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Io per te sono diventata invincibile

Quello che non ti spiegano mai dei sentimenti è che, nel momento in cui metti il tuo cuore su ON, non sarai solo felice per i momenti passati insieme alla persona amata, per le risate, i viaggi, i sapori, gli odori, le canzoni condivise, l’allegria, i tum tum al centro del petto, le gambe molli. Non sarai solo entusiasta degli alti, ma anche angosciato per i bassi. E, bada bene, non i bassi tuoi, o vostri, i momenti altalenanti della relazione, i bui, i malintesi. No, anche quelli, ma non solo. Non solo il nero di entrambi, ma soprattutto il suo.

Quando ami, soffri per i suoi fallimenti, per i suoi disagi, per le sue difficoltà. Ogni volta che l’altro fa fatica a comprendere il mondo, si trova di fronte un muro troppo alto, viene umiliato, subisce un’ingiustizia, ha sfortuna, ogni volta che l’universo si accanisce contro di lui, tu ti sentirai a pezzi. Una chiavica, un essere inutile.

Quando ami, puoi tollerare la tua infelicità, ma non quella delle persone a cui vuoi bene, fratelli, amanti, mariti, fidanzate, madri, compagni, amici, figli.

E ti verrebbe quasi voglia di chiudere tutte le persone importanti in un unica stanza e buttare via i loro iPhone e cancellare le persone brutte e i ricordi brutti e le sensazioni brutte e sgradevoli.

Quando ami devi essere forte. Più forte.

Non avere mai più paura.

Io per te sono diventata invincibile.

Così sono diventata migliore

Mi piace pensare che tutte le persone possano cambiare.
A me è successo, dopo eventi traumatici, abbandoni, lunghi viaggi; dopo amori che mi hanno rimescolato le budella, mettendo in forse tutto il prima e ipotecando il dopo.

Sono cambiata molto. A fatica, perché trasformarsi è sempre una piccola sconfitta, è accettare di avere dei difetti di fabbricazione, di avere qualcosa di sbagliato, di funzionare male. Quando si cambia in meglio. Perché a cambiare in peggio si fa molto più in fretta, e io lo so perché ho visto tutte le puntate di Breaking Bad.

Ho sempre giustificato le mie mancanze, verso gli altri e verso me stessa, come bisogni. Faccio così perché ho bisogno di, non riesco a darti quello che vuoi perché ho bisogno di, non riesco a esserti fedele perché ho bisogno di, non posso essere più presente perché ho bisogno di. Il mio bisogno di era l’alibi peggiore.
Mi è capitato di ferire le persone per immaturità, egoismo, distrazione, rabbia, invidia, pigrizia e troppe poche volte sono riuscita a chiedere perdono. Ancora meno a ottenerlo.
Così sono diventata migliore. A costo di darmi di meno, di fare un passo indietro, di metterci meno me stessa. Ho imparato che è meglio non fare, se fare può far soffrire le persone che amo. Ho imparato che è meglio fare un passo verso gli altri che aspettare che ti inseguano.
Ho imparato a trasformarmi, con un lungo allenamento, come quello che ho fatto per mantenere i glutei alti e la pancia piatta.

Sono stata ferita spesso, nella vita. Poche volte mi hanno chiesto scusa. Perché quando sei dura e severa e introversa e solitaria, gli altri credono che non ti spezzerai. Non lo fai. Ti crepi dentro, ti si aprono voragini enormi che fai fatica a riempire di cose belle.
Cambiando, imparo a schivare i colpi. Sono troppo vecchia per attaccare, devo solo provare a non farmi troppo male.
Quando qualcuno mi sgretola dentro, mi allontano. Quando chi mi ama non fa nulla per proteggermi, scappo via.

Mi piace pensare che tutte le persone possano cambiare. Mi piace pensare che possano diventare migliori. Mi piace immaginare che non siamo destinati all’infelicità.  E se ci sono riuscita io, puoi farlo anche tu.

La resa dei conti

Agosto è sempre la resa dei conti.

La pausa in cui tutto rallenta, i ritmi, la musica che ascolti, l’ansia per i debiti, il rumore della città che vive sotto la tua finestra.
Sono stata al mare, perché un’estate senza mare io non la ricordo da mai, e ho passato del tempo con le persone che amo da una vita, amiche, cugini, zii, sorella.
C’è un’età in cui ami passare il tempo in famiglia, seguita dagli anni in cui detesti anche solo l’idea di un pranzo insieme a mammà, e poi torna un momento in cui ti fa piacere stare con la gente della tua razza. Questo momento lo chiamano età adulta.

Come ogni estate ho capito delle cose. Soprattutto su di me, che sono diventata un libro aperto a fatica, con le pagine incollate e staccate col tagliacarte, una a una, per non sciuparle.

Ho capito che i traguardi sono punti di partenza, che non bisogna mai pensare di essere arrivati, perché la strada è lunghissima e, se ti fermi un momento e i muscoli si rilassano, poi farai fatica a riprendere il cammino.

Perché l’importante nella vita è avere sempre margini di miglioramento.

Ho capito che a invidiare gli altri si perde il gusto di quello che si ha, si spreca un sacco di tempo in cui potersi godere le cose belle e facili e nostre. E anche se l’invidia è un sentimento naturale, quando arriva dovresti respirare a fondo e contare uno due tre… dieci e sforzarti di sorridere e pensare che tutti hanno alti e bassi e che un giorno sarai così felice che nemmeno noterai cosa succede intorno a te.

Ho capito che chi non riesce a dirti “ti amo” non ti ama. E basta. Non esiste un morbo che smorza le parole in bocca, che toglie il respiro, che taglia la lingua. Puoi fraintendere gesti, attenzioni, sorrisi, emozioni, ma quando una persona non ti ama, prima o poi, te ne accorgi. E allora devi alzarti e girarti e camminare lontano lontano.

Ho capito che la fretta è positiva solo se hai un progetto.

Ho capito che, se non riesci a comprendere le storie d’amore che vivi, figurati se potrai mai concepire e giudicare le storie degli altri!

Ho capito che la bellezza, la magrezza e la ricchezza sono sì importanti, ma vuoi mettere il valore di un giro in moto nei campi di girasole? O un gelato con tanta panna che cola da ogni lato? O i piedi che entrano nell’acqua di mare fredda? O i baci con le mani che ti carezzano il viso, che chiudi gli occhi e ti dimentichi dove sei?

Mentre passeggiavo nella città deserta, dalla finestra di un palazzo chiaro è arrivata la musica di un pianoforte. Non c’erano macchine per la strada e quelle note sembravano la colonna sonora del film della mia fine estate. Allora mi sono fermata ad ascoltarle e sono durate troppo poco. E quando le dita hanno smesso di pigiare i tasti, ho infilato di nuovo le cuffie, ho legato i capelli in una coda e ho continuato a cercare un bar aperto.

 

Misantropa sporadica

Mi piace praticare una sporadica misantropia.
Alcuni giorni voglio stare da sola, ascoltare musica, camminare e camminare, leggere e non rivolgere la parola a nessuno.
Il silenzio è un’arma potente. Quando impari a conviverci, capisci molte cose, ti capisci e il suono della tua voce, dopo un po’, ti sembra più intenso, più tuo.

È difficile dire alle persone che non hai voglia di vederle, quindi fingo impegni improvvisi, lavori che non devo svolgere, viaggi che non faccio, visite mediche che non ho prenotato. A volte non rispondo agli inviti e basta, tanto puoi sempre dare la colpa al telefono, all’operatore telefonico, all’email non scaricata, alla distrazione, al tempo che passa e non te ne eri nemmeno accorta.

Ci sono pochissime persone che vorrei accanto a me sempre sempre, che non riesco a tenere distanti, che quando ci sono mi sembra di avere un terzo polmone, un occhio in più, due cuori, quattro gambe. Trovo insopportabile che mi stiano lontane e non riesco ad accettare che vivano e sopravvivano anche senza di me.

Vivo così l’amore, come l’espansione del mio corpo, come la moltiplicazione dei sensi, come la condivisione dell’ultimo ossigeno rimasto sulla terra, che se non lo respiriamo insieme, uno dei due finisce molto male.

Non capisco quell’amore piccolo, che non ha fretta né bisogno di essere vissuto, che viene centellinato, che può attendere, che un giorno tornerà da me, ma adesso no, che non in questo periodo, devo pensare solo a me stesso, al lavorocarrieramicisoldideeprogetti.

Quando le persone che sono tutto tutto non ci sono, per scelta, per errore, per malinteso, io preferisco stare da sola, per un po’, non per sempre, per analizzare tutte le tracce che hanno lasciato, per fare pulizia, per capire cosa avevo io in meno o cosa ho dato di più.

Allora pratico la mia sporadica misantropia e mi dico che anche da sola sono niente male, che guarda dove sono arrivata, di nuovo tutta intera, nonostante i pezzi che mi hanno strappato e che si sono portati via e che, secondo me, dopo un po’ muoiono e rimane solo un ricordo.

E che peccato! Perché ho capito che io sono veramente una che dovresti tenere sempre sul comodino, che non puoi farcela a stare senza di me. Ci ho messo tutta la vita per capirlo. E oggi non è un giorno di quelli, quindi indosso il mio vestito bianco e metto il rimmel ed esco di casa e ti vengo a cercare.

 

Da oggi metto la testa a posto

A cena, un paio di sere fa, circondate dai gatti, dall’afa e dal magico profumo estivo dello zampirone, Elena e io discutevamo con degli amici del perché dei nostri continui fallimenti amorosi.

Elena è generosa, comprensiva, presente, allegra, espansiva e materna. Non gliene va bene una. Le dicono che è perché è troppo disponibile e, finché non inizierà a farsi inseguire, non troverà mai la persona giusta.

Io sono riservata, dura, cerebrale, pigra, esigente e ironica. Non me ne va bene una. Mi dicono che è perché sono troppo forte e, finché non inizierò a inseguire, non troverò mai la persona giusta.

Poi siamo salite in moto e siamo andate allo Sherwood Festival a mescolarci tra i giovani più giovani di noi, sperando di sentirci meno adulte.

“Secondo te, è vero che sono troppo disponibile?”.

“No. Secondo me è una balla. Non è sbagliato quello che facciamo, è solo una questione di fortuna. Ci vuole fortuna perché le due metà della mela combacino. E ci vuole pazienza. E ci vuole coraggio ad accettare compromessi. E ci vuole forza, ma una grandissima forza, a lasciare andare le persone che non ci vogliono, anche se sono il grande amore, anche se come loro nessuno mai”.

“Allora, che si fa?”

“Boh, io prendo un’altra birra”

“Io bevo troppo. Non ho mica più l’età!”

“Non ti preoccupare. Non lo dirò a nessuno. Questa sera siamo di nuovo noi due di quasi vent’anni fa”.

Anche se al posto del Sì, siamo venute in Ducati. Anche se abbiamo più di cinquemila lire in tasca. Anche se la scuola per noi è già finita da un pezzo. Anche se abbiamo già scoperto che essere grandi non è poi così semplice. Anche se domani ci sveglieremo con un gran cerchio alla testa e ci ripeteremo, convinte, questa volta è l’ultima, da oggi metto la testa a posto.

Generazione 56k

L’estate dei blogger finisce con i giorni della Blogfest.

Fino all’ultimo giorno indecisa se andare o meno. A Riva del Garda farà freddo, come sempre, pioverà, poi ci saranno troppe persone, troppe poche persone, troppo alcol, troppo poco alcol, troppi amici, troppi pochi amici. Vado. Non Vado. Vado. Non vado.

Alla fine ci sono andata. C’era il sole e un sacco di pioggia. C’erano amici veri e persone che non avrei mai voluto rivedere. C’erano i vecchi blogger e i nuovi abitanti della rete.

Un tempo la Blogfest era la nostra festa, quel momento che ti faceva dire ecco la mia gente! o frasi così. Era una delle poche occasioni per vedersi, nel senso proprio di guardarsi in faccia, di associare la faccia a un nick, di chiacchierare senza uno schermo, di fare sesso dal vivo e non in cam con qualcuno conosciuto tra i commenti di splinder.

Il primo anno lo sponsor aveva spesato tutti quelli che qualcuno aveva definito blogstar. Gli altri, come me, erano esclusi da alcuni posti, eventi, ristoranti. Entravi solo se eri Blogstar. Tutti i blogger sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Il primo anno è stata una festa fascista, probabilmente in buona fede, e io mi ero detta mai mai mai più.

Poi ci sono tornata sempre, tranne l’anno scorso che proprio no, no, no. Era diventata una festa bella, erano tutti uguali, si mangiava insieme, si discuteva, si scambiavano idee, si creavano connessioni, si cercava lavoro, si cercavano amicizie.

I blogger non ci sono più. Sono in via d’estinzione. Quest’anno c’erano tante facce nuove: facce da twitter, da facebook, da friendfeed.

C’eravamo noi in un angolo, i vecchi dinosauri, la generazione splinder, la generazione che bloggava con il 56k. Guardavamo i giovani e le agenzie venute a fare markette e gli sponsor che chiedevano twit in cambio di alcol, magliette, caffè, spille, borse, penne.

C’erano i barcamp, ma poca partecipazione dal basso. C’erano più momenti di socializzazione che momenti di condivisione di idee e progetti.

La Blogfest è una festa. Non si va per imparare, si va per chiacchierare, abbracciare, salutare, bere, mangiare, accoppiarsi, ballare.

La maggior parte degli amici che c’erano a Riva del Garda li vedo tutto l’anno. Però è bello incontrarci per ricordare solamente come ci siamo conosciuti. Ci siamo conosciuti ognuno sul proprio divano, alla propria scrivania, passeggiando per la rete.

All’improvviso, seduti a un tavolo, riparandoci dalla pioggia, ci siamo messi a rievocare i “vecchi tempi”.

Siamo diventati bambini grandi. Alcuni si sono sposati, altri hanno figliato, altri sono spariti, altri ancora hanno fatto fortuna, moltissimi invece no. Era un po’ come il finale di Sapore di mare, con noi seduti alla Capannina e, in sottofondo, le note di Celeste Nostalgia. Che quasi ci scappa la lacrima.

Sono stata bene. Il mio blog respira ancora, anche se a fatica. Se mi chiedono cosa fai nella vita? la prima cosa che rispondo è sempre la blogger.

I blog stanno sparendo, come i calzolai, come i Blockbuster, come gli impagliatori di sedie. Arriveranno cose nuove e bellissime e ci sarà tanta altra gente che si ama-odia-abbraccia-lavora insieme-disprezza-discute. Noi saremo in un angolo a dirci che siamo stati i primi. Poi inizierà come sempre a piovere e allora ordineremo un altro spritz, guardando il lago grigio e silenzioso.

Milano è piccola

Non mi piace Milano quando è troppo piccola per non potersi evitare, quando costringe all’imbarazzo di non saper sostenere lo sguardo, quando rovina le serate perché poi arrivi tu e io vado via, quando prima di andare chiedo chi ci sarà, quando temo che le strade e le piazze siano trappole, quando non c’è abbastanza aria, quando corre e non perdona le pause, quando obbliga gli altri a scegliere te o me o nessuno, quando è omertosa, quando piove, quando non si vede il colore del cielo.

Mi piace Milano quando è abbastanza piccola per ritrovarci, quando le coincidenze sono belle sorprese, quando sono passati tanti anni e tu mi sembri uguale ad allora, quando mi sorridi, quando ricordiamo, quando le osterie hanno posto solo al bancone e mi siedo sullo sgabello e ti racconto la mia giornata, quando il sabato si svuota e sembra dormire, quando ti cercano gli amici, quando andiamo nel nostro posto, quando le idee piacciono, quando il pomeriggio non si lavora, quando so che posso farcela, quando mi sembra casa.

Come un rebus

Sono giunta alla conclusione di non essere facile, ma non come dicevi tu, non così.

Tu dicevi che non ero facile da amare, troppo difficile decifrare i miei segnali, troppo severa con me stessa e gli altri, troppo attenta ai dettagli, dipendente dalle emozioni, schiava della memoria. Tu dicevi che non ero facile da amare e ci amavamo a modo nostro, distratto, doloroso, ironico, inconcludente, carnale, fino a quando hai preferito la fuga, l’altrove, gli altri e poi è passato il tempo e i ritorni erano sempre meno belli, sempre più distanti.

Sono giunta alla conclusione di non essere facile, ma non come dicevi tu. Non escludo, non cancello, non lascio niente alle spalle, trascino tutto dietro. Ho una carovana di emozioni sulle spalle. Sapessi come pesa. E non lo sai. Perché non ritorni più. Il giorno che lo rifarai ci sarà ancora posto, ma forse non il posto che avresti voluto.

Non sono facile, però ho qualcuno che mi chiede come sto quando sono giù, che beve una birra alla mia salute, che mi dice ce la puoi fare. Non sei più tu e chissà dove sei adesso, cosa fai, che libri leggi, che musica ascolti. Non sono facile, ma ho capito che è il mio grande pregio. Sono come un rebus. Torna pure, se vuoi. Magari, stavolta, avrai la soluzione.

Milano sa farsi camminare

Sono andata a cena con un amico che vedo una volta all’anno. Non ci sentiamo spesso, però frequentiamo gli stessi bar virtuali e beviamo le stesse parole e sappiamo sempre dove trovarci, quando abbiamo voglia di fare due chiacchiere.

Sono andata a cena con un amico che vedo una volta all’anno e gli ho raccontato cose che non racconto a nessuno, cose belle, cose brutte, le sofferenze per cui non ci sono mai parole, le cose piccole e meravigliose di cui non mi ero resa conto, mentre mi succedevano, le malattie che non sai nemmeno come fare a conviverci, i progetti che non avevi nemmeno studiato perfettamente e che, raccontati a chi vuole ascoltare, sembrano così precisi.

Abbiamo parlato e bevuto e mangiato e camminato, perché a tutti e due piace camminare moltissimo, senza una meta, e faceva freddo freddo e Milano sembrava quasi bella come se non fosse Milano e mi sono accorta che confidarsi con qualcuno che non passa tutti i giorni con te è come guardarsi da fuori, mi sono accorta che il tempo sta passando e le cose succedono e io non me ne accorgo perché sono troppo occupata a limare il mio monologo interiore.

Abbiamo mangiato la pizza poi lui ha detto che se prendevo il dolce io l’avrebbe preso anche lui e io non l’ho preso, figuriamoci!, io che soffro per aver preso un chilo in questi aperitivi selvaggi della nuova città. Abbiamo bevuto il caffè e non era buono, ma c’erano tante chiacchiere e non fa niente e in fondo dovevamo raccontarci un anno, un anno incredibile per me, per lui, per chi ci ha voluto bene e per chi non ce ne vuole più.

Poi abbiamo camminato verso casa mia e lui si è messo in macchina e io sono rientrata al mio quinto piano e ho guardato la mia nuova parete rosa e ho pensato che il tempo che passa lenisce anche i dolori più grandi, che se hai deciso come raccontare la tua vita sei già pronto per viverne ancora, che ci sono persone belle belle che non ti faranno mai male, che non dimenticherò mai quanto ho sofferto per alcuni, perché io non so dimenticare, non ho mai imparato a farlo, ma che posso sopravvivere anche col cuore pieno di cerotti, che Milano è una città che sa farsi camminare, che anche solo una volta all’anno è bello passare del tempo senza dover dimostrare niente, provando solo a stare bene.

La Panda scassata

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, Elena mi ha scritto oh, dai, vieni a bere uno spritz, ché c’è un’amica che era con me in Erasmus e forse te la ricordi, dai, vieni.

E io figurati se mi ricordo le amiche sue che erano in Erasmus con lei, che ci sono stata una settimana a trovarla, a Lisbona, ed era il 2004 e non ricordo nemmeno quelli che erano in Erasmus con me, cioè, alcuni li ricordo, ma mica tutti, e comunque vado.

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, ci siamo sedute in piazza, perché a Padova, nel Veneto, si sta in piazza, anche se fa freddo, le osterie sono piccole, non sono i bar o i locali di Milano, sono posti stretti e pieni di vino e la gente prende il bicchiere e sta in piedi o si siede ai tavolini, ed è arrivato il freddo, ma in piazza c’erano ancora i tavolini e noi ci siamo sedute a bere, io lo spritz e loro il prosecco.

Allora, l’amica di Elena che era in Erasmus con lei, che non ricordavo, come non ricordo tante persone, a volte anche quelle a cui ho voluto bene e che forse rivedrei volentieri, l’amica di Elena inizia a raccontare cos’è successo a quello e cos’è successo all’altro.

E poi parlano di questo svedese, con un nome tipo Oiken, Oirken, Orkien, che avevo anche memorizzato e poi ho dimenticato, ché il cervello registra e dimentica, è la miserabile vita e non possiamo farci nulla.

Oiken era una montagna bionda, proprio svedese svedese, e lui a Lisbona era come un pinguino al Cairo, spiccava, era fuori contesto, era diverso. Allora lo scippavano sempre, lo truffavano, gli facevano scherzi, perché i portoghesi sono così, gente spiritosa, sono come i napoletani, ma con meno sole, più vento in testa e più fado nel cuore.

Un giorno un amico siciliano presta la sua Panda scassatissima a Oiken, la Panda con cui era arrivato dall’Italia, ed era un catorcio, ma voi lo ricordate il valore inestimabile di una Panda scassata in Erasmus, a vent’anni? E Oiken poi torna a casa, la mattina dopo, disperato, perché gli hanno rubato la Panda. A lui rubavano tutto.

E poi il siciliano rientra con tutti i suoi bagagli, senza Panda, e l’Erasmus finisce e si salutano tutti e Oiken, Orkien se ne torna al suo paese.

E poi l’amica dice, mentre faceva freddo ed eravamo al secondo spritz io e al secondo prosecco loro, che due anni dopo, il siciliano riceve una chiamata, a casa dei suoi, dalla polizia portoghese e sembra che avessero trovato la sua auto, che era rimasta parcheggiata due anni dove l’aveva lasciata quella sera Oiken, che era svedese e, oltre a essere una montagna bionda, beveva come una spugna e quella sera non era stato derubato, non aveva ritrovato l’auto perché era così sbronzo da non ricordare dove l’aveva parcheggiata. E la Panda era lì e la polizia comunicava che stava per essere demolita, dopo due anni.

Penso che, passata l’incazzatura, il siciliano abbia riso molto della cosa, come abbiamo riso noi, come ho riso io, anche se faceva freddo in piazza.

Perché le cose succedono e a volte non sono come sembrano, sono più stupide, più semplici e più divertenti e, con il senno di poi, vale la pena di averle vissute per raccontarcele.

Io non vedo da tempo i miei compagni dell’Erasmus, a volte mi dico che non li rivedrò mai, ma tutti i vent’anni mi sembrano la stessa storia, meravigliosa e facile, soprattutto quando te la raccontano con un finale diverso, più allegro e più leggero, al secondo spritz.

Un po’ funziona

Per sopravvivere, tutta la vita, mi sono sempre aggrappata ai pensieri felici.

Il pensiero felice è quello che, mentre nuoti in un mare di escrementi e la vita non va e il lavoro non va e i soldi non ci sono e la salute c’è e non c’è e l’amicizia boh e i chili di troppo e la malinconia, lui, il pensiero quello felice, ti tiene a galla, ti separa dal brutto, ti rasserena, ti fa avere speranza.

Il pensiero felice è quello che ti fa sorridere all’improvviso, quello che ti racconti la sera, prima di andare a dormire, quello che, quando proprio non ce la fai più, ti fa fare un passo e poi un altro passo ancora.

Il pensiero felice è il rifugio, è il nascondiglio, è il momento in cui non avere paura.

Per sopravvivere, tutta la vita, mi sono aggrappata ai pensieri felici.

Poi finivano e ne arrivavano di nuovi. E poi finivano e poi arrivavano.

A volte i miei pensieri felici erano persone, e le persone sono i pensieri più felici e i più fragili e, andando via, trascinano lontano sorriso e speranze.

I giorni senza il pensiero felice sono quelli in cui dormi male, in cui non hai voglia, in cui non pensi a domani, ma solo a ieri.

Ci sono questi giorni qui e il pensiero felice ancora non arriva.

Allora mi aggrappo al vino e ai saldi.

Un po’ funziona.

Aspettando

Sono passati sei mesi.
Lavoro molto meno, faccio cose che mi piacciono molto. Guadagno più o meno lo stesso, ma è tutto pagato a novanta, centoventi giorni. Scrivo tanto, leggo meno di quello che vorrei, parlo molto, viaggio sempre, tutte le settimane, più volte alla settimana, prendo treni, dormo da amici, dormo in hotel, dormo in monolocali in prestito. Quando riesco. Per il resto non dormo, prendo sonniferi, se li dimentico sto sveglia, guardo gli oggetti, penso, ripenso, rifletto, penso, ricostruisco.
Esco con persone che non frequentavo da anni, esco con persone che non avevo mai visto. Bevo, mangio poco, faccio sport, provo a non ingrassare di nuovo, provo vestiti, compro vestiti, pago con la carta, controllo il saldo della carta.
Cerco casa, torno a casa, compro casa, vendo casa, pago affitti, pago spese.
Sono passati sei mesi e ho vissuto tre vite.
Ho cambiato la pelle, svuotato la testa con un cucchiaio da zuppa. Ha fatto male, malissimo. Adesso lascio che si asciughi prima di riempirla di nuovo.
Sono passati sei mesi dall’inizio della nuova vita, ma proprio tutta nuova e che fatica! e che difficile! e il senno di poi sempre col fiato sul collo.

Sono passati sei mesi – ecchecazzo! – e ho pianto, sospirato, fatto strage di fantasmi, pulito, aperto le finestre, comprato sandali nuovi, visto il mare, fatto spazio, comprato vino buono, pettinato i capelli, lucidato le labbra.

Adesso mi siedo e aspetto le cose belle.

Una buona notizia

Il fatto è che, non so come spiegarlo, ma a un certo punto vivi. Perché la vita non è fatta solo di felicità e tristezza. È fatta di aprire gli occhi, di dormire, mangiare, lavorare, ah! lavorare, di comprare cose, sudare, correre, leggere, bere, camminare. A volte vivi innamorato, altre infelice, altre stanco, altre disperato. A me è successo che pensavo che si sarebbe fermato tutto, che senza l’amore, senza quella passione che mi chiudeva lo stomaco, senza gli abbracci, senza le parole, sempre le stesse, sul mondo immaginato insieme, senza te, lui, lei, gli altri, io non avrei vissuto.

E invece vivo. E faccio fatica come faticano tutti quelli che vivono il prima e il dopo, come faticano quelli che si chiedono cosa sto facendo?, come faticano tutti quelli che hanno avuto il cuore pieno e poi vuoto e poi pieno e poi di nuovo vuoto.

Invece vivo, pensa. Io non ci avrei creduto. E non è che si stia proprio bene, insomma, a vivere così. Si vive.

Ed è già estate, però.

Io penso sia una buona notizia.

Più di così

Succede che, nel confidarci le nostre ombre, nel confessare i nostri quotidiani chiaroscuri, nel raccontarci tutti i giorni i nostri grigi, ci appaia, per caso, un nero nero che stona o un bianco troppo brillante.

All’improvviso, le sfumature che amiamo del nostro prenderci e darci ci appaiono colori netti, senza possibilità di interpretazione.

E chi lo sa perché non ci fermiamo nemmeno a chiederci se è la luce a essere cambiata, se la prospettiva, se basta spostarsi un po’ per ritornare a vedere i volumi fumosi, il tratteggio irregolare del nostro stare insieme.

Vediamo solo il nero, solo il bianco e non abbiamo voglia di parlarne, di chiarire.

Ci prende quell’accidia dolorosa, che preferisce lasciar perdere, che preferisce stare male e puntare il dito, che preferisce accusare, senza riparare. Preferiamo continuare a vedere il nero e il bianco e non vediamo più i nostri meravigliosi grigi e non ci parliamo guardandoci negli occhi, cercando le gradazioni nei sorrisi.

Preferiamo continuare a vedere il nero e il bianco e a raccontarci che fa male, senza provare a spostarci nemmeno un po’ per ritrovare la tonalità che non ci spaventa, che non ci allontana.

Ha preso anche noi quell’accidia dolorosa e a volte penso che potevo fare un passo avanti, che tu potevi fare un passo indietro, che si potevano mischiare i colori e farne di nuovi.

E poi mi dico che per vedere i grigi perfetti, per non aver bisogno di fissare un limite coi neri e i bianchi, per riuscire a rimanere in quelle ombre delicate e leggere forse bisognava essere persone diverse, forse bisognava volerci più bene di così.

Ci ha preso quell’accidia dolorosa di chi non ama abbastanza per sporcarsi le mani col colore, per mischiare il nero e il bianco, per gridare e piangere fino a vomitare tutto, svuotarsi, ripartire.

E siamo rimaste così, con il peso delle nostre ombre avvinghiate ai corpi, con i colori netti che non sappiamo usare, con il rimpianto di non aver detto, con la nostra versione testarda dei fatti, con l’odio impotente di chi non ha saputo volere bene, di chi non ha saputo voler più bene. Più bene di così.