Il senso

Sono andata a vedere lo spettacolo di un vecchio caro amico che non incontravo da tanti anni.

Lui era quello di noi – sognatori, rivoluzionari pigri, chiacchieroni, brillanti e arrabbiati – che aveva davvero talento.

È diventato famoso, ha vinto tutti i premi possibili, gira il mondo, da Tokyo a New York, e fa quello che ha sempre desiderato fare.

Ci siamo parlati per pochi minuti prima che si alzasse il sipario e vedendolo così realizzato, così adulto, così diverso da quello che era eppure così tanto uguale, così coerente, così illuminato, così deciso, gli ho chiesto:

«Ma, quindi, sei felice?»

e lui mi ha risposto

«In che senso?».

Allora ho sorriso, l’ho salutato, gli ho detto “tanta merda” e sono andata a sedermi al mio posto.

Ma per fortuna o purtroppo lo sono

All’età di circa dieci anni, in una di quelle estati nelle quali i miei fratelli e io venivamo spediti in Olanda da mio padre, ho letto il libro Cuore. E ho pianto.

In una tournée teatrale a Utrecht, con i miei compagni di teatro, tutti appena maggiorenni, abbiamo improvvisato un concerto al ristorante cantando e suonando Paolo Conte, commuovendoci con Azzurro.

Nei miei anni parigini, il proprietario del ristorante in cui facevo la giovane camerierina mi chiedeva sempre “un vrai espresso italiano, s’il te plaît!”.

Al Cairo, ho passato una notte al Fishawi, con un giornalista svedese e un attivista egiziano, fumando shisha e parlando degli anni di piombo.

Una suora, ad Aleppo, mi ha chiesto se avevo mai incontrato di persona il Papa.

A San Pietroburgo, in una komunalka di amici, ho cucinato pasta per tutti in un bollitore per il tè.

Al matrimonio di mio fratello, in Bolivia, ci hanno chiesto di ballare la tarantella.

In un locale gay di Buenos Aires ho cantato una canzone di Laura Pausini perché volevano sentire le parole in italiano (sì, conosco a memoria La solitudine e non riesco a rimuoverla dalla testa).

Sono scappata molte volte e sono sempre ritornata.

Sono una cittadina del mondo e non so fare altro che essere italiana.

Mi vergogno quando disprezzo il mio paese e mi vergogno quando amo il mio paese. Questo è essere italiani.

Però la festa di oggi mi piace, mi piace pensare al risorgimento, mi piace sentirmi una carbonara, mi piace pensare che, nonostante i leghisti, i mafiosi, i qualunquisti, i fascisti, i berlusconiani e gli interisti, siamo un paese unito, di brava gente.

E poi, Gaber l’ha già detto molto meglio di me.

Sette

Di tutti i momenti belli, io ricordo quella sera che ci siamo sentiti in trappola, con i nostri contratti precari, i soldi che non bastano mai, le fughe alle spalle, la stanchezza dei cambiamenti, la fatica degli anni che passano, la routine delle giornate uguali, diverse dai nostri sogni di vite da artisti, di giovani bohémien, e ci siamo guardati e ci siamo sorrisi e abbiamo pensato usciamo, andiamo a mangiare fuori, andiamo a fare un viaggio breve e intenso, lontano dai noi stessi che non riconosciamo, lontano dal grigiore che non ci appartiene, che non può insinuarsi sotto la nostra pelle.

Abbiamo preso la macchina, abbiamo passato il primo dei nostri ristoranti preferiti e siamo andati oltre e poi oltre il secondo e il terzo e il quarto e tu hai preso l’autostrada e ci siamo infilati sulla strada di notte, tra i camion in corsa, e abbiamo viaggiato un po’ e poi ci siamo fermati in quell’autogrill, che non ricordo nemmeno più dov’era, nemmeno dopo quanto strada abbiamo capito fosse lui.

E abbiamo cenato a un tavolo vicino a una grossa vetrata, con quel cibo che non era buono né cattivo, quelle luci al neon, quei vecchietti che grattavano e non vincevano, il rumore delle tazzine del caffè e le macchine fuori, in movimento, con i fari che ci passavano veloci di fianco per poi sparire lungo la via nera.

Siamo stati in viaggio e felici, fermi in quel posto che non ci apparteneva, ma era nostro, era la strada, era il cammino verso il futuro, sempre avanti, sempre avanti.

Abbiamo finito la birra, tu mi hai accarezzato la mano, ci siamo guardati in silenzio, ci siamo sentiti liberi e sereni, abbiamo sorriso di nuovo e, baciandoci, ci siamo detti «è ora di tornare a casa».

Succedono cose

Succedono cose nel mondo, le città in fiamme, le generazioni che si alzano e si ribellano, il mare che mangia tutto, la terra che trema e il mio ombelico che mi fa guardare fuori per poi ritornare sempre dentro, nei sensi di colpa, nei pensieri ossessivi, nell’amore non amore, nei progetti arenati, nei colpi di fortuna, nel conto corrente in rosso.

Succedono cose nel mondo e io sono qui, che penso alla rivoluzione dentro di me, che penso alle persone perse e a quelle trovate, a quelle che mi hanno ferita e mi mancano, a quelle che mi sono sempre state vicine e do per scontate.

Succedono cose alle persone che amo e io vorrei aiutare, sentirmi meno impotente, sentirmi più presente, ma galleggio distratta in un limbo di vita in potenza e non ancora in atto, in una nuova me che sta nascendo, ma che non ha ancora smaltito il bozzolo che protegge la metamorfosi.

Succedono cose e io mi sento piccola, piccola come solo una persona umana sa essere, e osservo e poi ci penso, poi mi distraggo, poi ci ripenso, poi ne parlo, poi taccio, poi respiro e poi vado avanti.

150 anni e non sentirli

Domenica 13 marzo, dalle 11 alle 13, sarò all’Unità a parlare di Unità (eh) d’Italia vista dal web, insieme un tavolata di prestigiosi blogger, fortunatamente più autorevoli di me.

Rappresenterò quella parte della rete che vuole costruire un paese migliore con il disimpegno perché, va bene, the revolution will not be televised, però anche il web ci rende pigri nell’essere italiani, che basta stare sul pezzo per essere presenti, che ritwitto tutto, ma non vado alla manifestazione perché ho le partite su mediaset premium, ma seguo la diretta streaming, che guardo Saviano e Fazio allora sto partecipando al nuovo risorgimento, che sono a favore della festa il 17 marzo, ché l’Unità d’Italia è sacra, però un euro agli alluvionati del Veneto no, perché a loro fa comodo fare i leghisti federalisti quando serve, che apro gruppi su Facebook per salvare la costituzione, ma non la conosco, ma se un giorno dovesse servirmi la gùgolo, che il mio paese lo difendo fino alla fine e scrivo e leggo e scrivo e leggo e scrivo, però non voto, perché è tutto un magnamagna.

Potrete seguire la diretta in streaming sul sito dell’Unità e su twitter e su facebook e mandarci le vostre considerazioni o domande a unisciti@unita.it.

Per grazia di Dio e volontà della nazione.

Chez moi

Ci sono città in cui nasci, città in cui finisci senza averle scelte e quelle che scegli ma che non ti calzano mai bene, che sarebbe stato meglio non, che devo ripartire, che non dovrei essere qui, che è ora di fuggire via, lontano.

Ci sono città che ti scelgono, che ti rapiscono, che ti trattengono e non riesci a lasciare, città che porti dentro sempre, città che ti stanno alla perfezione come quel vecchio cappotto caldo, città che ritrovi ovunque, negli angoli più nascosti del mondo, città che hai sempre nella testa, nella borsa, tra le righe dei libri, tra le pieghe polverose dei ricordi.

E poi scendi dall’aereo, prendi il bus, arrivi in centro e inizi a camminare con il tuo passo sicuro, il passo di chi sa dove andare, di chi conosce l’inizio e la fine della strada, riconosce muri e semafori, colori e odori.

Sei esattamente dove dovresti essere, riprendi il tuo monologo interiore interrotto anni fa, ti confondi tra la folla che ti somiglia, non sei straniero, sei parte del tutto, sei un tassello del mosaico, sei un cittadino tra i concittadini.

Continui a camminare, senza chiedere informazioni, raggiungendo le tue mete, senza perderti, senza sorprenderti se non della bellezza dalla quale sei stato così tanto lontano.

Continui a camminare tranquillo, con le membra rilassate, con i pensieri liberi di allontanarsi e poi tornare, con lo sguardo distratto, il sorriso abbozzato, le mani in tasca e quella serenità così facile che hai solo quando sei, finalmente, a casa.

Perfezionista

All’università ho preso tutti 30 e lode, tranne a due esami, nei quali ho preso un 28 e un 29.

Volevo rifiutarli, ma non avendo mai ripetuto un esame, nei pochi momenti tra la declamazione del voto e la firma sul libretto, ho dovuto decidere, a fatica, se il mio orgoglio avrebbe retto meglio la non perfezione o la replica.

Il resto della mia vita è stato sempre così, un compromesso tra orgoglio e limiti, tra perfezionismo e umanità. Non sempre mi è stata concessa una seconda occasione. Non sempre ho accettato di poter sbagliare.

Ho imparato, però, a sopravvivere meglio sia ai successi che ai fallimenti.

Ho imparato a sopravvivere meglio perché il tempo mi ha insegnato una grandissima lezione: non importa se a volte non riesci a essere perfetta. L’importante è trovare, sempre, qualcuno a cui dare la colpa.