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Ce. La. Puoi. Fare.
Per la mia laurea, nel lontano 2002, avevo chiesto in regalo una Reflex. Una Canon EOS analogica, ché il futuribile era di là da venire, con un bell’obiettivo. Una discreta macchinetta, perché dopo anni di viaggi strampalati e di scatti rubacchiati con piccole compatte e metri e metri e metri di pellicola, avevo deciso che da grande avrei potuto fare la fotografa. Che ne sai? Tutti mi dicevano hai occhio, dovresti lavorarci su, poi te ne vai nei paesi arabi con la tua laurea che come ti è venuto in mente di prenderla e ci fai dei bei reportage.
La maneggiavo come se fosse di cristallo.
Un paio di settimane dopo me ne sono andata a Napoli. Ho fatto una sosta di pochi giorni a Roma. E mi sono fatta fregare la macchina. Subito. Un borseggio. Oh, succede. A Roma ti fottono anche se sei napoletano. Ma a me non avevano mai rubato nulla. Allora i sensi di colpa che hai quando ti succede qualcosa di brutto, potevo evitare? è stata colpa mia? potevo essere più scaltra? se avessi fatto? se avessi cambiato strada?
Ho letto questa cosa come un segno. Demotivante. Io sono la regina del pessimismo. Quando mi porgono un bicchiere, io non penso nemmeno se è mezzo vuoto o mezzo pieno, tanto sono sicura che contiene acqua non potabile. Mi farà male al pancino.
Mesi dopo, al mio compleanno, gli amici avevano fatto una colletta per ricomprarmi la reflex. Ma io avevo già abbandonato l’idea di fare la fotografa. Sono fatta così. Mi scoraggio. E lascio perdere.
Sono sempre stata brava, anche molto, molto brava, in tante cose, lo studio, il teatro, il coro, le lingue, la cucina, la matematica, il ragù, ma non credo di essere mai stata eccellente in niente. Se nasci con una voce incredibile, una bellezza incantevole, una presenza scenica sublime, un portentoso orecchio musicale, un quoziente intellettivo da genio, una mano da pittore, i piedi da atleta, lo capisci subito il tuo destino.
E anche se non sei il numero uno, prima o poi arriva il momento in cui scegli cosa fare. E ti impegni. E ci provi.
Non succede a tutti. Anzi, molte persone si lasciano vivere, ragionano per obiettivi minimi: lavoro, casa, famiglia, macchina, vacanza e vivono vite degnissime e soddisfatte, senza l’ansia di un progetto maggiore. Però quasi tutti coltivano sogni, che abbandonano per incapacità, pigrizia, maturità.
Io ho abbandonato molti sogni per paura, altri perché la realtà mi ha presa a schiaffi, altri perché mi stavano stretti e altri ancora me li sono proprio dimenticati.
Certe volte, in passato, mi sono circondata di persone entusiaste e brave. Forse erano i vent’anni. Forse mi avevano conosciuta con un’altra luce negli occhi, non lo so, ma quelle persone lì, alcune, mica tutte, anche se per brevi momenti, avevano creduto in me. E allora io mi ero sentita speciale. E quelle volte avevo pensato davvero che sarei diventata una grande attrice o una grande antropologa o una grande scrittrice o una grande donna.
Poi, certo, c’è stata la vita, i lutti, i debiti, la precarietà, le scelte sbagliate, i problemi in famiglia, le malattie, i traslochi, gli amori finiti. A un certo punto la ricerca di un sogno sembrava una perdita di tempo. Lavorare, guadagnare, sopravvivere. Ho cambiato così tante vite e case e città, che a un certo punto mi sono ritrovata così diversa che non mi riconoscevo nemmeno più.
E quando è diventato tutto un po’ più difficile, superati i 30, con contratti in scadenza, fatture non pagate e mutuaffitto, anche le persone intorno a me sono cambiate.
Così, negli ultimi anni, quando le cose andavano male, in moltissimi mi dicevano che dovevo accontentarmi. Accontentati, riduci le aspettative, lima i sogni. Mi spiegavano dove sbagliavo, così convinti di avercela fatta loro, solo perché, magari, erano riusciti a coprire la loro mediocrità con un accumulo di flebile ricchezza. Quando cresci, i sogni perdono valore se non ti rendono danaroso.
Allora l’Italia andava male, però per le persone negative intorno a me ero io, io, con la mia incapace indolenza, con la mia pigrizia, con la mia chissàcosa, chiticredevidiessere, a non funzionare. Quindi taglia, riduci, togli.
L’insicurezza è un virus letale. Se non lo curi subito, con una bella dose di faccia tosta, diventa cronico. E l’insicurezza ti fa circondare di brutte persone. Che sono tipo vampiri, che ti succhiano energie e forza, ma meno fichi dei vampiri, hanno la pancetta, la cellulite o la forfora. In sintesi, mi sono circondata di stronzi.
Mi hanno fatta sentire di nuovo borseggiata. Hai solo puntato troppo in alto. Solo quello.
E così ho rallentato. Rallentato. Rallentato. Poi mi sono fermata. Scrivere, viaggiare, stringere mani, fare colloqui, inviare progetti, fare brainstorming. Tutto fermo. Solo piccole cose, senza alzare gli occhi, come dicevano loro, riduci, ridimensiona, ti insegniamo noi come si fa. Un’ombra.
Epperò mi ha salvato l’imprevisto. Quello lì, l’uomo che non aspettavi ed entra nella tua vita e ti dice che tu sei di un altro pianeta e chi ti ha detto che non puoi volare ti ha mentito. Quell’uomo che ti insegna la filosofia di Stallone e ti dice ogni volta che cadi devi rialzarti, alzati, combatti anche per 14-15 round, perché non importa se stai prendendo a pugni un campione, tu ce la puoi fare. Anche se perdi, ce la fai. Lui, che quando tu gli dici non sono capace, non l’ho mai fatto, non ci riesco, lui non ti abbraccia e compatisce, ma ti dice fallo e basta, muoviti, sei invincibile.
Funziona. Non da un giorno all’altro. Ma funziona.
Ricostruire l’autostima, allontanare la negatività, riprendere i sogni che non è troppo tardi, ritrovare l’energia.
La procrastinazione, mi fotte, su quello devo lavorare, ma funziona.
A volte i sogni si realizzano solo se c’è qualcuno che ha davvero fiducia in te. Un po’ come Babbo Natale, che se ci credi, esiste. Un po’ come il Punto G.
Sia chiaro, non ho realizzato ancora nulla, però ho capito una cosa importante. Bisogna puntare in alto. Anche bluffando. In alto.
Ce. La. Puoi. Fare.
E vaffanculo le brutte persone!
Da grande
Da bambina, quando mi chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo sempre “la regina”.
Mi sembrava una professione onesta, un lavoro nobile, per il quale ero naturalmente portata.
Sarei stata una regina illuminata, avrei aiutato i poveri e le persone in difficoltà, avrei punito i cattivi, ma avrei anche cercato di farli ragionare per far capire loro che essere buoni sarebbe stato di sicuro più vantaggioso. Avrei dato tantissime feste, aperte a tutti, e buoni consigli. Avrei salvato tutti i cani randagi del mio regno e costruito parchi giochi per i bambini.
Volevo fare la regina perché pensavo che avrei evitato le guerre, che avrei parlato con gli altri re e governanti e avrei spiegato loro che era meglio lasciar perdere, chi vuole mettersi a combattere tutto il giorno, a sporcarsi i vestiti di sangue, a sparare, a recuperare brandelli di cadaveri, quando si poteva giocare insieme, mangiare la pizza, bere la fanta, piantare fiori, andare al mare?
Mi sembrava un’ambizione lecita, fare la regina, molto più intelligente di fare l’astronauta o la ballerina.
Poi, un giorno, mia madre sorrise, mentre spiegavo ai miei zii come sarebbe stato bello il mio regno, e mi disse che, salvo rarissimi casi, per diventare regina sarei dovuta nascere in una famiglia nobile. Regine si nasceva, quasi sempre, e la nostra famiglia non era affatto nobile (forse solo un po’, nell’inutile cognome) e certo avrei potuto fare tanti altri splendidi lavori da grande, ma la regina forse no, non era detto, ma probabilmente no.
Allora avevo iniziato a odiare la mia famiglia, la mia famiglia che non era nobile e che non mi permetteva di diventare regina e salvare il mondo dalle guerre con la fanta, la pizza e i giochi. Mi sembrava di aver sprecato una nascita, venendo al mondo così portata per regnare in una famiglia qualsiasi.
Pensavo che mi sarei dovuta inventare un altro futuro, dopo che avevo già detto a tutti i miei amichetti che sarei stata la loro regina. Mi pesava deluderli.
Poi, mentre il tempo e la vita passavano, iniziai a capire che questi che nascevano re erano persone peggiori di quanto mi fossi immaginata. Non era nemmeno colpa loro, era regnare che era sbagliato. Studiavo le monarchie sul sussidiario e capivo che io non volevo averci nulla a che fare con questa gente, brutta gente.
E un giorno, a casa, mentre facevo i compiti, chiesi a mia madre “mamma, noi siamo poveri o ricchi?” e lei mi rispose che eravamo gente normale, gente onesta che avrebbe lavorato tutta la vita per campare.
Allora capii, mi fu tutto chiaro: noi eravamo il popolo, gente che lavora e campa, quelli che stanno fuori dai cancelli dei castelli dei re, che vivono, mangiano, amano e muoiono senza corona. E mi piacque scoprire di essere il popolo, mi piacque scoprire di non essere destinata a diventare una brutta persona.
E fu allora che guardai mia madre e dissi, con la solennità di una bambina che aveva capito tutto, “mamma, ho deciso, io da grande voglio fare la rivoluzione!”.
Dieci cose
Dieci cose che vorrei fare prima di morire:
1. Prendere una seconda laurea.
2. Vivere in una casa fronte mare.
3. Imparare a suonare il pianoforte.
4. Fare un viaggio lungo un anno.
5. Creare il mio harem.
6. Vivere in una comune di artisti.
7. Scrivere un romanzo di formazione.
8. Recitare in un film di Almodóvar.
9. Essere felice un mese intero.
10. Non morire.