È il mio compleanno -ti ho detto- portami al mare.
E siamo saliti in macchina verso la costa.
C’era la nebbia, quella nebbia grigia e sporca, così veneta, così densa da entrarti nelle ossa, negli occhi, nei capelli lisci che diventano crespi, nei vestiti di lana che diventano pesanti.
Non distinguevamo nulla lungo la strada. Gli alberi, le case, i vecchi, i cani, le panchine, le fermate dell’autobus, le macchine parcheggiate, i cassonetti dell’immondizia.
Siamo arrivati sulla spiaggia, immersi nella foschia lattiginosa, e abbiamo iniziato a camminare e faceva freddo e tu dicevi è normale a gennaio e io pensavo all’anno in più e all’umidità che mi arricciava i capelli.
E abbiamo camminato sulla sabbia bagnata e sporca e per vedere il mare siamo dovuti arrivare fino a infilare quasi i piedi nell’acqua. Ed era un mare grigio, dello stesso colore del cielo, dello stesso colore della sabbia, dello stesso colore del vento.
Da quanto tempo non mi portavi a vedere il mare?
Ti ricordi quando, nei pomeriggi pigri e stanchi, saltavamo in macchina e andavamo a cercare la libertà? In fondo alla strada per la libertà c’era sempre il mare, azzurro o verde, calmo o arrabbiato, con l’odore forte di orizzonte e di promesse.
Questo mare qui, il mare di questo inverno, è un mare invisibile, un mare schivo, un mare che si nasconde e non vuole raccontare storie.
Ho sempre pensato che le storie di mare fossero dentro di noi, che avessimo il mare dentro.
Come il titolo di quel film che abbiamo noleggiato, anni fa, e non abbiamo mai finito di guardare e ci siamo detti prima o poi lo guarderemo, un giorno, in futuro. Quando ancora non ci spaventava l’eternità.