Non sono mai stata molto brava a scrivere resoconti della mia vita, a redigere diari dettagliati del mio vissuto.
Mi nascondo dietro al prezioso dono della sintesi -che, senza il rischio di peccare di modestia, ritengo il mio unico talento- e riesco da sempre a divincolarmi dalla cronaca dal mio presente.
Sono autobiograficamente poco obiettiva e dannatamente troppo severa. Mi allontano dai fatti nudi e crudi, mi lascio distrarre dalle sfumature, mi attacco a qualche pensiero ossessivo e ricorrente e perdo il filo delle cause e degli effetti.
Odio, inoltre, le scadenze che spingono all’analisi, i momenti che inducono tradizionalmente al bilancio, le feste che segnano il passare del tempo, i riti che scandiscono pragmaticamente i passaggi, gli inizi e la fine.
Volevo però provare a scrivere qualche riga che esorcizzasse l’annus terribilis che sta per terminare, pensando che, dopo mesi così faticosi, irritanti e, spesso, tristi, le parole sarebbero venute da sole, avrebbero inondato il monitor, mi avrebbero mondata dal disagio e avrebbero dato una forma ai miei pensieri stanchi.
Invece sono qui da ore a chiedermi come e cosa valga la pena raccontare, se ha davvero un senso raccontarsi per provare a ripartire da quello che abbiamo sbagliato e da quello che fortunatamente abbiamo imbroccato.
Nel 2009 ho cambiato due lavori, incontrando gente meravigliosa e inciampando in figuri tristemente meschini. Sono tornata a lavorare a Venezia, un ritorno che ha significato un violento confronto con la vecchia me stessa, con le mie scelte passate, i miei numerosi treni persi (metaforicamente e fisicamente), i miei errori, i miei abbandoni e le mie paure.
È stato un anno in cui ho pensato più a sopravvivere che a vivere, scoprendo, con atroce scandalo, di far parte di quella larga fetta del paese che guadagna troppo poco, che non ha una famiglia facoltosa alle spalle e che non conosce le persone giuste; quella fetta che vive il continuo penitenziagite relativo alla crisi come la condanna a morte delle proprie ambizioni.
Un anno di intollerabile disagio per il mio paese e per la sua classe dirigente e anche per quella votante.
Un anno in cui, per trovare una misera stabilità professionale ed economica, ho smesso di cercarmi e, quando ho provato a riprendere il filo dei miei sogni, ho scoperto che era ormai troppo tardi per realizzare molti di loro. Un anno di occasioni mancate, di stanchezza emotiva e di poca autostima.
È stato un anno di addii, di alcuni affetti lontani e di altri partiti per non tornare mai più.
Un anno di eccessiva vita sociale e di solitudine infinita, di tantissime parole (quasi un fiume in piena sui miei social network) e di pochissimo dialogo.
Alla fine di questo infame susseguirsi di mesi, ho provato a decontestualizzarmi, a uscire dalla vischiosa -e stucchevole, lo so!- autocommiserazione in cui rischiavo di fossilizzarmi e a trovare pensieri felici a cui aggrapparmi.
Sono riuscita ad accumulare un quaderno di buoni propositi che riuscirò, come sempre, a procrastinare.
Non mi resta che provare a ricominciare dalla fine, a ricostruire dalle macerie, a fottermene del tempo che passa e vivere per il solo piacere di farlo.
Perché, nonostante tutto, sono ancora convinta che non sia così difficile essere felici.
Buon anno nuovo a tutti.