare qualcosa che nemmeno ricordo e non l’ho fatta. Mi sono infilata in una libreria e mi ci sono persa e alla fine non so quanto tempo sia passato e tutte quelle quarte di copertina erano pianeti e dovevo scegliere dove atterrare per fare rifornimento.
Leggo. In silenzio. E poi interrompo le persone quando parlano e dico le cose che mi passano per la testa.
Questo è un viaggio nei miei limiti, nei ricordi, a volte felici e molto spesso dolorosi. È il parto di un cambiamento, la nascita di qualcosa che non poteva più non venire fuori.

Va tutto bene, l’amore, gli amici, il nipotino che cresce, la salute, l’autunno leggero, i miei libri sugli scaffali. Eppure non ho voglia di ritornare in me, forse perché sono troppo pigra o forse perché, se questa volta dovessi fallire, non potrei perdonarmelo.

A volte vado a correre, senza averne voglia. La cosa più difficile sono i primi passi. Non mollare. E poi altri ancora. E il corpo che continua e il cervello che ti chiede perché lo fai? perché insisti? Non vuoi essere qui, vuoi restare sul tuo divano, immobile, a immaginare corse infinite che non inizierai mai. E supero il primo chilometro e mi dico fino a qui tutto bene e mi dimentico quello che stavo pensando un attimo prima e i polmoni si riempiono e la fronte suda e vado avanti, perché non c’è altro da fare.
Andare. Avanti.

Ulisse ci ha messo dieci anni per ritornare a casa e il viaggio era la vita stessa, l’avventura. Io rientro con lentezza e qualcosa intorno a me sarà sicuramente cambiata. L’energia, l’entusiasmo, le distanze tra me e gli altri, i bisogni, la storia nuova che avrei dovuto buttare giù due mesi fa e che ancora sto pensando, i silenzi confortanti di cui mi nutro per giorni interi, le giornate che diventano corte, ed è subito sera.

L’apostrofo rosa

Mi ero dimenticata di dirvi che, da un mese, collaboro con Bloglive, che è un giornale online pieno di giovani speranze, e curo una rubrica che si chiama L’apostrofo rosa.

Nell’apostrofo rosa, recensisco. Libri, film, spettacoli teatrali, dischi, serie tv, eventi, mostre, cene di gala e tutto, TUTTO, quello che ruota attorno all’amore.

Perché l’amore, oh, fa davvero girare il mondo e tira fuori il meglio dalla testolina degli artisti.

Ho già parlato di:

Io che amo solo te, di Luca Bianchini

Mood Indigo, di Gondry

Nuvola numero nove, di Samuele Bersani

e nel pezzo di oggi, di tutti i film che ricordo in cui la pasta fa da collante alle storie d’amore (un modo tutto mio per tirare le somme del Fusillogate Barilla).

Scrivo un pezzo ogni giovedì.
Buona lettura.