Il prossimo anno voglio essere felice

Non piacerebbe anche a te, certe mattine, che una voce fuori campo riassumesse il tuo passato come prima dei telefilm quando “nelle puntate precedenti…”?

Avevo voglia di raccontare, come ormai faccio da dieci anni, e di condividere gli ultimi dodici mesi, ma mi rendo conto che quest’anno ho fatto già tantissimi bilanci che ho vissuto un capodanno ogni trimestre. Ogni cambiamento è stato un inizio: i viaggi, gli addii, i successi e gli insuccessi, il lavoro perso, gli amici ritrovati.
Stamattina ho la sensazione che non sia l’ultimo giorno di qualcosa, ma l’ennesimo giorno meraviglioso e complicato di questo reality che si chiama vita.
Gli anni meno faticosi passano più in fretta. Il 2013 è stato forse un periodo di transizione. Sto meglio, molto meglio, rispetto a un paio di anni fa in cui tutto è andato a pezzi ed era impossibile anche solo alzarsi la mattina.

Ho lavorato poco. Il 2012 avevo guadagnato la metà esatta dell’anno precedente e quest’anno ancora un terzo in meno. Molto di quello che ho guadagnato non mi è stato ancora pagato. Vivo di prestiti, risparmi e speranza e, se non fossi così incosciente, se avessi una famiglia, dei figli da mantenere o anche solo un’automobile, se non fossi pronta ad arrangiarmi, sarebbe molto più drammatico. Ma siamo quasi tutti su questo barcone sgangherato e ci facciamo forza e sappiamo che qualcosa prima o poi cambierà. E se è vero che non sempre abbiamo fatto abbastanza per lavorare di più e meglio, spesso abbiamo dato il massimo senza avere un ritorno.

I giorni che non ho lavorato, ho scritto. Tanti articoli, tante lettere, un romanzo nuovo e un romanzo breve che ho amato molto, ma i lettori meno. Poi mi sono presa una pausa. Per cambiare. Perché questi libri che ho pubblicato non sono io. Non sono Daniela. E forse non sono nemmeno tanto Dania. Sono piena di storie, ma storie diverse, linguaggi differenti, personaggi che mi somigliano molto di più, che dicono parolacce, che viaggiano in seconda classe, che indossano anfibi e vanno a fare la spesa al mercato.
Allora ho deciso che basta, che voglio scrivere una storia mia.
Quindi niente terzo capitolo della saga Chanel, niente glamour, niente amore.
E pensavo che sarebbe stato tutto più facile, invece è un casino e ho la testa che esplode e la pagina bianca davanti agli occhi che è come una ferita sanguinante.
Il tempo che passa, ormai, è scandito solo dalla persistenza delle mie pagine vuote. Fa male.

Prima o poi anche i libri mi verranno pagati (i diritti arrivano con molta calma) e inizierò a vivere questo tempo china sulla tastiera come un vero lavoro. Forse allora sarò più motivata, forse le parole usciranno più in fretta e più disciplinate. O forse no.

Ho viaggiato, non quanto vorrei, ma ho preso gli aerei giusti e ho passato dei giorni di tale serenità che mi sono chiesta perché non averlo fatto prima, sorvolare l’Oceano, riunire la famiglia, visitare i posti che ho sempre desiderato, mangiare tutto, ma proprio tutto quello che mi va.

Certi mesi mi sono scivolati addosso, perché non c’era niente da conquistare, altri sono stati delle battaglie, infinite.

L’amore è stata la cosa più complicata (non è sempre così?). Due passi avanti, uno indietro, addii, ritorni, promesse e lacrime, baci lunghissimi, fughe, parole scritte e tante parole non dette, canzoni, film, accuse, dichiarazioni. Colpi di scena.

È stato come avere di nuovo vent’anni, vivere le relazioni alla giornata, non sapere se domani sarà ancora tutto bello, avere il terrore di progettare insieme.
Ormai siamo arrivati fin qui, non possiamo tornare indietro, non possiamo buttare tutto, ce lo siamo guadagnato, conserviamolo, proteggiamolo.

È stato un anno disordinato, che mi ha insegnato che gli altri non possono sempre diventare alibi per la nostra negligenza, che se vogliamo cambiare, dobbiamo farlo e basta, noi da soli, perché tutti possono cambiare. Mi ha insegnato che c’è sempre una seconda occasione e, se non dovesse esserci, ci sarà un‘altra occasione, diversa ma non meno importante. Mi ha insegnato che le persone belle devi tenertele strette, a costo di superare la pigrizia e l’egoismo e la paura, perché il tempo passa e cancella tutto e l’unica cosa che conserverai per sempre sono i compagni di viaggio. Mi ha insegnato che i soldi e il successo e l’apparenza e la bellezza possono essere importanti, ma non a costo di non riconoscerti più, di modificare i tuoi sogni; che tra un mese dimenticherai la tua ospitata in TV, ma ricorderai per sempre le serate a ridere con gli amici, la coda lunghissima per  salire in cima a un grattacielo per guardare il tramonto, le canzoni urlate durante un concerto in uno stadio pieno di gente.

Mi ha insegnato che non c’è un arrivo, che la strada è infinita, che possiamo fare una sosta, per stanchezza, per rabbia, per pigrizia, ma poi dobbiamo rimetterci in viaggio, noi che siamo i nomadi del nostro destino.

Il prossimo anno voglio essere felice.
È un proposito folle, credete che non lo sappia?
Ma voglio metterci pazzia nel futuro.
Voglio scrivere il mio romanzo, voglio stare solo con le persone belle e tenere tutti gli altri a distanza, i gatti e le volpi, i falsi, gli approfittatori, le galline tutte tette e sorrisi e niente cervello, gli insicuri che ti succhiano il sangue, gli invidiosi. Voglio viaggiare di più, ma molto di più, voglio guadagnare abbastanza da poter tirare il fiato, voglio dire no a tutte le cose che non mi piacciono, le serate con i dress code, i finti amici, i locali con la lista all’ingresso, le cene in cui “voglio parlarti di un lavoro” e invece è solo marpionamento, le comparsate che chissenefrega, le foto fatte solo per dire io c’ero, le competizioni non richieste, gli insulti gratuiti di troll e stalker, quelli che “non ti fai mai sentire” e non ti chiamano mai.
Voglio stare con te, non solo il prossimo anno, ma tutta la vita, a costo di inseguirti e poi fuggire, di cambiare e poi tornare indietro.
E poi dormire un anno intero senza prendere sonniferi e mangiare senza sensi di colpa e sorridere solo se ne ho veramente voglia e non avere sempre l’ansia spaventosa di perdere tutto.

Voglio arrivare a fine anno e dire che meraviglia! Hai visto che non era impossibile? Che ce la potevo fare?
E se non ce la dovessi fare, poi ci sarà l’anno successivo e quello dopo ancora.
Non ci fermiamo mai.
Non voglio fermarmi mai. Ho le scarpe giuste, il fiato allenato, la borsa leggera e la colonna sonora perfetta.

BUON ANNO NUOVO.

La tecnica EKTORP: fagli montare i tuoi mobili IKEA

Nessun luogo mette più a dura prova una coppia moderna dell’IKEA.

Solo le coppie che sopravvivono indenni a tutto il percorso tra le varie combinazioni di camere, camerette, bagni, tra il ristorante e la zona bambini, tra le scatole, i piatti, i bicchieri, le lampade, le piante, le corsie dei magazzini, le casse automatiche, gli hot dog e il caffè svedese (che paghi con lo sconto e che, altrove, non berresti nemmeno se ti pagassero per farlo), possono sperare di avere davvero un futuro insieme.
Alcune si lasciano subito, nella zona divani, altre non superano gli armadi. Alcuni uomini si nascondono tra le colonne di tappeti per piangere lacrime amare, mentre molte donne vengono abbandonate, ogni giorno, negli enormi parcheggi, con i loro sacchetti blu colmi di cornici e candele profumate.
Ingvar Kamprad, fondatore dell’azienda svedese, non avrebbe mai immaginato, nel suo villaggio nello Småland, che il suo negozio di mobili a basso costo sarebbe diventato il più grande spazio di psicoterapia di coppia del mondo.
Quando decidiamo, di comune accordo o dietro esplicita minaccia, di fare una gita all’IKEA, sappiamo di doverci munire di tanta pazienza, scarpe comode, una lista di quello che ci è davvero indispensabile comprare, lo stomaco pieno per non lasciarci tentare dalle ennesime polpette assassine, e sangue freddo per non cadere in nessuna provocazione fatta da lui.
Essere trascinato controvoglia all’IKEA, soprattutto con la scusa della sua forza fisica, indispensabile per caricare e scaricare l’auto, è già un ottimo motivo di sofferenza per il nostro compagno.
A questo va aggiunto che, quando si è in coppia, il montaggio dei mobili comprati nel grande magazzino svedese spetta, per tradizione, all’uomo.
Con l’alibi della nostra scarsa propensione al bricolage, della manicure che rischia di rovinarsi, della nostra eccessiva magrezza o della nostra avversione per il cacciavite o il trapano, possiamo convincere facilmente un maschio che il mestiere di montare librerie Billy è suo.
Se dovesse opporre resistenza, potremmo provare a convincerlo con qualche smanceria, ricordandogli quanto è stato bravo nel fissare le mensole alla parete (anche se sono tutte storte) o nell’assemblare gli altri mobili a basso costo che abbiamo disseminato per la casa.
Appena cederà al suo ineluttabile destino di montatore, non lo lasceremo da solo a soffrire tra martelli, brugole, viti e tasselli di legno, ma gli faremo compagnia per criticare il suo lavoro e azzardare l’ipotesi che stia eseguendo le operazioni sbagliate.
Gli uomini hanno una profonda avversione per i manuali di istruzioni e, pur di non essere costretti a seguire le regole, cercano sempre di trovare qualche scorciatoia per finire un lavoro “a intuito“. E ogni volta che si affidano al loro intuito, sbagliano.
Il montaggio dei mobili IKEA è un’esperienza faticosa per il maschio, che deve seguire le regole, sottoporsi al nostro controllo serrato e utilizzare tutti i pezzi contenuti nella scatola.
Ogni volta che, a lavoro finito, avanzerà una vite, lui saprà di aver fallito e di meritare, anche se per poco, il nostro sarcasmo ormai allenato.

Quello sopra è il modo 45 dei “101 modi per far soffrire gli uomini“. Volevo condividerlo con voi, prima di passare il pomeriggio del 23 dicembre all’IKEA con l’uomo (trasferta che potrebbe costarmi la vita).
Il libro è un ottimo regalo di Natale, pieno di utili consigli e – oh! – costa solo 5 euro! Lo trovate in tutte le librerie e in ebook.
Fossi in voi, lo prenderei per tutte le vostre amiche (e anche per qualche amico).

BUON NATALE!

101 modi per far soffrire gli uomini

Se io fossi quella

Se io fossi quella,

quella per cui apri gli occhi la mattina e respiri, dentro l’aria e fuori l’aria,
se io fossi quella a cui pensi mescolando lo zucchero nel caffè, anche se non bevi caffè, a te piace il tè e non lo capirò mai,
se io fossi quella che hai in testa mentre lavori di notte, quella che riempie i tuoi disegni, quella per cui pensi e scrivi tutte le parole, anche quelle difficili, anche quelle dolorose,

se io fossi quella che ti fa sperare che ci sarà un domani e sarà bello, quella che vedi al tuo fianco quando tutti i capelli, tutti, saranno diventati grigi, se io fossi quella che cerchi tra la folla, quella che senza ti senti perduto e solo, quella che come me nessuna mai e non c’è prima e non ci sarà un dopo,
se io fossi quella che toccarmi dà motivo alle tue mani di esistere, quella che baciarmi tiene in vita le tue labbra,
se io fossi quella che spiega tutto, che dà una ragione alla fatica fatta per arrivare qui, che chiude i conti, se io fossi quella che perdona tutti i tuoi sbagli, che ti regala un altro inizio, che mette insieme tutti i tuoi brandelli e ti insegna sapori e colori nuovi,

se io fossi quella, avrebbe tutto senso, le lacrime, le fughe, i sospiri, i pugni contro le porte chiuse, i chilometri in autostrada di notte per cercare risposte, i baci che sembra arrivino da lontano e ti prendono alla sprovvista,
avrebbero senso gli anni che abbiamo vissuto, le promesse che abbiamo fatto e non abbiamo saputo mantenere, avrebbero senso le fini e tutti gli addii, quelli che si portavano via pezzi di cuore e di stomaco, avrebbero senso le canzoni che regalavano sollievo, ascoltate dieci, cento, mille volte, avrebbero senso le sbronze e le scazzottate con gli amici, avrebbero senso i giorni che abbiamo passato lontano, a ricucirci le ferite,
avrebbero senso i giorni che verranno, avrebbero davvero senso, tutti, per sempre.

Ma se non sono quella, se non lo sono, portati via il tuo odore, porta via le parole e i tuoi sorrisi, strappami la tua voce dalla testa e nascondila sotto l’oceano, dove i rumori sono confusi e non posso più riconoscerli,
se non sono quella, dimenticati di me e io sparirò per sempre e non ci saranno ricordi che tolgono il fiato e non ci saranno rimpianti,
se non sono quella, non trattenermi nelle tue matite, non disegnare il mio volto per ricordarlo, non lasciare che il bianco e nero mi trasformi nel tuo passato.

Se non sono quella, non sarò un tentativo, non sarò un’alternativa, non sarò l’altra, non sarò un’amicizia, non sarò la compagna di qualche notte calda, non sarò l’allegria,
se non sono quella, non sarò niente,
perché non sono niente senza di te e tu non puoi farcela senza di me,
non puoi farcela,
perché non ci sono più io, non ci sei più tu,
perché il mondo esiste solo se ci siamo noi,
e nient’altro.

Tu lavori? E io non ti pago

L’ho già scritto molte volte, ovunque, compreso nelle email che mando a mammà, che la crisi è diventata un alibi sfruttato fino all’esasperazione per non pagare.

Riassumo il mio pensiero spicciolo: in Italia c’è lavoro. Non ce n’è come un tempo e non ce n’è per tutti, soprattutto per quelli che – ammettiamolo – non hanno mai saputo fare una mazza, si sono adagiati su piccole certezze ormai scomparse nel vento, senza mai aggiornarsi, evolvere professionalmente, studiare, imparare.
Però ce n’è, se sai proporti, se sai adattarti, se conosci le lingue, se sai interagire con esseri umani e non di qualsiasi tipo, se sei disposto a farti il mazzo. Lavori.

Il vero problema è farsi pagare.
Non paga nessuno. Ma proprio nessuno.

Certo, io sono una libera professionista e probabilmente il mio mondo è molto più complicato (ma forse nemmeno tanto), rispetto a quello di un dipendente. Ricordo che, fino a tre anni fa, quando avevo il mio contratto a tempo determinato, lo stipendio veniva accreditato ogni mese, ma sul collo mi pendeva un’altra mannaia, quella del rinnovo che fino all’ultimo giorno “vedremo” “chissà” “non possiamo garantirtelo”.

In Italia non paga nessuno. Quelle scadenze che tu metti in fattura, 30 gg, 60 gg df, 90 gg dffm ecc., non servono a nulla. Sono geroglifici che nessuna amministrazione, grande o piccola, riesce o vuole più decifrare.

“Eh, ma c’è la crisi!”

È una crisi che da vent’anni ci trasciniamo come biglietto da visita da debitori, da quando è diventato lecito (e legittimo) pagare dopo due, tre, sei mesi una prestazione professionale.

La scusa più frequente che ti senti dire è: “quando il mio cliente pagherà me, io pagherò te” e lì vai a capire se non si perderà nella notte dei tempi, il saldo della tua fattura, dal momento che la tua attesa si basa sulla fiducia che il tuo datore di impiego non abbia liquidità sufficiente a pagare il tuo micragnoso compenso.

Non escludo che i casi di inadempienza siano in alcune situazioni l’unica possibilità di rimanere a galla, ma ho la certezza, supportata da fatti, che il malcostume sia soltanto diventato prassi, prassi alla quale abbiamo fatto l’abitudine, adeguandoci con rassegnazione, convinti di non avere alternativa.

Il lavoro del freelance si sviluppa in queste fasi:

– aggiornamento competenze
– autopromozione
– contrattazione di un compenso molto spesso umiliante, frutto di “chiediamo a qualcun altro che ce lo fa per la metà” “abbiamo un budget risicatissimo” “possiamo al massimo darti un sacchetto di fagioli secchi e un buono pasto” “ma alla fine devi farci due sciocchezze” “ma questo preventivo è fuori dal mondo. Quel lavoro può farlo una mia stagista a costo zero”
– svolgimento della prestazione che risulta essere sempre più impegnativa e onerosa di quanto concordato
– fatturazione con indicazione termini di pagamento
– attesa saldo
– attesa
– attesa
– attesa
– sollecito ad amministrazione
– attesa
– attesa
– ulteriore sollecito con minaccia (palesemente fasulla) di consultazione con legale
– attesa
– colorite bestemmie e richiesta di prestito a genitori pensionati per poter pagare affitto e bollette
– attesa
– desiderio di cavare gli occhi a cliente inadempiente con un cucchiaino
– ulteriore disperato sollecito che verrà infilato nella cartellina spam
– raro lieto fine con pagamento
– nessun pagamento, con successiva reale consultazione di un legale che chiederà un compenso pari o maggiore al pagamento dovuto e che a sua volta dovrà attendere tuo saldo.

Le aziende corrette, rarissime, quando hanno difficoltà a mantenere gli accordi, ti avvisano in anticipo e ti inviano scuse scritte e garanzie di pagamento repentino.
Le altre, la maggior parte, fanno finta di nulla, addestrano i referenti amministrativi all’omertà, insinuano nelle email sibilline minacce di non rivolgersi più a te per ulteriori lavori (e stigrandissimicazzi! Sono io che non voglio più lavorare con te, brutto rottoin***o!), spesso giustificano il loro ritardo con tue carenze o errori che, guarda caso, non erano saltati fuori durante lo svolgimento della mansione.

C’è una soluzione al circolo vizioso del lavoro e non vengo pagato quindi cerco altri lavori per mangiare e non vengo pagato nemmeno per quelli e così all’infinito?

Nelle appassionate discussioni su Facebook e Friendfeed sull’argomento, le ipotesi sono sempre irrealizzabili: “richiedi un anticipo prima di iniziare il lavoro” (ahahahahahaha. Sarebbe più facile chiedere a Sergio Múñiz di passare la notte con me e ricevere un sì come risposta), “rifiuta il lavoro” (rinunciando anche alla minima speranza di ricevere del denaro in un lontano futuro), “cambia mestiere” (uh, come ho fatto a non pensarci!), “vai a vivere all’estero”.

Il Paese è lo specchio della sua classe politica, clienti truffaldini, nessun senso civico, fornitori e dipendenti senza alcun potere contrattuale e nessuna possibilità di mordere, ferendola, la mano del padrone, l’idea viscida e radicata che pagare (tasse, prestazioni, servizi) sia una perdita di tempo.

Quelli di noi che hanno una memoria a più lungo termine della massa ricorderanno senza fatica che il declino del sultano ventennale iniziò quando una delle sue mignotte decise di sputtanarlo, perché non era stata pagata.

Se potessimo produrre energia dall’indignazione, avremmo risollevato le sorti dell’Italietta.

E invece ci troviamo a fare i conti con la desolante certezza che le cose cambieranno a fatica e sempre perché arriverà qualcuno da mamma Europa e tirarci le orecchie. Se mai accadrà.
E siamo circondati da tanti piccoli lavoratori come noi che decidono di essere conniventi.
“Piuttosto che non lavorare lavoro gratis”.

Be’, caro collega che abbassi il valore del mio lavoro concedendo la tua prestazione a costo zero, convinto che un domani la cosa possa tornarti utile e, intanto, abiti nella tua cameretta di bambino a casa di papà, ti svelerò un segreto: se non sei pagato, non è lavoro. È volontariato, o masochismo. Se non ti fai pagare adesso, nessuno ti pagherà mai, perché il tuo valore verrà concepito per il prezzo a cui lo vendi: zero.

E voi, cari clienti che non pagate e fate finta che la cosa vi sia sfuggita per distrazione, che leggete o no il mio blog, che considerate il mio lavoro buono o cattivo, ma non prioritario, salvo cercarmi per risolvere rogne, voi che non sganciate un euro da mesi e dormite tranquilli, sappiate che io vi ricordo sempre nelle mie preghiere, nell’ultima disperata speranza del contrappasso, quando starete bruciando tra le fiamme dell’inferno e i diavoli vi rassicureranno dicendo “non ti preoccupare per la sete. Tra 180 giorni fine mese, ti darò una lattina di Coca Zero”.