Cosa accade a chi torna

“Chi parte sa da che cosa fugge, ma non sa cosa cerca”, diceva l’amico Lello al protagonista Gaetano, in Ricomincio da tre (senza citarne la fonte, come direbbero sul web).

Mi sono sempre chiesta cosa accade a chi torna, invece.
La mia vita è sempre stata una corsa in avanti, nomade, cambiando città  come se fossero paia di scarpe, accumulando strati di nostalgia e mazzi di chiavi, abitudini da ricreare in continuazione, scatoloni da riempire.
Questa è l’età in cui fermarsi e guardarsi un po’ indietro, per misurare il cammino e dirsi che tutto sommato è stata una bella distanza. Ed è l’età in cui far pace col passato, i fantasmi, i ricordi mitizzati, gli addii, le occasioni perdute, le scelte fatte.

Sto per partire per un viaggio a ritroso e sono eccitata e un po’ spaventata. Per fortuna, dove sto andando c’è il caffè più buono del mondo.

Noi resisteremo sempre

Da giorni rimugino sulle parole di Domenico Starnone che, sulle pagine di Internazionale, ricordava che noi italiani abbiamo il triste primato di aver inventato il fascismo.

Sono stati giorni terribili per la nostra umanità, a leggere le bacheche di Facebook e Twitter, improvvisamente invase da orrendi individui senza empatia né compassione, che gioivano, rinunciando anche allo scrupolo dell’anonimato, di tante vittime del mare, che avevano la sola colpa di essere nati nel posto sbagliato.
Molti, come me, in questi tempi sono stati lontani dalle polemiche, delusi, sopraffatti dallo stupore di accorgersi che anche dietro il più assiduo frequentatore dei banchi della chiesa si può nascondere un razzista, magari anche evasore fiscale e un po’ mariuolo, però forcaiolo con chi non è della sua stessa, strettissima, razza.
Gli italiani non sono diventati peggiori, a causa di crisi e televisione e telefonini e cibo spazzatura, sono sempre stati così, come faceva notare Starnone: servili e prepotenti, opportunisti e vigliacchi, intolleranti e campanilisti, ignoranti ed esigenti.
Questo ho pensato in questi giorni grigi, di notizie pubblicate migliaia di volte e poi migliaia di volte ritrattate, commentate, screditate, urlate, taciute.

Quello che, però, avevo dimenticato, così presa dal pessimismo, è che noi italiani siamo anche il paese che ha sconfitto il fascismo, siamo il paese dei partigiani che hanno combattuto e sono morti per regalarci la libertà di poter avere e difendere, oggi, qualsiasi opinione, anche la più spaventosa.
Siamo il Paese della Resistenza, che 70 anni fa ci ha ridato dignità di essere umani.

Tra poco spariranno tutti i testimoni di quell’epoca in cui uomini piccoli resero grande l’Italia e spetterà a noi continuare a mantenere viva la memoria della storia, per salvarci dal revisionismo, dal nuovo fascismo leghista, dalla bruttura della fine della solidarietà, dalla paura costruita a tavolino solo per controllare e dominare il popolino bue.
Saremo noi la memoria e a noi è affidato il compito di coltivarla, tramandarla e proteggerla. Ed è il più grande onore che gli italiani belli potessero concederci.

C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.”

Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino.

Anche io leggo perché

Oggi, 23 aprile, è la Giornata Mondiale del Libro e del diritto d’autore, un momento da dedicare ai nostri migliori amici di carta (e non) senza sentirci pelandroni, snob o fuori dal mondo.

Io leggo moltissimo, tutti i giorni, con avidità e con tenacia, nel silenzio. Dopo una vita passata a sognare un’esistenza diversa e a rintanarmi nella pagine dei romanzi quando tutto era solo “tirare a campare”, i libri sono diventati il mio mestiere e ho la fortuna di poter leggere per lavoro, che – vi assicuro – è molto più gratificante di scrivere per lavoro.
Sono giorni di vita intensa e di mirabolanti avventure, anche se spesso non mi alzo dal divano, e vorrei poterlo condividere con tutte le persone che amo, chiamarle al telefono per raccontare loro storie incredibili, condividere la speranza che duri per sempre e ascoltare quello che hanno letto, prendere appunti, correre in libreria a cercare i titoli suggeriti.
Sono circondata da mangialibri di ogni tipo, che fanno ogni genere di mestiere, che hanno gusti simili ai miei o diversissimi.  Eppure moltissimi nostri connazionali non leggono. Per pigrizia, disinteresse, per carenza di stimoli. A molti non è mai stato spiegato che sfogliare un libro significa attraversare un mondo diverso, emozionante e sconosciuto, ad altri è stato detto che solo alcuni libri sono da leggere, perchélascuolalaclassificaFabioFazio, ed è stato spento in loro qualsiasi entusiasmo. Ad altri ancora è stato fatto credere che leggere sia uno spreco di tempo, tolto alla televisione, agli aperitivi, al Facebook e a tutto il resto.
Perché leggere, quando puoi fare altro?

Un po’ come lo splendido Troisi che spiega perché non legge durante il suo viaggio in treno nelle Le vie del Signore sono finite.

È vero che leggere richiede tempo, richiede spazio, richiede voglia. Restituisce, però, spazi emotivi immensi, tempi interiori infiniti, desiderio di vivere. E non c’è alibi di crisi che tenga: i libri si possono trovare gratis nelle biblioteche, si possono prestare, si possono sfogliare, una pagina al giorno, mentre si va in tram a lavoro. Nei lunghi anni in cui ho fatto da pendolare tra Padova e Venezia ho letto moltissimo, così appassionatamente da dimenticare (quasi sempre) l’odore cattivo dei vagoni, i ritardi, la folla stanca e arrabbiata che viaggiava con me.

Non credo che sia obbligatorio leggere libri. Non è qualcosa da fare per forza. Si può vivere senza, continuare a respirare, lavorare, mangiare, dormire. Sono però convinta che non farlo sia un’occasione sprecata, una perdita, un peccato. Un po’ come passare una vita senza conoscere il vero amore, come crescere senza abbracci, come stare sempre a dieta e non concedersi mai mai mai una porzione di Tiramisù.
Si può vivere senza libri, anche cent’anni, ma è la qualità della vita a essere diversa. Diversa.

Stasera, in alcune città, si terranno gli eventi conclusivi della manifestazione Io leggo perché che negli ultimi mesi ha coinvolto associazioni, scrittori, lettori, radio e televisioni. Sul sito dell’evento potete trovare il calendario degli appuntamenti.
Io sarò, insieme ad altre decine e decine di scrittori, tra il pubblico della diretta di RaiTre. Presenta Pierfrancesco Favino. Ripeto per le amiche: PIERFRANCESCO FAVINO sarà a pochi metri dalla mia bava.

Adesso capite perché leggere è una cosa meravigliosa?

Io leggo perché

P.s. a differenza di molti, preferisco non suggerirvi titoli di libri da leggere. Ho gusti piuttosto personali e non sempre incontrano quelli dei miei amici. Vi invito, però, a fare il giro in qualche bella libreria indipendente (quelle poche che restano) e a chiacchierare con i librai. Sono persone piene di idee e suggerimenti e amano il loro lavoro “di frontiera”. Non ve ne pentirete.

L’amore è meglio un po’ bugiardo

Sono sempre stata una di quelle sincere, di quelle che in una relazione l’onestà è tutto, dirsi le cose, chiamare ogni problema con il suo nome, condividere ogni dubbio, ogni emozione, anche il tormento. Sono sempre stata convinta che è meglio confessare un tradimento che mentire, sempre meglio sapere che ignorare, più giusto discutere che evitare lo scontro.

Sincerità era il mio mantra.
Trasparenza, verità, franchezza, schiettezza.
Perché dire, parlare, usare tutte le parole ti rende sempre una persona migliore.

Un paio di settimane fa ho visto Gone Girl (no, non l’avevo visto al cinema. No, non ho letto il libro. Sì, lo se che ne avevate parlato tutti benissimo. Ho i miei tempi). Il film racconta la storia di una giovane coppia, Nick/Affleck e Amy/Pike, la cui perfezione da cartolina viene spazzata via in un soffio il giorno del loro quinto anniversario, quando la giovane moglie – puff – scompare nel nulla, lasciando il povero manzoAffleck solo nel dubbio. Nessuno sa che fine abbia fatto la biondina e tutti cominciano a indagare, tirando fuori eserciti di scheletri dagli armadi (è solo un modo di dire. È un thriller, non un horror).
Non spoilererò perché non sono una brutta persona, ma la storia è una interessantissima matrioska di mezze bugie e terzi di verità, sospetti sorti all’improvviso, dubbi che non dovresti mai porti sulla persona che ami, ripensamenti. Ho sempre vissuto nella menzogna? O quello che era vero mi sembra falso adesso che le cose vanno male?

Il film è bello, e va be’, ma non è questo il punto. La questione è: possiamo mai dire di conoscere davvero le persone che amiamo? O meglio, possiamo conoscerle meglio di noi stessi, ma chi ci assicura che essere dei libri aperti ci protegga dalle delusioni? Come facciamo a essere sicuri di non cambiare mai o che l’altro non cambi? Si può pensare davvero di vivere senza nascondere segreti?

Mi sono resa conto di essere cresciuta. Anche nelle relazioni. Di aver iniziato a pretendere meno dagli altri e più da me stessa. Di aver capito che la verità è pericolosa come un’arma, che devi imparare a maneggiarla bene, che a volte, più spesso di quanto avrei immaginato, la sensibilità è più importante della sincerità.

Forse una bugia può essere utile, se è detta per non ferirmi.

Ho capito questo.

E spero lo capisca anche tu, la prossima volta che ti chiederò “mi trovi ingrassata?”.

Sesso, amore e vino in ordine sparso

***ATTENZIONE! POST AD ALTO CONTENUTO AUTOCELEBRATIVO***

Se non hai letto ancora A noi donne piace il rosso – diciamocelo – sei una brutta persona, ma per stimolarti a sfogliare il libro dal sapore di Valpolicella, forse può aiutarti questa spassosa intervista su Gioia in cui do anche qualche consiglio utile per bere bene, sia ai maschietti che alle femminucce.

E poi, stasera, ricordati di guardare Italia 1 alle 19.30, perché su Notorious c’è un servizio su di me in cui racconto come una (finta) blogger erotica precaria e sarcastica è riuscita a diventare un’autrice di best seller super romantici.
Che tu dici “culo”. E io rispondo “quasi”.

Buona visione.

10 motivi per cui le liste di 10 motivi hanno successo

Impazzano su quotidiani online, siti, blog e social network. Sono le liste della qualunque, che ci insegnano a fare qualsiasi cosa, ci spiegano il mondo, ci aiutano a essere persone migliori.
Tutto in otto o, massimo, dieci punti.
Come nasce questa fissazione collettiva per l’enumerazione? Davvero possiamo ridurre ogni cruccio o dilemma a un elenco puntato? Perché abbiamo iniziato a ragionare per schemi?

Proverò a spiegarvi io il successo delle liste.
In soli 10 punti.

1. Tutti sanno contare fino a dieci. Anche gli analfabeti, i bambini, Salvini.

2. Il giornalista/blogger/redattore ci mette meno di 10 minuti a scrivere una lista e può dedicare più attenzione al suo vero lavoro in pizzeria che gli permette di pagare l’affitto.

3. Si leggono velocemente. Così hai più tempo per leggere altre liste.

4. Puoi sempre interrompere la lettura e ricominciare dopo aver servito queste quattro margherite al tavolo 2.

5. Sono spesso accompagnate da belle gallery fotografiche. A volte ci sono anche maschi muscolosi nudi. Non in questa lista, purtroppo.

6. Sono spiritose.

7. Ci fanno sentire ggiovani perché cello, cello, mimanca.

8. Sono piene di consigli utili.

9. Per togliere il cattivo odore dal frigo, basterà riporre all’interno una ciotola con dei fondi di caffè.

10. Quando finisci di leggerle, hai sempre voglia di condividerle sulla tua bacheca, aggiungendo il commento “tutto vero, tranne la 6”.

 

La pausa dalla competizione

Ieri mi hanno fatto notare quanto sia positivo passare del tempo a guardarci da fuori. Vivere un periodo in cui le cose diventano oggettive ci aiuta a ridare il giusto peso a ogni problema, a trovare soluzioni, a rivalutarci o a imparare quali sono i nostri limiti.

Prenderci una pausa da noi è l’unico modo per sopportare la convivenza perenne con le nostre paure, i fantasmi, le ansie, le ambizioni, gli obiettivi.

Staccare. Girarci a guardare come siamo fatti davvero e poi rientrare.

È quello che forse dovremmo fare durante le vacanze.  Fare una pausa dalla competizione, dalla socialità virtuale a tutti i costi, dall’ansia di non farcela, dalla dieta perenne, dal pettegolezzo, dall’invidia, dalla paura dell’abbandono, dal chiodo fisso del denaro che non basta mai, dal terrore di invecchiare.
Uscire, guardarci e capirci.
Mentre stiamo digerendo un’intera colomba.

Buona Pasqua a tutti.

Chi ha paura di volare?

Il titolo del post non è una metafora.
Mi chiedo proprio quanti di noi abbiano iniziato ad avere il timore di compiere azioni che fino a ieri ci sembravano normali: prendere un aereo, visitare un museo, fare la spesa, andare a lavoro in redazione.

Stiamo imparando che non bisogna fidarsi di nessuno: di chi ha idee politiche estreme, ma anche di chi non ne ha affatto, di chi è troppo religioso, ma anche (soprattutto) di chi non distingue il monoteismo da una dieta alimentare, di chi non è nato qui, ma anche di chi ci è nato e poi chissà cosa gli è passato nel cervello. Ci sembra che tutto stia diventando più violento, ma abbiamo continuo bisogno di violenza e urliamo nei nostri commenti sui social, guardiamo serie tv piene di mortiammazzati, diventiamo aggressivi in auto, leggiamo tutti gli articoli più morbosi di cronaca, aggiorniamo continuamente le pagine dei quotidiani online, ci appassioniamo ai disastri. Viviamo nell’illusione di essere fuori dal palcoscenico, nelle prime file da cui si vede benissimo il palco, ma lontani abbastanza dalla ribalta da essere al sicuro.

E appena capiamo di non esserlo, al sicuro, perché il nostro vicino di poltrona si è macchiato del sangue (non) di scena, rimaniamo spiazzati. Più che spaventati, siamo disorientati. Possibile che stia accadendo a noi?

In molti abbiamo vissuto una strana sensazione, negli ultimi giorni. Una reazione umana, sgradevole, ma comprensibile. Scoprire che una tragedia accade per colpa di un solo squilibrato, forte della disattenzione altrui, senza organizzazione alle spalle, la rende meno abominevole. Spaventosa, atroce, ma occasionale.
Eppure, è nella casualità della tragedia che si cela il suo orrore più grande. Oppure no?
Se non fossimo così continuamente allertati dal terrorismo, gli incidenti, seppur dettati da follia, ci sembrerebbero più o meno gravi?

Nel dubbio, a Pasqua partirò in macchina.

Mi garantite che le strade sono sicure?