All’età di circa dieci anni, in una di quelle estati nelle quali i miei fratelli e io venivamo spediti in Olanda da mio padre, ho letto il libro Cuore. E ho pianto.
In una tournée teatrale a Utrecht, con i miei compagni di teatro, tutti appena maggiorenni, abbiamo improvvisato un concerto al ristorante cantando e suonando Paolo Conte, commuovendoci con Azzurro.
Nei miei anni parigini, il proprietario del ristorante in cui facevo la giovane camerierina mi chiedeva sempre “un vrai espresso italiano, s’il te plaît!”.
Al Cairo, ho passato una notte al Fishawi, con un giornalista svedese e un attivista egiziano, fumando shisha e parlando degli anni di piombo.
Una suora, ad Aleppo, mi ha chiesto se avevo mai incontrato di persona il Papa.
A San Pietroburgo, in una komunalka di amici, ho cucinato pasta per tutti in un bollitore per il tè.
Al matrimonio di mio fratello, in Bolivia, ci hanno chiesto di ballare la tarantella.
In un locale gay di Buenos Aires ho cantato una canzone di Laura Pausini perché volevano sentire le parole in italiano (sì, conosco a memoria La solitudine e non riesco a rimuoverla dalla testa).
Sono scappata molte volte e sono sempre ritornata.
Sono una cittadina del mondo e non so fare altro che essere italiana.
Mi vergogno quando disprezzo il mio paese e mi vergogno quando amo il mio paese. Questo è essere italiani.
Però la festa di oggi mi piace, mi piace pensare al risorgimento, mi piace sentirmi una carbonara, mi piace pensare che, nonostante i leghisti, i mafiosi, i qualunquisti, i fascisti, i berlusconiani e gli interisti, siamo un paese unito, di brava gente.
E poi, Gaber l’ha già detto molto meglio di me.