Archivi tag: social network

La mia storia con internet

Mi hanno chiesto di raccontare “la mia storia con internet” in un’intervista video e mi sono resa conto che, per moltissimi anni, è girata tutta intorno a questo blog.

Da quando nel 2003 ho aperto Malafemmena, prima su Splinder e poi su questo dominio, la mia vita è cambiata del tutto. Non è stato rapido, non è stato indolore, ma è stato un percorso emozionante, pieno di persone, di posti visitati, di parole scritte e di parole lette.

La mia storia con internet è una storia di passione e lacrime, come tutte le più grandi storie d’amore, con alti e bassi, fatica, fallimenti e soddisfazioni.

Non è più il mio tempo. Me ne rendo conto sempre più, perché questi sono gli anni degli influencer, degli youtuber, delle star vere con un seguito enorme, che nascono e restano online e non si limitano a trovare, come facevamo noi, una professione, ma diventano loro stessi un lavoro.
Eppure, nonostante sia una cariatide che ha assistito (e contribuito in minuscola parte) alla nascita del web in Italia, sento di avere ancora cose da fare. In piccolo, con il solito entusiasmo di sempre, con i miei tempi dilatati e il mio ristretto pubblico amatissimo.

Abbiamo un futuro pieno di possibilità e io voglio essere ottimista. La rete imparerà ad autoregolarsi e smetterà di essere lo sfogatoio di ogni frustrazione.
Resteremo chiusi nelle nostre bolle, ma riusciremo a renderle più variegate.
Smetteremo di cercare consenso a tutti i costi e torneremo a cercare relazioni.
Daremo un valore diverso al tempo passato a navigare, senza FOMO o dipendenze.
Inventeremo nuovi mestieri che ci daranno il pane.
E soprattutto smetteremo di aggiungere la gente ai gruppi di Facebook, senza chiedere il permesso, perché davvero non se ne può più.

P.S. Lo so, nel video sembro stanca e trascurata. È che in realtà lo sono davvero. Ma sono felice, non vi preoccupate.
P.P.S. potete raccontare anche voi la vostra storia, usando l’hashtag #lamiastoriaconinternet

Le piccole cose piacevoli

Diventa sempre più difficile godere delle piccole cose, un caffè con un amico, l’ultimo capitolo di un libro amato, il ritornello della canzone preferita cantata ad alta voce, un complimento sul lavoro, un chilo perso o preso, il rossetto nuovo dal colore allegro, l’abbraccio di un genitore anziano, i progetti fatti ad alta voce con la persona che ami, un morso al panino più buono dell’anno. Difficile goderle e basta, senza doverle immortalare, raccontare in diretta, condividere. Guardare tuo figlio che sorride e non twittarlo, ricevere un fiore che vuol dire ti amo senza instagrammarlo, avere un’opinione e non postarla, provare un dolore e non farlo sapere a tutti gli estranei con cui sei in contatto.

È bello far sapere che si è felici solo se non si ricerca la felicità nell’approvazione, solo se la gioia resta a prescindere dall’esistenza di un pubblico.

Amo tutto di internet, perché mi ha resa la persona che sono più di tanti altri strumenti usati nella vita e tante altre avventure vissute, eppure sto facendo qualche passo indietro per recuperare il piacere effimero e personale delle piccole cose.

Cerco di liberarmi dall’ansia della cronaca continua della vita. Non è facile. Perché in maniera stupida vivo anch’io la sensazione di perdere delle occasioni, occasioni di popolarità che mi cambieranno la vita. Pur sapendo che non modificheranno davvero nulla. Perché alla fine, la vita è proprio l’insieme delle piccole cose che succedono quando non c’è nessun pubblico a guardarti. E spesso sono cose davvero belle.

Il peso delle parole non dette

In questi mesi avrei voluto scrivere tante cose, essere l’ennesima voce che commenta e racconta, dire la mia su quello che accadeva (fuori e dentro), ironizzare sulla condizione in cui mi trovo, prendere parte, sentenziare, argomentare. Eppure, di fronte alla pagina bianca, mi sono sempre detta che non era ancora il momento giusto. Ho scritto troppo, negli ultimi anni, di cose personali o meno, per lavoro, per scelta, per soldi, per disperazione, non sempre per necessità, ma molto spesso per obbligo.

Mi sono sentita, negli ultimi mesi, come se dovessi reintegrare i liquidi dopo un’enorme sudata di parole. Avevo bisogno di ricaricarmi, nonostante il riposo mi facesse sentire in colpa (chi di voi corre, lo capisce. Quando non puoi farlo per far riprendere i muscoli, vivi quella strana sensazione di stare facendo un torto a te stesso, anche se, invece, ti stai volendo bene).

Ho pensato moltissimo e letto e parlato e cantato tanto, però. Ho fatto progetti. Ho carezzato la pancia e i gatti. Mi sono guardata da fuori e sono riuscita a intuire i miei confini, gli spazi di manovra, le possibilità di crescita e quello che invece non potrà funzionare, perché è troppo tardi o perché non è mai stato il momento giusto.

Stamattina mi è tornata l’urgenza di tracciare righe, vuoi perché il libro nuovo dovrà essere a un buon punto quando diventerò mamma (e il mio tempo sarà monopolizzato da cacca, nanna, poppate, sorrisini e amore incommensurabile), o perché le dita sono finalmente pronte a percorrere nuovi chilometri.

Mi ha fatto bene non dire per un po’, rende tutto più necessario e ragionato. Ho capito che devo farlo più spesso, un passo indietro dalla valanga di opinioni.

Auguro anche a tutti voi di avere il vostro lungo periodo di silenzio in cui ritornare a essere in forma, mentalmente, spiritualmente.

Non abbiate sempre fretta di esprimervi, risucchiati in una interrotta, travolgente e angosciante conversazione: a volte sono le parole non dette a pesare di più.

E considerati i chili che ho preso negli ultimi sei mesi, non mi sembra nemmeno poi tanto una metafora.

L’invasione dei cafoni da tastiera

Anni prima che l’impareggiabile Jep Gambardella ne facesse una religione planetaria, avevo già messo in pratica l’insegnamento secondo il quale la vita è troppo breve per fare quello che non ci va di fare. Anzi, ho sempre attuato la versione sociale di questa scelta di vita, evitando, nei limiti del possibile, di frequentare persone con cui non avevo voglia di stare.
Gli esseri umani che mi mettono a disagio, mi infastidiscono, hanno agghiaccianti punti di vista razzisti o omofobi, abitudini imbarazzanti, scarsa igiene personale, che si esprimono in maniera eccessivamente volgare, che non hanno nessun interesse culturale, che vogliono esserti amico solo per interesse, che ti parlano alle spalle, che mentono, che approfittano delle tue debolezze per ferirti, che ti fregerebbero alla prima occasione possibile, questi esseri umani li tengo lontani come il virus dell’ebola. E quando sono costretta a frequentarli per motivi professionali o per le buffe e schifose coincidenze della vita, non fingo entusiasmo, non lascio intendere che “volemose bene”. Resto severa e riservata e aspetto che la tortura finisca.
Ammetto di essermi lasciata abbindolare per troppo tempo dai social network. Il mio spazio sociale e interazionale è diventato così vasto che non non riesco nemmeno più a definirne i confini e ogni giorno chiacchiero, mi confronto, scambio opinioni e leggo affermazioni di centinaia e centinaia di persone. Molte delle quali sono sgradevoli come la cacca dei cani attaccata alla suola a carroarmato degli anfibi.
Da qualche tempo ho iniziato a chiedermi cosa mi spingesse a tollerare online atteggiamenti che a wifi spento mi farebbero schiumare dalla rabbia: maleducazione, aggressività, trivialità, una conoscenza della lingua approssimativa, saccenza, perbenismo, chiagnifottismo, prepotenza.
Perché non rendo il mio mondo più pulito, anche dietro lo schermo?
Se è vero che all’inizio della webcarriera si tendeva a un certo democristianesimo pur di ottenere ampio consenso, ormai le olimpiadi della presunta e posticcia popolarità virtuale sono finite e chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto.
Uno e mille contatti in più non ti renderanno più popolare in un mondo in cui sono tutti ON(line). Ma uno o mille contatti in meno ti renderanno più sereno e una persona migliore in un contesto in cui molti hanno dimenticato le basi della convivenza civile.

Sono troppo vecchia per discutere con persone brutte ed è il motivo per cui ho iniziato a escludere dai miei profili tutti quelli a cui non rivolgerei nemmeno un cenno di saluto, se li incontrassi per strada.
La mia vita è migliorata moltissimo, in barba a qualsiasi algoritmo che mi ripropone contenuti che “sticazzi?”.

L’educazione e la cultura sono valori che mi sono stati insegnati da piccola e in cui ho sempre creduto. E voglio continuare a farlo, nonostante tutti i cafoni da tastiera, ai quali auguro una felice vita lontani milioni di byteluce da me.

10 motivi per cui le liste di 10 motivi hanno successo

Impazzano su quotidiani online, siti, blog e social network. Sono le liste della qualunque, che ci insegnano a fare qualsiasi cosa, ci spiegano il mondo, ci aiutano a essere persone migliori.
Tutto in otto o, massimo, dieci punti.
Come nasce questa fissazione collettiva per l’enumerazione? Davvero possiamo ridurre ogni cruccio o dilemma a un elenco puntato? Perché abbiamo iniziato a ragionare per schemi?

Proverò a spiegarvi io il successo delle liste.
In soli 10 punti.

1. Tutti sanno contare fino a dieci. Anche gli analfabeti, i bambini, Salvini.

2. Il giornalista/blogger/redattore ci mette meno di 10 minuti a scrivere una lista e può dedicare più attenzione al suo vero lavoro in pizzeria che gli permette di pagare l’affitto.

3. Si leggono velocemente. Così hai più tempo per leggere altre liste.

4. Puoi sempre interrompere la lettura e ricominciare dopo aver servito queste quattro margherite al tavolo 2.

5. Sono spesso accompagnate da belle gallery fotografiche. A volte ci sono anche maschi muscolosi nudi. Non in questa lista, purtroppo.

6. Sono spiritose.

7. Ci fanno sentire ggiovani perché cello, cello, mimanca.

8. Sono piene di consigli utili.

9. Per togliere il cattivo odore dal frigo, basterà riporre all’interno una ciotola con dei fondi di caffè.

10. Quando finisci di leggerle, hai sempre voglia di condividerle sulla tua bacheca, aggiungendo il commento “tutto vero, tranne la 6”.

 

Non c’è più spazio per il silenzio

Non c’è più spazio per il silenzio, quello volontario, quello praticato per scelta, per necessità. Non c’è più spazio per non dire, ma solo per straparlare, per urlare, per ripetere cose sentite altrove, trite e ritrite.
Bisogna usare tutte le parole, tante, confuse, anche sbagliate; bisogna acclamare, declamare, ribattere, argomentare e poi insultare e poi biasimare.
Non c’è più un momento in cui spegnere la musica, il televisore, chiudere la finestra, staccare il telefono. Nessun attimo per quattro mura in cui percepire solo il leggero sibilo del tuo respiro.
Non si ha più diritto al silenzio, mai, nemmeno quando si è soli. Perché il silenzio fa riflettere, fa soppesare. Il silenzio fa elaborare e capire. E capire può farci male, può destabilizzare noi e gli altri, può metterci in pericolo. Perché capire può darci un potere che non siamo in grado di usare, perché può renderci qualcosa che non siamo pronti a essere: persone libere.

2922

Il 7 agosto del 2003 mi sono messa a chiacchierare con il mondo.
Non mi sono più fermata.
Sono passati 2922 giorni.

Per tanti anni ho scritto poco e spesso. A volte molto poco e molto spesso. A volte un po’ di più e un po’ meno spesso.

Ho sempre trovato faticoso scrivere.

Prima del blog scrivevo solo lunghissime lettere di carta agli amici più cari e qualche articolo o tesina per l’università. Da ragazzina scrivevo poesie. Poi, per fortuna, ho smesso.

Ho sempre trovato faticoso scrivere, ma il blog era diverso. Scrivevi una battuta, commentavi la politica, postavi una foto.

Dopo qualche anno, sono arrivati twitter e facebook e friendfeed. Le battute, i commenti, le foto ho iniziato a postarle lì. Hanno iniziato a farlo quasi tutti. E il blog è diventato uno spazio che facevo fatica a riempire, ma che era impossibile abbandonare.

Poi quest’anno mi sono succede delle cose, è cambiato tutto, è cambiato il lavoro, la vita, le persone. È finito un amore e ha fatto molto male. Un altro amore non mi è stato corrisposto e – cazzo! – ha fatto male anche lui. Ho dovuto vivere tutta una vita per scoprire che le occasioni che non hai avuto ti massacrano come quelle che hai perduto.

Ho sempre trovato faticoso vivere.

E le parole hanno iniziato a percolarmi e mi scorrevano a fiumi e ne vomitavo valanghe e non sapevo dove metterle, dove conservarle, dove parcheggiarle.

E mi sono ricordata del blog, che era lì tenuto in vita senza troppo entusiasmo e che è diventato una palestra per commentare anche quello dentro, non solo quello fuori.

Scrivere sembra, a volte, meno faticoso.

Non credevo che dopo tanto tempo questo posto potesse diventare ancora più importante per me di quanto non lo sia stato in questi lunghi anni. È una protesi sociale e uno scudo. È me stessa, ma solo la parte migliore, quella che si può raccontare. È un quarto di vita in un archivio ordinato. È il mio posto preferito.

Grazie per averlo frequentato con me in questi quasi tremila giorni.

Pensa se

Pensa se, anni fa, ti avessero detto che un giorno non ti saresti liberata più dei tuoi fantasmi, che avresti incontrato il tuo passato in tutto il tuo futuro, che non avresti più avuto la possibilità di dimenticare una faccia, di rimarginare una ferita.

Pensa se ti avessero detto che un giorno saresti inciampata, tuo malgrado, nelle foto felici in cui non compari, nei racconti allegri di chi ti ha ferito senza ferirsi, nei resoconti dettagliati ed esibizionisti di amori che potevano essere tuoi.

Pensa se ti avessero detto che la vita di chi non vuoi più nella tua vita ti sarebbe apparsa davanti, che i gradi di separazione sarebbero spariti, che nessun posto sarebbe stato abbastanza lontano e abbastanza protetto, che, nonostante la distanza, avresti vissuto nello stesso spazio stretto e fluido di chi ti ha spezzato il cuore.

Pensa se ti avessero detto che un giorno saresti stata vittima dei social network.

Avresti sicuramente pensato «bella merda!».

Finché dura

Da anni, ogni tanto, qualcuno grida da qualche pagina di blog che i blog sono morti e, all’improvviso, tutti noi sperperatori di tempo e byte ci sentiamo in dovere di pregare per l’anima dei nostri diari virtuali.

I blog che parlano di blog non sono affascinanti come i libri che parlano di libri, come i film che parlano di film.

Questi diari sono solo posti in cui siamo arrivati perché volevamo dire qualcosa.

C’è chi ha detto tutto, chi ha preferito continuare a dire sui social network, chi si è accorto di non avere un cazzo da dire o di non avere più voglia di dirlo.

C’è chi rimane, perché non riesce a farne a meno, perché gli strumenti nuovi, i facebook, i twitter, i friendfeed, sono più conversazione e meno riflessione, perché ha voglia di scrivere senza essere fagocitato dalla serendipity, perché l’archivio dei suoi post gli ricorda dove è stato e dove sta andando.

Un paio di anni fa avevo pensato di uccidere il blog.

E poi non l’ho fatto.

Ho passato quasi otto anni della mia vita tra queste pagine e non saprei come si fa a tornare a vivere senza rielaborare i monologhi interiori in forma di post.

Dopo quasi otto anni il mio blog è cambiato, sono cambiata io, sono cambiati i tempi, le idee, le percezioni, le ambizioni, i ritmi, le persone, gli spazi, i lettori, il personaggio, le parole.

Dopo quasi otto anni il mio blog è diventato il posto delle cose non urlate, il posto dove mi sono accorta che c’è una crasi perfetta tra Dania e Daniela.

Un giorno non avrò più niente da dire e dirmi e spegnerò la luce anch’io e di tutto quello che è stato scritto non saprò cosa fare.

Quel giorno credo che mi sbronzerò.

ça arrive

Ci sono giorni in cui ti accorgi che quella che pensavi essere la più grande evoluzione della tua vita è, in realtà, una regressione ai primordi della tua vecchia sfiga.

In questi giorni è meglio tacere, non dare nell’occhio, nella speranza che tutto non peggiori ancora.

Oggi, quindi, mi spengo.

E con me spengo i social network e la puntata di A letto con Dania, prevista per stasera.

Il mio silenzio farà sicuramente bene anche a voi (soprattutto a voi).

À bientôt.