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Club sandwich d’autore

Durante la lunga estate calda in cui ho scritto la tesi di laurea, sono tornata a vivere da mia madre.
Avevo bisogno di un posto che non mi concedesse distrazioni, in cui non ci fossero coinquilini con la musica a tutto volume a qualsiasi ora del giorno, il cui livello di pulizia fosse sempre perfetto e, soprattutto, in cui ci fosse un frigo pienissimo, perché da sempre il mio appetito triplica quando devo studiare o scrivere.

A casa da mammà, in quel periodo, viveva ancora mio fratello, alle prese con i suoi faticosi esami di ingegneria. Ci controllavamo a vicenda, stando attenti che l’altro non perdesse tempo in sciocchezze (non esistevano né i social network né le serie tv in streaming all’epoca: per perdere tempo dovevi leggere un libro o guardare qualche televendita con Mike Bongiorno) e, con una disciplina che non ho più avuto nel lavoro, riuscivamo a concederci poche pause calcolate per riprendere le energie.

C’era la pausa in cui facevamo partite a Bubble Bobble con il Nintendo, quella in cui Paolo vinceva sempre e io uscivo sistematicamente dai gangheri. Quindi lui diceva che non voleva più giocare con me perché non sapevo perdere e io gli promettevo che non sarebbe più accaduto fino alla pausa successiva, in cui cercavo di lanciare la vecchia pesantissima tv a tubo catodico giù dalla finestra.

E poi c’era la pausa per il pranzo, rigorosamente fatta all’ora in cui trasmettevano i Simpson, per unire l’utile al dilettevole.

Siamo sempre stati creativi in cucina, mio fratello e io, ma in quel periodo abbiamo dato vita alle nostre migliori ricette. Su una cosa eravamo imbattibili: le giuste formule per i sandwich. Perché per noi era importante riuscire a combinare il maggior numero di ingredienti possibili, nel minor tempo, senza rinunciare alla maneggiabilità del panino, al gusto e all’equilibrio.

Il panino a strati diventava un momento di condivisione e creatività davvero rilassante, senza contare che riuscivamo a infilare tra le fette di pane dei pasti completi. E che c’erano poche pentole da pulire!

Mi sono laureata in autunno con il massimo dei voti e poi la vita ha preso strade inaspettate. Mio fratello è partito per il Brasile e ci è rimasto dieci anni. Ogni volta che ci incrociavamo in giro per il mondo, come adesso che è tornato “a casa”, la cosa più bella e rilassante è sempre cucinare insieme.
Siamo ancora Masterchef di panini.
Speriamo un giorno che possano piacere ai nostri figli quanto piacciono a noi.

Una delle mie ricette preferite è il family club sandwich.

Per prepararlo occorrono

4 fette di pancarré senza crosta
4 fette di Edam Bayernland*
1 fetta di petto di pollo
1 uovo sodo
1 foglia di lattuga
1 pomodoro
senape o maionese (ma meglio la senape!)

Ingredienti Club Sandwich

Tostate il pane separatamente, facendo attenzione a non farlo seccare troppo. Intanto, rosolate in padella il petto di pollo, affettate l’uovo sodo e il pomodoro a rondelle e lavate e asciugate con cura la foglia di lattuga. Spalmate la senape su un solo lato delle due fette di pane esterne al panino e su entrambi i lati di quelle che resteranno all’interno poi disponete gli ingredienti come preferite, ricordando di creare tre strati di sandwich. Il mio consiglio per una consistenza perfetta? Pane, lattuga, petto di pollo, pane, edam, uovo, edam, pane, edam, pomodoro, edam e pane.

Et voilà!

Club Sandwich

Dividete con cura il club sandwich in due metà, dopo averle infilzate con due stecchini e servite.
Il contorno perfetto? Patatine fritte.
E alla prova costume penserete domani…

*Post in collaborazione con Bayernland

Una farfalla non fa primavera

Sono una tipa da mezze stagioni.
Non mi piace l’inverno, troppo buio, con le giornate corte, i vestiti pesanti, la pelle grigia e il freddo che ti aspetta fuori dal letto, quando sei costretto a lasciare il tepore del piumone la mattina. Non amo nemmeno troppo l’estate, con il caldo insopportabile, le spiagge affollate, il divertimento a tutti i costi, le code interminabili in autostrada per meritarsi qualche giorno di ferie e le stupide zanzare.

Mi piacciono le stagioni tiepide, in cui non sudi e non hai i brividi, quelle in cui puoi uscire indossando soltanto il golfino, puoi pranzare all’aperto, puoi muoverti in bicicletta, puoi andare a correre al parco (o puoi anche solo immaginare di farlo, perché per certe cose basta il pensiero).

La primavera è la stagione perfetta: c’è luce fino a tardi, puoi lasciare sciarpe e guanti nell’armadio, è il momento giusto per pianificare lunghi viaggi, quello per iniziare nuovi lavori, per vivere qualche avventura, per flirtare.
Avete mai provato a innamorarvi a febbraio, quando la temperatura va sotto zero e la cosa più romantica che può accadervi è infilarvi a letto con la borsa dell’acqua calda?
Aprile è il mese giusto per far scattare le scintille, per conoscere, per emozionarsi, per sognare, per fare progetti (anche quelli che non realizzeremo mai).

Ed è il momento giusto per iniziare a prenderci cura di noi, a mangiare bene, a sgonfiarci un po’, per sentirci più leggeri e per superare, senza angosce, la prova costume.

Quando arrivano le belle stagioni, io divento salutista e fanatica delle insalate… quelle di pasta, però, i piatti unici che preferisco in assoluto.
Potrei mangiarle anche tutti i giorni (e durante la gravidanza credo di averlo fatto). Sono facili da preparare, ottime da conservare e puoi variare sempre gli ingredienti, così non ti annoi mai. Inoltre sono un pasto completo, che sazia e che dà soddisfazione.

Quella che vi suggerisco l’ho chiamata Le farfalle a primavera.

Per prepararne una porzione occorrono:

– 80 grammi di pasta formato farfalle (scrivo 80 perché la mia dietologa mi legge, ma per me butto almeno 150 grammi 😉
– Una fetta di formaggio stagionato Pamigo Bayernland
– Pomodorini secchi sott’olio
– Olive nere alla greca
– Basilico fresco
– Sale qb
– Olio evo qb

Ingredienti pasta

Dopo aver cucinato la pasta e averne stemperato la temperatura aggiungendo un po’ di olio crudo, unisci le olive, i pomodorini a pezzetti e il formaggio tagliato a dadini. Mescola tutto e decora con il basilico e con altri pezzetti di formaggio.

Farfalle a primavera

Veloce e buonissima.

E a stomaco pieno è ancora più facile essere felici.

*Post in collaborazione con Bayernland

La torta salata più veloce del west

Ogni mattina (quasi sempre all’alba) una neomamma si sveglia e sa che deve iniziare a correre per riuscire a fare tutto.
Perché quando inizi a vivere la vita del tuo cucciolo, il tempo sembra scorrere più velocemente.
Molto più velocemente.
Troppo.
E sei in ritardo per il nido, in ritardo per il lavoro, in ritardo per le bollette, in ritardo per qualsiasi appuntamento tu abbia preso con chiunque (il medico, la parrucchiera, la Regina d’Inghilterra) e non riesci a pulire/stirare/fare la spesa e appena credi di avere cinque minuti di tregua, pochi attimi tutti per te, per fare qualcosa che ti piace, anche solo bere un caffè, guardare video di gatti grassi su Instagram o depilarti le sopracciglia perché ormai sembri Frida Kahlo, ecco che arriva la telefonata che rovina i tuoi sogni: “il bambino ha la febbre, puo passare a prenderlo prima?”.
Ogni mattina una neomamma si sveglia e sa che deve iniziare a correre per fare tutto. Quindi ogni azione deve diventare più efficiente, più efficace, più veloce.
In cucina, per esempio, non puoi più dilettarti in piatti laboriosi e complicati che nemmeno nella puntata finale di Masterchef, ma devi riuscire a essere rapida, scaltra e abile.
Il segreto per continuare a nutrirsi in modo sano senza ridursi a mangiare solo insalate in busta è sempre lo stesso: la torta salata.
È un piatto caldo, piace a tutti e puoi guarnirla anche in modo semplice, ottenendo sempre un buon risultato.

La ricetta per la torta salata più veloce del West?

• 1 rotolo di pasta sfoglia tonda (sei sicura che vuoi prepararla in casa? Perché se la prendi al supermercato come faccio io, prometto di mantenere il segreto)
• 8 fette di Tilsiter Bayernland
• 2 zucchine piccole tagliate e rondelle sottili
• Sale e pepe q.b.

Ingredienti torta salata

Stendete la pasta sfoglia in una teglia da forno, bucherellando con la forchetta. Adagiate sul fondo 4 fette di Tilsiter, coprendo tutta la superficie, disponete le rondelle di zucchine, ricoprite il tutto con le fette rimanenti di formaggio e richiudete i bordi con la pasta. È fatta!
Mettete tutto in forno preriscaldato a 180° per circa 25 minuti (durante i quali potreste lavare i piatti, passare l’aspirapolvere, lavarvi finalmente i capelli o magari lasciare perdere tutto e giocare con il vostro piccolo) ed è pronta.

Torta salata velocissima

Vi assicuro che è buonissima. Anzi, di più: è a prova di suocera!

*Post in collaborazione con Bayernland

Vieni a fare merenda da me

Ai tempi del liceo Chiara, la mia compagna di banco, passava spesso i pomeriggi da me per fare i compiti. Erano ore divertentissime, perché piene di chiacchiere su maschi (che non si sarebbero mai fidanzati con noi), pettegolezzi su VIP (che non avremmo incontrato mai di persona) e progetti su viaggi e avventure (che forse non avremmo mai fatto).
Il venerdì era il giorno della settimana che aspettavamo con più trepidazione, e non perché l’indomani ci fossero soltanto quattro ore di lezione, ma perché il giovedì sera, su Italia1 andavano in onda le puntate di Beverly Hills 90210.
Per noi ragazzini degli anni ’90, Beverly Hills era LA SERIE TV (quasi quanto Non è la Rai era LA TRASMISSIONE) e poteva resistere come argomento di conversazione nell’intervallo per giorni e giorni.
A casa di Chiara il giovedì sera la televisione era sintonizzata su un altro canale, quindi io registravo le due puntate su un VHS* per lei e le riguardavamo insieme prima di metterci a lavoro. Magari la mattina a scuola le avevano già raccontato la trama, perché ai quei tempi lì lo spoiler non era ancora reato, ma lei era felice lo stesso di controllare in prima persona se Dylan** sarebbe tornato con Brenda e avrebbe lasciato Kelly o viceversa.
Ce ne restavamo due ore sul divano a guardare gli episodi e a mangiucchiare dolci o snack e poi facevamo i salti mortali per finire i compiti in fretta, prima del tramonto, l’ora in cui lei aveva il coprifuoco.

Quelle merende sono uno dei più bei ricordi che ho del liceo, di quegli anni inquieti e faticosi che chiamano adolescenza, ed è forse per questo motivo che ancora oggi, quando posso, cerco di trovare un momento durante il pomeriggio per rilassarmi mangiando dolci e guardando serie TV (avreste mai immaginato di vivere in un futuro in cui esiste Netflix?), magari insieme a un amico o al mio compagno.

Un’idea per uno spuntino delizioso? Il budino con le lingue di gatto!

Per prepararlo occorrono:

• 2 Budini cacao con panna Bayernland
• 100 Grammi di burro a temperatura ambiente
• 100 Grammi di farina
• 100 Grammi di zucchero a vela vanigliato
• 3 Albumi d’uova grandi
• Zuccherini colorati per guarnire

Budino Bayernland

Tenete i due budini in frigo mentre preparate le lingue di gatto.
Con le fruste amalgamate il burro e lo zucchero fino a ottenere un impasto cremoso, aggiungete un po’ alla volta gli albumi, continuando a frustare, e infine la farina setacciata. La crema ottenuta va lasciata riposare un quarto d’ora in frigo. Una volta raffreddato, infilate l’impasto in un sac à poche con un beccuccio tondo e create delle strisce di crema (larghe almeno 1,5 centimetri e lunghe 6) su una leccarda rivestita di carta da forno, facendo attenzione a distanziarle bene una dall’altra. Durante la cottura, la crema tende ad allargarsi e a prendere la classica forma “a lingua”. Infornate, in un forno preriscaldato a 180°, e i biscotti saranno pronti in circa 8 minuti. Tirateli fuori, staccateli dalla carta e lasciateli raffreddare su un piatto. Una volta freddi e croccanti, inseritene uno o due nel budino, decorando la panna in superficie con gli zuccherini.
Golosi, vero?

Budino goloso

Buona merenda!

*Lo so, sono un dinosauro
**Io sono sempre stata del team Brandon Walsh.

Post in collaborazione con Bayernland.

Stay Fit, gnam gnam: involtini di salmone per restare in forma

Le feste sono ormai passate da un mese, ma il loro ricordo resta indelebile con noi, nella nostra memoria e, soprattutto, sui fianchi.
Negli anni passati, vittima dei sensi di colpa, riuscivo a smaltire in fretta gli eccessi natalizi, rintanandomi in palestra a sovrallenarmi durante la pausa pranzo (scelta strategica) ed eliminando qualsiasi possibile tentazione dalla dispensa di casa. Facevo sparire tutto, con una precisione maniacale, lasciando il campo libero solo a deprimenti pugni di riso e pallidi petti di pollo. Cercavo di lenire la fame con l’aria e la buona volontà. A volte, il frigo era così vuoto che dovevo mandare una spedizione di speleologi a cercare qualche residuo di cibo.
La dieta di privazioni e sudore funzionava.
Per qualche settimana.
Poi alla prima occasione, un compleanno, un aperitivo, una visita di mia madre, una cena di lavoro, una pizza con gli amici, un pacco di biscotti lasciato aperto da un ospite di passaggio, ogni buona intenzione andava a farsi benedire, la casa tornava a riempirsi di cibo e l’ago della bilancia a salire.

Con la maternità è cambiato tutto.
Nonostante bagordi e abbuffate, non sono ingrassata, (avete idea di quante calorie fa bruciare un pupetto di 11 chili che non vuole saperne di gattonare e chiede di essere trasportato sempre in braccio?) e soprattutto non ho nessuna intenzione di privarmi del cibo nel periodo in cui devo già privarmi del sonno perché Alessandro sta mettendo i dentini e di notte non dorme.

Devo comunque depurarmi, certo, ma il mio dopo le feste è fatto di cibo buono e leggero, nella giusta misura e da cucinare velocemente (perché il tempo è diventato il mio bene più prezioso). Oltre a un’attività fisica moderata e mirata, senza strafare, e possibilmente intervallata da qualche sonnellino.
O più di un sonnellino.

Una delle ricette che ripeto spesso e che mi dà più soddisfazione, in questi giorni, è quella degli involtini sfiziosi di salmone.
Facilissima da realizzare, può essere un pranzo veloce, uno spuntino gustoso o un ottimo aperitivo.
Per prepararli occorrono:

150 grammi di salmone affumicato a fettine
100 grammi di Alpigiana Bayernland
50 grammi di yogurt intero
100 grammi di pane di segale
Aneto fresco
Erba cipollina
1-2 cucchiaio di olio evo
Sale
Pepe in grani

Ingredienti rotolini salmone

Amalgama insieme l’Alpigiana con lo yogurt, l’erba cipollina e l’aneto tritati, pepe e sale e disponi il composto sulle fette distese di salmone. Affetta a listarelle sottilissime e lunghe il pane e aggiungine un paio di pezzetti al centro di ogni fetta di salmone, per tutta la lunghezza. Arrotola e metti gli involtini in frigo per almeno un’ora.
Prima di servire, taglia le fette grandi in cilindri di 4 o 5 centimetri e aggiungi l’olio.

Rotolini di salmone

Il pranzo è servito!
Non sono buonissimi?

(L’importante è non fare come me, che riesco a finirli prima ancora di metterli in frigo).

*Post in collaborazione con Bayernland.

E se non ci vediamo, buona fine e buon inizio

Finisce un anno lungo, lunghissimo, eterno, eppure veloce, breve, corso via troppo in fretta.
È stato l’anno in cui sono diventata diversa, improvvisamente troppo adulta, piena di responsabilità, occupata senza sosta a prendermi cura di un altro essere umano, piccolo, indifeso, eppure potente e grandissimo, che un tempo era dentro di me. Mentre diventavo grande, sono tornata anche bambina, con la voglia di scoprire il mondo, sempre a canticchiare filastrocche, a inventare parole nuove, a giocare, a sporcarmi i vestiti di moccio e pappa, a ridere per le cose semplici.

La maternità, l’essere una persona mamma, ha occupato gran parte  delle mie giornate, riempiendole di tenerezza, amore e sorrisi, ma anche di fatica, di sonno arretrato, di apprensione e di solitudine profonda.
Diventare mamma ha cambiato la percezione che gli altri hanno di me, rendendoli in alcuni casi più indulgenti e in altri fastidiosamente più intransigenti. Per alcuni mesi, in cui cercavo di conoscere e capire la donna nuova che abita il mio corpo, sono stata circondata da persone che hanno cercato di insegnarmi come vivere, hanno provato a farmi sentire sbagliata e hanno tenacemente tentato di fiaccare il mio entusiasmo.
Ci sono poi stati altri, inaspettati e belli, che hanno teso una mano, hanno sdrammatizzato, hanno chiamato solo per sapere se stavo bene, si sono fatti chilometri in macchina per venire a cucinarmi un piatto caldo e poi ripartire, mi hanno detto che ci so fare e che sarà sempre tutto più facile. Di questa umanità piena di vita, entusiasta e affettuosa che mi circonda sono e sarò sempre felice e grata.

Questo è stato l’anno di una grande delusione professionale e umana, del fallimento di due progetti su cui avevo lavorato molto, per lungo tempo, e che avevano prosciugato idee e fiducia; l’anno delle promesse disattese, del senno di poi. È stato l’anno della fatica lavorativa, della presa di coscienza di dover cambiare qualcosa, osare, trasformarmi ancora, rispolverare vecchi sogni chiusi in qualche scatola persa in uno dei tanti traslochi della vita.
È stato anche l’anno delle collaborazioni inaspettate, dei lavori belli, delle soddisfazioni dell’ultima ora, delle nuove sfide, dei contratti che aprono orizzonti emozionanti e impegnativi.
Uno speriamo che me la cavo continuo.

È stato l’anno dei traslochi, fisici ed emotivi. Ho venduto una casa perfetta, in cui non avevo mai abitato e che mi aveva resa molto infelice. Ci ho perso così tanti soldi che non credo riuscirò mai a metterli nuovamente da parte, eppure era ormai l’ora di dirle addio, di chiudere quella porta e di aprirne una, due, cento nuove. È stato l’anno in cui ho provato a comprare casa a Milano e non ci sono riuscita, l’anno della frustrazione di non avere “abbastanza budget” per i miei desideri, l’anno in cui sono tornata in banca a chiedere se potrò mai accendere un altro mutuo, l’anno dell’odio per le agenzie immobiliari milanesi. Un anno che termina in affitto in un appartamento vecchio e scomodo, che amo tantissimo, in un quartiere bello e comodo che non posso più permettermi, ma che è e resterà per sempre casa.

È stato l’anno in cui ho viaggiato poco, mangiato troppo, letto meno, scritto quasi mai, rinunciato a tante cose e desiderato tantissimo.

Nel 2017 ho imparato l’importanza di chiedere aiuto, di non provare sempre a fare l’eroe, di accettare di essere umana e fallibile, di dormire quando posso, di sorridere più spesso, di dire grazie, di farmi viva con le persone care, di smettere di usare gli altri come metro dei miei successi e dei miei fallimenti. Ho imparato a spegnere il telefono, a guardare mio figlio negli occhi, a perdonare e perdonarmi, a darmi tempo, tempo, tempo, per guarire, per capire, per decidere. Ho imparato a essere onesta con me stessa, a sognare cose piccole senza sentirmi sbagliata, a sperare in cose grandi, enormi, senza sentirmi illusa.

Il prossimo anno voglio diventare forte (più forte), allegra (più allegra), determinata (più determinata). Voglio tenere le amicizie belle, salvare i rapporti che valgono ed eliminare tutte le persone tossiche che non mi fanno bene. Voglio riscoprire tutta la bellezza che mi circonda con gli occhi di mio figlio, insegnargli che la vita vale sempre la pena, che il mondo è pieno di sorprese, che non bisogna averne paura.
Il prossimo anno voglio fare le cose per bene nonostante, nonostante i sogni infranti, nonostante i guadagni scarsi, nonostante la stanchezza, nonostante i cattivi consigli.

L’anno prossimo, che arriva tra poche ore, ma che mi sento addosso da tutta una vita, sarà l’anno dell’essere fortissimi.

Io sono pronta.

Spero anche tu.

This is us

Tanta voglia di toast: gli strani comfort food in gravidanza

Ho avuto una gravidanza da manuale: primi mesi di nausee non troppo moleste, sonnolenza crescente (avrei dormito per giorni interi), ormoni scombussolati, lacrime per ogni pubblicità commovente e ogni foto di gattini su Instagram, piedi non troppo gonfi, capelli folti e pelle splendente. Tutto tenuto facilmente sotto controllo eccetto due cose: l’avversione per il caffè (ne sono sempre stata dipendente) e la voglia di toast.
Fino al sesto mese non volevo mangiare altro che toast.
O meglio, ci sono state sporadiche sere di grande vita mondana in cui mi sono preparata della deliziosa pastina col brodo di dado, ma per lo più desideravo formaggio grigliato e filante racchiuso nel pane a fette. Le passeggiate quotidiane finivano quasi sempre con una sosta al bar per il toastino prosciuttoformaggio di rito, fino a quando non ho iniziato a cucinarmeli in casa, a farmeli gourmet e a propinarli al fidanzato ogni volta che si fermava a mangiare da me (per fortuna ne era ghiotto anche lui).

Vi scrivo la ricetta del mio preferito, che è un buon compromesso da ghiottoneria a fashionblogging: il TOASTOCADO!

Ingredienti toastocado

Ingredienti:

2 fette di pane bianco americano (quello da sandwich)
1/2 avocado maturo
Limone o lime, sale e pepe qb*
1 fettina sottile di petto di pollo tagliata a straccetti (o prosciutto cotto)
Olio evo**
Emmental a fette Bayernland

Dopo aver schiacciato l’avocado e unito limone, sale e pepe fino a ottenere una crema densa, rosolate gli straccetti di pollo in poco olio fino a farli diventare croccanti. Procedete poi alla composizione del panino.
Attenzione! Perché sia perfetto e godurioso, l’ordine deve essere: pane-emmental-avocado-pettodipollo-emmental-pane.
Una volta creato il toast, non resta che scaldarlo in una padella antiaderente, schiacciandolo con una paletta et bon appétit!

toastocado

Non viene voglia anche a voi di mangiarlo?

P.S. dal settimo mese di gravidanza sono tornata a mangiare tutto. Ma davvero tutto. Cioè, tutto quello che mi capitava sotto al naso… E sto ancora smaltendo gli ultimi chili presi! Se siete in dolce attesa, il mio consiglio è di mangiare con gusto, ma con moderazione.
Eh.

P.P.S. Insieme a Bayernland Italia ho girato la web serie Mammamia! per aiutare tutte le mamme a sopravvivere ai tutorial… delle altre mamme! 😉 La prima pillola è online qui. Buon divertimento!

*significa quanto basta, cioè regolati un po’ a occhio
**è l’acronimo di Extravergine di oliva, nel caso ti stessi chiedendo “ma chi è ‘sto evo?”

[Post in collaborazione con Bayernland]

Proteggiamo i nonni, salviamo le mamme!

Invecchiando (o forse dovrei dire crescendo) sono diventata più apprensiva. Sto attenta agli spifferi, non mangio cibi di dubbia provenienza, guardo sempre con eccessiva cura prima di attraversare, esco con l’ombrello quando il cielo minaccia pioggia e tolgo le scarpe sulla soglia di casa per non portare troppi germi all’interno.
Eppure, nonostante la cura minuziosa con cui cerco di tenermi lontana dai malanni, le prime malattie da nido di Alessandro hanno colpito lui, me e il papà e ho dovuto richiamare in aiuto SuperNonna Carla.

mammine

Ancora una volta, come già accaduto spesso nell’ultimo anno, senza la nonna accanto sarei stata persa. Mentre resto a letto con la febbre, lei coccola il piccolo acciaccato, fa la spesa, cucina, sistema la casa e sposta tutti gli oggetti e i mobili come preferisce, facendomi impazzire perché non ritrovo mai gli oggetti dove li avevo messi. E quando tutto sembra più tranquillo, riesce anche a occuparsi di me, facendomi sentire ancora una giovane figlia e non solo una madre adulta.

Ieri era la Giornata Mondiale per la Lotta alla Polmonite e discutevo proprio con lei sulla percezione che hanno i miei e i suoi coetanei della malattia. La sua generazione è la meno consapevole della gravità e dei rischi della malattia, eppure ogni anno in Italia i decessi per polmonite sono circa 9000 e nella quasi totalità dei casi colpiscono persone sopra i 65 anni.

Moderni supereroi a rischio

Sebbene esista una profilassi specifica per evitare di contrarre la polmonite, sono ancora diffusi molti falsi miti su come prenderla. Per esempio, gran parte degli anziani è convinta che mantenersi genericamente in buona salute sia un buon modo per non ammalarsi, che mangiare sano e non condividere bicchieri e stoviglie sia sufficiente a non entrare in contatto con il virus e che lavarsi spesso le mani renda immuni da qualsiasi contagio. A sentire gli aneddoti sui conoscenti di mia madre (per fortuna pochi) che l’hanno contratta, sembra proprio che fossero stati presi alla sprovvista: purtroppo, tutte le più diffuse regole igieniche e di buon senso non sono abbastanza quando si ha a che fare con la polmonite.

Falsi miti da combattere

La Giornata di ieri serviva proprio a sensibilizzare la popolazione alla prevenzione. Perché basterebbe andare a informarsi dal proprio medico di famiglia per aumentare di moltissimo le chance di non ammalarsi. Prendiamo un appuntamento, facciamo una telefonata, accompagniamo i nostri genitori dal dottore!
Se la salute di mia madre cedesse, in questo periodo, sarei disperata.

Il motto resta sempre: proteggi un nonno e salva una mamma!

Il tempo quando non fa il galantuomo

È il primo novembre, dal 2011, in cui non uscirà un mio nuovo romanzo in libreria. Stava diventando una piccola tradizione a cui iniziavo a legarmi. Era confortante sapere di avere un appuntamento fisso con i lettori più affezionati.

Quest’anno è stato professionalmente tutto più difficile, perché la maternità è un’esperienza totalizzante, un lavoro 24/7, è vivere la vita di un altro essere umano dall’inizio, nutrirlo (letteralmente) col tuo corpo, essere presente a tutte le sue prime conquiste, restare sveglia per notti intere, e per settimane o per mesi riuscire a riposare poco e male, col rischio di concentrarti pochissimo, avere tempi di recupero eterni, non essere mai disponibile negli orari in cui dovresti.

Sono stata fortunata perché ho comunque lavoricchiato, su progetti belli, per agenzie e riviste serie e professionali, con colleghi pazientissimi, soprattutto considerando che ho la nonna che vive a 250 chilometri di distanza e un budget molto risicato per assistenza specializzata (sante tate, carissime tate!). Ho provato a incastrare tutto tra un riposino, la notte, un giorno libero del mio compagno, qualche mattina di autonomia.

Però un libro no, non ce l’ho fatta. Ho trovato un’agente (e avrei dovuto farlo due anni fa), abbiamo scelto un soggetto da sviluppare tra i tanti che avevo in mente, un editore a cui proporlo, e adesso non mi resta che provare a scrivere uno e due capitoli per capire se è nelle mie corde. Ma il tempo della scrittura è un tempo infame, che non ha rispetto dei programmi, che non sfrutta le ore libere, che ti lascia a marcire giorni interi davanti a una pagina bianca e poi spinge e preme quando non hai in mano nemmeno il cellulare per prendere appunti, figuriamoci un pezzo di carta!

È vero, come mi ripetono in tanti, che quest’anno ho dato alla luce il mio più grande capolavoro, (mio figlio, eh, e non lo trovate sugli scaffali), ma è altrettanto vero che è frustrante rendersi conto di non riuscire a fare tutto, di dover rallentare, mollare la presa, accorgersi che il tempo non sa fare il galantuomo come dicevano, e a volte corre troppo in fretta, quando non riesci a lavorare, e va tanto lento quando sei immersa nelle cose meno piacevoli, come la gastroenterite che il tuo piccolo ha preso dopo nemmeno una settimana di inserimento al nido.

Non sarà sempre così, lo so. Ci saranno altri libri e spero resteranno anche lettori curiosi di leggerli. E ci saranno altri lavori, quando tornerò efficiente al millepercento. Lo so e lo sanno tutte le mamme.
Ma trattateci bene, quando abbiamo paura di non tornare più le stesse di prima, perché forse è vero che non lo torneremo più. Forse saremo migliori. Forse scriveremo dei libri meravigliosi che non sapevamo nemmeno di avere in testa e ci ricorderemo di questi momenti fragili e irripetibili con tenerezza.
Forse.

Io voglio pensare che dopo sia sempre meglio di prima.

(Se non hai mai letto i miei libri e sei curioso o li hai letti e hai nostalgia, li trovi tutti qui).

Wonder Nonna, il mio nuovo supereroe

Ho passato gran parte della mia vita con un’inspiegabile paura di invecchiare, come se il meglio fosse sempre alle mie spalle e la vita diventasse troppo complicata col crescere dell’età. Eppure, da quando è nato Alessandro, il mio nuovo supereroe è una donna che si avvicina con un’incredibile energia ai settant’anni, nonna Carla, mia madre.

Wonder Nonna

Salta su un treno alla prima richiesta d’aiuto, sempre con il trolley pieno e le scarpe da ginnastica, culla il piccolo (che pesa già 10 kg) per ore, resta sveglia di notte quando i denti non lo fanno dormire, corre al supermercato, sale a piedi le scale di corsa, se l’ascensore è occupato e, mentre cucina/pulisce/parla al telefono/guarda la TV ricuce anche il bottone della camicetta che io ho lasciato sulla sedia nel 2013, pensando “lo faccio dopo”.
Mi chiedo spesso come ho fatto, a diciannove anni, a fare le valigie e ad avere così tanta voglia di andarmene di casa, mentre adesso non vedo l’ora che mamma torni ad accudirmi. Sono convinta che, se avesse abitato nella mia stessa città, i primi mesi della mia maternità sarebbero stati davvero una passeggiata.

In nessun corso preparto e in nessun manuale di puericultura spiegano che per i genitori moderni la vera salvezza sono i nonni. Hanno tempo da dedicare ai bambini, pazienza, esperienza (anche a se a volte tendono a fare di testa loro, con la scusa che “ai miei tempi, si faceva così”) e, cosa che non guasta, hanno spesso l’allegria e la rilassata serenità di chi può godere della pensione, un lusso che a noi, con molta probabilità, non verrà mai concesso.
Inoltre, i nuovi nonni sono lontanissimi dai vecchietti rugosi, canuti e pieni di acciacchi che avevamo in casa già solo due o tre decenni fa. Gli over60 di oggi sono in formissima, tonici, ben vestiti e con la vita mondana così piena da far sentire noi più o meno giovani, tutti divano e Netflix, dei poveri asociali. Li vedi correre al parco, uscire la sera a cena, andare al cinema, a ballare o in viaggio intorno al mondo.
Perché se è vero che i quaranta sono i nuovi trenta, i sessanta sembrano essere i nuovi venti.
La buona notizia è, quindi, che invecchiare non fa più paura.
Secondo una ricerca condotta a settembre da AstraRicerche per conto di Pfizer emerge chiaramente che gli “anziani” (quelli, per intenderci, che hanno diritto alla carta argento e allo sconto nei cinema il pomeriggio) si sentono molto più in forma dei loro coetanei di trent’anni fa e danno priorità assoluta alla salute, prima ancora che all’indipendenza e agli affetti.
Stare bene è la cosa più importante.
Pienz’ a salute è il mantra definitivo.

Eppure, con questo nuovo benessere, il rischio è quello di cominciare a credersi invincibili e sottovalutare l’indebolimento naturale del sistema immunitario, dimenticando che il corpo è purtroppo una macchina delicata. Per esempio, secondo l’Istat, ogni anno in Italia muoiono 9000 persone a causa della polmonite (NOVEMILA, oh! Il triplo della vittime degli incidenti stradali!) e il 96% di queste sono over65. Si sottovaluta il pericolo e si ritiene che mantenersi in buona salute o lavarsi spesso le mani con l’acqua tiepida siano sufficienti a contrastare anche batteri e virus. Si usa il buon senso e si evita di fare prevenzione.
Invecchiare non fa più paura, ma le malattie sì.
Quindi, siccome i nonni sono il nostro vero welfare, facciamo in modo che da veri supereroi non vadano volontariamente incontro alla criptonite. Mandiamoli spesso a fare un controllo dal medico di famiglia. E facciamo tutti più attenzione al nostro prezioso corpo.
Io prometto di salvaguardare la mia schiena, limitando l’uso dei tacchi alti, il piccolo Ale promette di indossare il cappellino quando va a giocare al parco e mia madre, superCarla, promette di informarsi di più e fare prevenzione.

(Vi allego questo video che spiega in maniera simpatica come viene spesso travisato il concetto di prevenzione. Ah, copritevi, che sta iniziando il freddo.)

Centottantuno giorni dall’inizio del mondo

6 mesi di Alessandro Ghigo

Oggi Alessandro Ghigo compie sei mesi. Lunghi e brevissimi, faticosi e bellissimi.
Sono mamma da mezzo anno, ho cambiato ritmi, abitudini, gusti, qualche idea, qualche amico, progetti e sogni, eppure, abbandonato ogni altro impegno, a causa di una (spero) temporanea inoccupazione, ho scoperto di essere piuttosto portata per questa faccenda della maternità.
Sono stati mesi di grande scuola, quella proprio “della vita”, in cui umilmente ho ascoltato, osservato, visto, sentito e annusato per apprendere.

Ho imparato che i figli spaventano appena nati, non comunicano, sono troppo fragili, piangono che ogni volta ti si strappa il cuore e ti chiedi “ma ce la farò mai?”. Poi diventano ogni giorno più facili da capire, e cicciottelli, e forti e sorridono guardandoti e ti sembra di aver trovato la risposta a tutto e capisci che ce la puoi fare, anche se è una fatica.

Ho imparato che, anche se come me sei sempre stata un drago che dà fuoco a tutto e che da sola è riuscita a cavarsela sempre, devi chiedere aiuto. Chiedilo prima di essere troppo stanca, troppo terrorizzata, troppo nervosa. Chiedilo senza sentirti debole. Farà bene a te e soprattutto ai piccoli.

Ho imparato che se è vero che il corpo di una donna non è mai solo suo, è tanto più vero quando la donna diventa madre: tutti si sentono in dovere di dirti come, quanto e cosa mangiare, come, dove e se allattare, come dormire, come vestirti, come parlare, quanti chili perdere, se e quando tornare a lavorare, come curarti e non lasciarti andare che sei comunque una donna, ma allo stesso tempo non pensare all’aspetto fisico perché ormai sei una mamma. Tutti, ma proprio tutti, sapranno perfettamente in cosa sbagli e su cosa hai ragione, mentre tu osserverai lo stravolgersi del tuo mondo e della tua autonomia (non sei più una, ma due) navigando a vista.
I consigli non richiesti sono la vera piaga per le neomamme e il solo modo per evitarli è smettere di frequentare persone. O selezionarle con molta cura. Oppure rispondere: “grazie per i suggerimenti, ma seguirò l’istinto e farò a modo mio”. E sorridere sempre, soprattutto di fronte ai pargoli.

Ho imparato che internet può essere utile quando hai dubbi e paure (meglio, però, se chiedi al pediatra o a un’ostetrica!), ma diventa una gabbia di matti per qualsiasi altro confronto. Sono stata alla larga da forum, gruppi, chat, mailing list di mammine e papini e sono una persona felice.

Ho imparato che il puerperio scatena i più grandi sensi di colpa, soprattutto se hai sempre lavorato e di colpo ti ritrovi a non fatturare, ma solo a cambiare pannolini e usare la tetta come Masterchef. Sei consapevole che questi mesi intimi e belli non torneranno più e che stare con tuo figlio e usare i tuoi risparmi per accudirlo, finché almeno non riesce a stare seduto, è la cosa più giusta per te e per lui, ma ti senti anche sbagliata perché una mamma che non lavora per dedicarsi a un neonato viene spesso considerata una perditempo. E magari, in passato, l’hai pensato anche tu di amiche e colleghe.

Ho imparato che in Italia i figli sono una faccenda privata e che se non ci sono servizi, assistenza, aiuti per tutte le famiglie, fatti tuoi che li hai voluti ‘sti mocciosi. Sono tuoi, ci dovevi pensare prima. Non c’è una cultura evoluta dell’infanzia, della maternità e della paternità e figliare è spesso considerato un vezzo, come prendere un cane. Lo stesso Paese che non vuole dare la cittadinanza ai figli di immigrati, che inneggia all’italianità, che resta immobile in un immaginario anni ’50, mamme sante a casa e papà padroni a faticare, lo stesso paese (ché nemmeno merita la maiuscola) ti dice che mettere al mondo nuovi cittadini è un tuo problema. Un problema privato.

Ho imparato che la vita è piena di nuovi inizi e vale la pena affrontarli tutti di petto e con coraggio, e che noi donne abbiamo davvero risorse inesplorate e una forza che non sapevamo di possedere, e che, sia che tu voglia essere madre o meno, non devi mai lasciare a nessuno il diritto di decidere per te.

Ho imparato davvero tanto in centottantuno giorni, ma la cosa più bella e tenera che mi ha insegnato Alessandro è la gioia incontenibile e profonda di vivere ogni momento come un divertentissimo gioco.
E alla mia età, ve lo garantisco, è un insegnamento davvero importante.

*Ieri questo blog ha compiuto 14 anni. A volte mi dispiace averlo abbandonato, perché racchiude più di un terzo della mia vita. Forse, per tenerlo vivo, avrei dovuto trasformarlo in un lavoro, ma ho iniziato troppo presto e, quando -anni dopo- bloggare è diventata una professione, mi sono accorta di non esserne capace.
Auguri, Malafemmena, ti voglio bene!

Il nuovo indissolubile plurale

Famiglia

Sono cresciuta in una famiglia allargata di zie, zii, cugini, vicini, compagni, amici inseparabili e nonni anziani.
Mio padre è andato via di casa quando ero così piccola che non potevo nemmeno ricordarlo, inadatto o solo disinteressato a essere genitore, eppure mia madre ha riempito ogni spazio vuoto lasciato da lui, ogni assenza. Perché sono convinta che non siano fondamentali, seppur importanti, i ruoli, che non sia necessaria in assoluto la coppia, quanto l’attenzione, la presenza, la pazienza infinita, l’amore amore amore amore amore incondizionato.
Quando abbiamo deciso di avere un figlio, io e lui che non abitavamo nemmeno insieme, che passavamo le giornate concentrati sulle nostre pagine, le mie parole e i suoi disegni, che eravamo abituati a pensare al singolare, a cercare continuamente noi stessi, ad affrontare il mondo con due sole mani, perché abbiamo sempre faticato a chiedere aiuto, ad amarci con passione e paura, con il terrore continuo di perderci e di soffrire ancora come in passato, quando abbiamo deciso di avere un figlio ci siamo chiesti spesso, spessissimo, come avremmo fatto a essere una famiglia.

Quello che abbiamo imparato, umilmente e faticosamente, è che l’amore non basta. Un neonato ha bisogno di tempo (tantissimo), di attenzioni particolari, di spazio, di abitudini, continue abitudini, di ascolto, pazienza, abnegazione, serenità, sorrisi, carezze, forza fisica, resistenza. Ha bisogno di voci allegre, di stimoli, di esempio e di presenza.
Abbiamo dovuto trasformare i nostri due singolari in un nuovo indissolubile plurale.
Prima eravamo 1+1 e adesso siamo 3.
Abbiamo capito che una famiglia non è un incastro di più vite, ma una vita comune completamente nuova, in cui tutti restano individui, sia chiaro, in cui io sono Dania e lui è Maurizio e il piccolo è Alessandro, ma nella quale la gestione del tempo diviene comune, le ore non si sovrappongono più, ma si mescolano, in cui, per un periodo forse più lungo di quello che avremmo immaginato, noi verrà prima di io.

Non è sempre facile.
È facile amare Alessandro, quello sì, commuoversi per i suoi piccoli traguardi, desiderare il suo benessere, giocare con lui, baciarlo, nutrirlo, coccolarlo. È facile volere bene, ma è faticoso cambiare abitudini, soprattutto per due adulti come noi, che hanno lasciato i vent’anni da un pezzo e con loro la capacità di ambientazione.
Non date ascolto a chi dice che viene tutto naturale, a chi vuole farvi credere di non aver fatto fatica, a chi vi giudica perché avete timori o paure, a chi confonde la vostra stanchezza con il poco affetto, a chi vuole farvi sentire incapaci perché affrontate pieni di dubbi la trasformazione in genitori. L’unico modo per essere una buona famiglia è rassegnarsi all’idea che ogni suo componente è un essere umano, il cucciolo che state crescendo e voi due che state imparando, perché solo ammettendo di non essere infallibili sparirà la sensazione errata di non essere bravi papà e brave mamme.

Ogni giorno ci chiediamo se saremo mai all’altezza, se nostro figlio si sentirà amato come avremmo voluto essere amati noi. E ogni giorno non possiamo fare altro che arrivare fino al nostro limite e poi aggiungere un altro piccolo passo in più.

*La bellissima foto è di Nicola Mazzon.

Come nasce una mamma

Fino a un paio di anni fa, non avevo mai immaginato che un giorno avrei avuto un figlio.
Non era nei miei progetti, un po’ perché ho sempre avuto l’indole da Erode, perennemente a disagio con gli esseri umani in miniatura, e molto perché ho cercato a lungo e a fatica la mia identità, me stessa, in innumerevoli viaggi, lavori, amori, e pagine scritte e lette.
Un paio di anni fa sono stata felice per la prima volta, la prima in tutta la mia (abbastanza) lunga esistenza; felice davvero, senza frustrazioni professionali, senza paura del tempo che passa, senza patimenti sentimentali, senza fisime sul mio aspetto fisico, senza il terrore di non riuscire ad arrivare a fine mese. E allora è arrivato, il desiderio, il bisogno di creare, finalmente, una storia in carne e ossa, un libro di cellule e DNA, una vita nuova.
La mia è stata una gravidanza serena e facile, nonostante l’età, perché essere una “mamma over” ha i suoi lati negativi, nei numerosi esami, nell’apprensione, negli stupidi volantini del Fertility day che ti ricordano che le ovaie hanno una scadenza, nei tempi di recupero più lenti e nel lavoro, che con l’età diventa più pieno di responsabilità e più facile da perdere.
Durante i mesi di attesa, non ho mai immaginato l’aspetto di mio figlio, non ci sono mai riuscita, ma mi sono sorpresa ad amare il mio corpo che cresceva, che si moltiplicava, che incubava.

Ero una donna incinta, ma sempre io, concentratissima sulla mia professione, sulla pianificazione dei mesi futuri, sui miei impegni, gli affetti, i gatti, la palestra, il parrucchiere, i miei libri e le serie tv, il tempo, scandito con una placidità ormonale da manuale.

Ho iniziato il travaglio all’alba e partorito Alessando alle 15:08, dopo un’espulsione lunga e dolorosa, perché il piccolo aveva una mano sul viso, in una di quelle pose buffe che ripete spesso e che lo fanno già sembrare un piccolissimo, minuscolo adulto.
Quando me l’hanno appoggiato sulla pancia, dopo l’ultima spinta e le grida che hanno sentito tutti, anche in reparto due piani più su, quando, dicevo, me l’hanno messo sulla pancia, sporco, fragile, violaceo, avvolto in un telo verde e anonimo, lui ha aperto appena gli occhi e il tempo si è fermato.
Non per metafora.
Il mio tempo, la sua percezione, lo scorrere, il tictac si sono bloccati di colpo. Le ore duravano minuti, i minuti duravano ore, c’era il giorno e la notte e poi la notte e poi il giorno e tutto era nella nostra bolla, io e lui, il mio terrore e il suo stupore, i miei sorrisi e i suoi sguardi, le sue gambine magrissime e i miei capelli sporchi, l’emozione e l’ansia, la tenerezza infinita e il mal di schiena, i capezzoli dolorosi e i pianti disperati, l’odore – mioddio! – l’odore di bimbo, la sensazione di essere vuota, a metà, di aver recuperato il mio corpo, ma di aver perso potenza.
Sono stata dimessa in anticipo e sono rientrata a casa mia due sere dopo.
Appena ho messo piede nella mia camera da letto, sola, mentre il pupo riposava nella navicella del passeggino in salotto, mi sono seduta sul letto e ho pianto. Ho singhiozzato moltissimo. Perché mi è stato chiaro, con una spiazzante lucidità, che la vita che avevo vissuto fino ad allora, fino alla corsa in ospedale, si era conclusa.
Non ho pianto per tristezza o disperazione, ma per quella dolce e malinconica nostalgia che si prova quando finisce un viaggio bellissimo e lungo, in cui ti sei divertito e sei cresciuto, ma che sai che non poteva e non doveva durare ancora.

C’è un momento in cui nascono i figli e uno in cui nascono le mamme. Il mio è stato lì, quando ho messo piede nel mondo prima di lui e mi sono accorta che i confini erano cambiati, che gli oggetti avevano un nuovo significato, che i miei sensi erano tesi verso un essere umano che non sono io, che il mio tempo non mi apparteneva più, ma era diventato nostro, come nostro era stato il mio corpo per quei lunghi mesi passati.

Ti raccontano che esiste un istinto materno, che l’amore per un figlio è a prima vista. Quello che io ho capito è che l’istinto non ha a che fare con l’amore, ma con il senso di protezione. L’amore, il sentimento, arriva dopo, si insinua subdolo in ogni poro e prende il posto della paura e del senso di inadeguatezza.
I figli appena nati spaventano, perché non li capisci, perché resti sveglia anche due giorni e due notti per controllare che respiri mentre riposa, perché non sai se piange perché ha fame, freddo, caldo, noia, terrore, perché alcuni gesti non ti vengono istintivi, perché sei impacciata mentre lo cambi o lo lavi le prime volte, perché quando rimetti piede fuori casa col passeggino hai ancora male in ogni centimetro di muscoli e ossa e senti che non ce la farai mai a difenderlo da tutto, dal clima, dalla città, dall’umanità.
E invece poi ce la fai.
Lo difendi e lui cresce. Lui cresce e tu lo capisci e iniziate a dialogare a piacervi a riconoscervi.
Una mamma nasce quando si accorge che il tempo si è fermato, immobile, e poi è ricominciato ed è un tempo nuovo, che scorre per due cuori che un tempo battevano nello stesso torace.

Alcune mamme nascono prima di avere figli, altre in ospedale, quando viene reciso il cordone, altre ancora più in là, solo quando i piccoli cominciano a parlare o a camminare, e altre non lo diventeranno, ma vivono vite degne e felici.

Poi ci sono le mamme come me, che non l’avevano immaginato mai, che nascono piangendo abbracciate a un cuscino quando realizzano che le fini sono sempre inizi e che ogni volta che termina un viaggio si ha un bagaglio più grande e pieno per l’avventura successiva.