Archivi tag: giovani

Nessuno ha più voglia di restare

Nessuno ha più voglia di restare.

I miei coetanei se ne sono già andati. Non tutti, e chi è rimasto non fa che pensare di aver sbagliato a dare una possibilità al Paese. Chi è rimasto è considerato un perdente, un pigro, uno non abbastanza bravo. Perché a nessuno può davvero venire in mente che tu sia rimasto perché l’ami davvero, l’Italia.
Non si ama una madre che ti affama, ti umilia, uccide la speranza, ti sfrutta, ti toglie quello che ti spetterebbe di diritto per darlo a chi ruba, imbroglia, minaccia.

Sono rimasti quelli che potevano permetterselo: casa comprata da mammà, lavoro trovato da papà, mutuo intestato alla nonna, perché nessuna banca lo darebbe a te. E poi sono rimasti i folli, quelli che continuano a credere che c’è ancora qualcosa di buono da salvare, e ogni mattina si svegliano con un peso all’altezza dello sterno, che non vuole scendere, non vuole salire, che ogni giorno camminano in equilibrio su un filo sottilissimo e sanno che, se si spezzerà e cadranno, non ci sarà più la possibilità di tornare in posizione eretta.

L’Italia è un paese di caste. Per quanto tu possa impegnarti, essere bravo, avere tenacia, seguire le regole, se nasci senza santi in paradiso, senza genitori ammanicati, senza denari, resterai un poveraccio tutta la vita. Non importa quanto tu abbia talento, quanto le tue idee siano geniali. Qui ci vogliono le conoscenze, i soldi, qualcuno che ti paghi le spese, ci vogliono gli amici, non quelli a cui vuoi bene, gli amici, quelli che aprono porte, stringono mani, chiedono e ricevono favori.
Ci sono due soli modi per riuscire a emanciparti dalla tua casta: rubare e dimostrare di essere uno di loro, o sposartene uno e, se tutto va bene, sperare che nessuno si accorga da dove vieni.

Io sono una di quelle che è rimasta. A vent’anni me n’ero andata e poi sono tornata, convinta che ci fossero margini di miglioramento, che avrei fatto di differenza, che avrei cambiato le cose. Purtroppo, poi, sono stata infettata con il virus che ha distrutto la mia generazione: il disimpegno. Ho smesso di lottare, di capire, di alzare la voce. Perché più tiravo pugni, più i muri diventavano duri, più correvo, più la strada si allungava, più gridavo, più le persone intorno a me diventavano sorde.
Forse anche per età, smetti di pensare a TUTTI e cominci a concentrarti su di TE. Magari, ti dici, se provi a salvarti da solo, ce la fai.
Non ce la fai. Non ce la fai.

Il giorno che sono arrivati i miei coetanei al potere ho pensato che era arrivato il momento di liberi tutti, la svolta, la trasformazione. In Parlamento c’erano ragazzi come me che non erano partiti, non avevo scelto un’altra patria, un’altra casa, ed erano rimasti a camminare su quel dannato filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
E invece no. Sono arrivati sugli scranni quelli rimasti in Italia perché potevano permetterselo e non perché volevano guadagnarselo, quelli che non cambieranno le cose, perché non hanno mai avuto bisogno di farcela e non hanno mai avuto paura di perdere tutto.

Cosa ci resta da fare?

Siamo troppo vecchi per partire, troppo giovani per rassegnarci.

Non ci resta che parlare, capire, informarci, discutere, alzarci da questi cazzo di divani Ikea che ci succhiano le energie, allontanarci dai Reality, trovare una piazza in cui incontrarci tutti, liberare la rabbia, davvero, liberare l’indignazione, smettere di sperare che la pensione dei nostri genitori ci pari il culo, smettere di diventare come loro per non morire, alzare la voce, alzare le braccia, farei cortei, ma per i motivi giusti, non per le scie chimiche, per i parcheggi in centro, per dare fuoco ai campi rom, ma per riprenderci quello che ci hanno tolto senza che nemmeno ce ne accorgessimo, lottare per le cose che abbiamo studiato, capito, condiviso, fare la rivoluzione vera, quella che non siamo mai stati capaci di fare dopo il Risorgimento, smettere di fare la guerra dell’ironia su Twitter, che non cambierà niente, un cazzo di niente, andare a menare le mani, se serve, smettere di sentirci dei falliti perché abbiamo deciso di amare questo paese di merda e di restare qui a salvarlo.

Nessuno ha più voglia di restare. Ma noi siamo qui.

I signori delle mosche

Non so chi sia stato il primo a mettere in giro la bislacca idea che a quarant’anni tu sia “un giovane”.

Non che tu non possa sentirti un eterno pischello e andare a ballare ogni fine settimana e indossare pantaloni dal cavallo bassissimo con il boxer triste in bella vista. E se sei donna, puoi continuare a fingerti adolescente e indossare la minigonna, anche se le tue ginocchia stanno diventando rugose come lo sharpei di mia zia.

Non dipende dall’abito né dallo spirito. Siamo liberi di vivere da ragazzini, pur sembrando grotteschi, perché nessuno ci vieta di coltivare i nostri imbarazzi, nel terrore che Peter Pan non entri più dalla nostra finestra e non ci porti nell’Isola che non c’è (quando a me basterebbe anche solo che, da quella finestra, mi portasse una pizza d’asporto e il voltaren per il mal di schiena).

Possiamo sentirci ragazzi in eterno, ma – e mi duole dirvelo, rovinando il vostro pasto domenicale – non lo siamo.

Potremmo barare un po’, alzando l’asticella di un decennio, fingendo che l’adolescenza arrivi fino ai venticinque e i venticinque durino fino ai trentacinque. Ma lo sappiamo tutti che il tempo infame corre più veloce di noi e che, a un certo punto, bisognerà accettare l’evidenza.

Enrico Letta è nato nel 1966, undici anni prima che in Italia arrivasse la tv a colori. Quando il fucile ha spappolato il cranio di Kurt, lui aveva quasi trent’anni e non so se ha pianto come noi che abbiamo fatto le veglie al liceo, indossando le nostre camicie sudicie da boscaiolo e i capelli sporchi. Leggere Dylan Dog non ti rende ragazzo, ché sono 27 anni che compriamo i suoi albetti e se il tempo scorresse tra la carta, come nella vita, l’indagatore dell’incubo avrebbe sessant’anni e sarebbe così sfatto che nessuna delle figone che si porta a letto lo degnerebbe di uno sguardo. Sempre meglio dell’Ispettore Bloch, che se ne sarebbe andato già al creatore, senza nemmeno essersi goduto la pensione.

Non ho nulla contro i quasi cinquantenni e non ho nulla contro Carla Bruni che dice “sono tornata una cattiva ragazza” quando ha già soffiato 45 candeline.

Non ho nulla contro la gente che invecchia. Lo faccio anche io, sebbene preferirei evitarlo. E un tempo sono stata tra quelle giovani, la più giovane, nella compagnia teatrale, all’università, a lavoro. Poi smetti di essere giovane, anche se rimani il più giovane. Non è la stessa cosa.

Sono consapevole che la nostra classe politica è piena di cariatidi in via di decomposizione, per lo più sagge, meritevoli e autorevoli, eccetto una minoranza (a esser buoni) che avrebbe dovuto avere la decenza di tirare le cuoia da mo’. Un abbassamento dell’età media potrebbe riuscire a riportare la merda a un livello più basso, magari sotto le narici, così riusciamo a respirare.

Il punto è che non basta essere giovani. Avere qualche anno in meno non è una competenza. Non basta a consolarci, a darci l’idea che tutto vada meglio.

È che essere giovani non è soltanto una questione di spirito. Potrebbe esserlo e fa bene preservare l’entusiasmo e la speranza dei nostri vent’anni per sempre. Ma bisogna accettare di essere adulti, perché il rischio di fingersi giovani è l’alibi per essere imperfetti, per sbagliare, per stravolgere le poche cose buone che restano, per distruggere, senza poi ricostruire, per non ascoltare, per fare compromessi, pur di rimanere i più giovani attaccati alla poltrona. Perché poi, “i giovani”, hanno sempre i grandi dietro che danno indicazioni.

Il paese è pieno di giovani veri. Ragazzi e ragazze disimpegnati, emigranti, disoccupati e inoccupati. Molti con l’unico grande sogno di ballare/cantare/piangere nei reality, altri col desiderio di ottenere almeno un terzo di quello che i loro genitori hanno sudato, altri ancora inconsapevoli e inetti, con l’idea che nulla cambierà e tanto vale lasciarsi vivere.

Dopo mesi di attesa di cambiamento, ci propinano il solito compromesso schifoso. Particolarmente schifoso, perché mascherato da incredibile innovazione. È un esecutivo di giovani! È un esecutivo di donne!

Ben vengano. Alcuni nomi sono commoventi, altri rischiosi e tanti imbarazzanti.

C’è da chiedersi quando basti abbassare l’età e cambiare il genere per fare meno danni. Abbiamo fatto fuori i pupari che reggono i fili o abbiamo solo mandato avanti la fanteria a farsi maciullare per prima?

È bello sapere che esiste un ricambio generazionale, purché sia possibile cambiare davvero le cose. E a leggere tra le righe, mi sa che verremmo ancora una volta delusi.

Ecco, una cosa che hanno capito i giovani, quelli veri: l’unica cosa a cui puoi ambire è “il meno peggio”.

Mi dicono “diamogli fiducia, non abbiamo nulla da perdere. Almeno sono più giovani”.

I naufraghi del Signore delle Mosche erano tutti ragazzini e il loro governo è finito a schifio.

Ma io sono cinica e disillusa. Forse non sono la persona giusta per comunicare entusiasmo. Forse sarei stata comunque insoddisfatta. Mi consola il fatto che sono ancora così giovane da poter migliorare.

 

P.s. mentre stavo per pubblicare il post, alcuni folli hanno sparato sulla folla, fuori da Palazzo Chigi, ferendo due carabinieri. Non abbiamo bisogno di criminali per tornare così tanto indietro. Noi abbiamo un disperato bisogno di andare avanti.