Milano è stata nostra

Invece di fuggire come tutti, siamo rimasti a difendere la città dall’esodo ferragostano.

Il cielo è limpido e azzurro, che non sembra nemmeno Milano, e soffia un vento fresco leggero, di quelli che ti carezzano dolcemente mentre ti godi la pennica del pomeriggio.

C’è il silenzio, nelle strade, nei parchi, nei pochi locali aperti. Quel silenzio gentile, interrotto da poche chiacchiere, da qualche ruota che solca la strada, dal rumore dei binari del tram.

La città fantasma ha pochi superstiti, che si ritrovano nei punti di ristoro ancora aperti, nei quartieri più popolari, dove le ferie sono un vezzo e non una necessità.
Siamo andati a mangiare in quel ristorante cinese buonissimo, di quelli che non fingono di essere di Tokyo e non ti cucinano riso bollito e salmone invitandoti a mangiare tutto il sushi che vuoi.

Siamo stati bene e poi abbiamo camminato tanto per trovare un bar aperto, dove bere un caffè.

E quando ti ho salutato, mi sono infilata in un supermercato per fare qualche provvista per i prossimi giorni, quelli da passare segregata in casa a scrivere un libro intero, senza distrazioni.

Un supermercato della stessa catena di quello in cui mi servo io, con gli stessi prodotti, con lo stesso odore, però diverso: la disposizione degli scaffali, la metratura, la grandezza, le facce dei commessi, la distanza dalle casse.

È stato come se avessero preso le cose che conosco, le avessero mescolate nel panaro della tombola e le avessero risputate fuori, un po’ a casaccio.

Spaesata. Ci ho messo un’eternità a comprare tonno e pomodori, tra le cose che conoscevo, disposte in un modo che non riconoscevo.

Come quando tua madre viene a trovarti, dopo tanto tempo, e ti sistema la cucina, senza che tu glielo chieda, e ordina tutto con la sua logica e quando ti serve un apribottiglie non lo trovi più e ti viene voglia di spaccare tutto.

La città vuota è uno spazio familiare in cui ti senti un po’ estraneo. I confini non sono delimitati dagli altri esseri umani, i marciapiedi sono sgombri da tavolini e biciclette e moto, nella metropolitana trovi sempre posto a sedere, le saracinesche chiuse ti ricordano che non hai bisogno di niente, la palestra è in ferie e vai a correre per le strade solitarie.

È stato bello conquistarla insieme a te, questa città che ci ha fatto innamorare e che ieri sembrava nostra.

Tra poche ore torneranno gli esuli e rioccuperanno il loro spazio e Milano smetterà di sorridere e tornerà a lavoro e noi continueremo a scrivere, fino al giorno della consegna, quando ci affacceremo per le strade affollate e sogneremo di fuggire via, lontano.

4 commenti su “Milano è stata nostra”

  1. Minchia che è terrone il panaro, secondo me non ce n’è uno coi nonni di milano che dice/scrive/pensa panaro.

  2. Mi porto in tasca un foglio con scritto 春捲, che sarebbe involtini primavera in cinese tradizionale. Lo mostro al cameriere per l’ordinazione e per scoprire se è veramente giapponese. Non è un metodo scientifico ma chissene.

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