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Fino a quando sbocceranno le viole

Non mi dispiace l’alternarsi delle stagioni. Primavera-estate-autunno-inverno.

Non riuscirei a tollerare una vita senza imprevisti meteorologici, senza l’attesa che le giornate si allunghino, nel terrore che si accorcino, togliendoti il sole che ti eri guadagnata, senza la fatica del cambio di stagione, che ti convince a spendere i soldi che non hai negli ultimi saldi.

Mio fratello vive da anni in Brasile, con la famiglia, a due passi dall’equatore. Sempre caldo, sempre sole, qualche pioggia tropicale, alba e tramonto sempre alla stessa ora. Sì, puoi andare a mare tutto l’anno e stare in infradito per 12 mesi e tenere l’aria condizionata accesa perennemente e cenare all’aperto ogni sera.
Sempre lo stesso.
Non fa mai freddo, non c’è la neve, non c’è la nebbia, non ci sono i maglioni di lana e i cappotti e i calzettoni e gli UGG e i guanti e le sciarpe e le stufe a fungo fuori dai locali per i fumatori.
Sempre lo stesso.
E chissà come fai ad accorgerti del tempo che passa, forse dalle vetrine dei negozi, dalle commesse in T-shirt e cappellini da Babbo Natale quando c’è da festeggiare.
Non lo so.
Se poi lavori, non ci vai in spiaggia tutti i giorni e anche se fosse, alla fine ti romperesti le scatole anche della sabbia, tutti i giorni.

Ci pensavo guardando fuori dalla finestra. Un sabato lento, di grigio milanese, una pioggia leggera, nemmeno un’ombra della neve che ci hanno promesso.
Mi consola sapere che l’inverno non dura per sempre e che domani, o forse dopodomani, o dopodopodomani, tornerà la primavera.
Perché la primavera torna sempre e io credo che ci sia qualcosa di magico, nel guadagnarsi un po’ di luce in più, nel togliere gli strati, nello scoprire il pallore, nel prepararsi alle prove costume che non superiamo quasi mai.
Non mi dispiace l’alternarsi delle stagioni, il caldo e freddo, e i periodi di mezzo, gli autunni romantici, il maggio tiepido in cui tutto sembra poter essere migliore.
Mi piace l’idea di conquistarci il bello, di non darlo per scontato.

Non è vero che sono giorni brutti brutti. C’è qualcosa di speciale anche in questo pigro inverno.
Tipo restare qui, e non uscire mai mai mai da questo piumone caldo fino a quando sbocceranno le viole.

Ce. La. Puoi. Fare.

Per la mia laurea, nel lontano 2002, avevo chiesto in regalo una Reflex. Una Canon EOS analogica, ché il futuribile era di là da venire, con un bell’obiettivo. Una discreta macchinetta, perché dopo anni di viaggi strampalati e di scatti rubacchiati con piccole compatte e metri e metri e metri di pellicola, avevo deciso che da grande avrei potuto fare la fotografa. Che ne sai? Tutti mi dicevano hai occhio, dovresti lavorarci su, poi te ne vai nei paesi arabi con la tua laurea che come ti è venuto in mente di prenderla e ci fai dei bei reportage.

La maneggiavo come se fosse di cristallo.

Un paio di settimane dopo me ne sono andata a Napoli. Ho fatto una sosta di pochi giorni a Roma. E mi sono fatta fregare la macchina. Subito. Un borseggio. Oh, succede. A Roma ti fottono anche se sei napoletano. Ma a me non avevano mai rubato nulla. Allora i sensi di colpa che hai quando ti succede qualcosa di brutto, potevo evitare? è stata colpa mia? potevo essere più scaltra? se avessi fatto? se avessi cambiato strada?

Ho letto questa cosa come un segno. Demotivante. Io sono la regina del pessimismo. Quando mi porgono un bicchiere, io non penso nemmeno se è mezzo vuoto o mezzo pieno, tanto sono sicura che contiene acqua non potabile. Mi farà male al pancino.

Mesi dopo, al mio compleanno, gli amici avevano fatto una colletta per ricomprarmi la reflex. Ma io avevo già abbandonato l’idea di fare la fotografa. Sono fatta così. Mi scoraggio. E lascio perdere.

Sono sempre stata brava, anche molto, molto brava, in tante cose, lo studio, il teatro, il coro, le lingue, la cucina, la matematica, il ragù, ma non credo di essere mai stata eccellente in niente. Se nasci con una voce incredibile, una bellezza incantevole, una presenza scenica sublime, un portentoso orecchio musicale, un quoziente intellettivo da genio, una mano da pittore, i piedi da atleta, lo capisci subito il tuo destino.
E anche se non sei il numero uno, prima o poi arriva il momento in cui scegli cosa fare. E ti impegni. E ci provi.
Non succede a tutti. Anzi, molte persone si lasciano vivere, ragionano per obiettivi minimi: lavoro, casa, famiglia, macchina, vacanza e vivono vite degnissime e soddisfatte, senza l’ansia di un progetto maggiore. Però quasi tutti coltivano sogni, che abbandonano per incapacità, pigrizia, maturità.

Io ho abbandonato molti sogni per paura, altri perché la realtà mi ha presa a schiaffi, altri perché mi stavano stretti e altri ancora me li sono proprio dimenticati.
Certe volte, in passato, mi sono circondata di persone entusiaste e brave. Forse erano i vent’anni. Forse mi avevano conosciuta con un’altra luce negli occhi, non lo so, ma quelle persone lì, alcune, mica tutte, anche se per brevi momenti, avevano creduto in me. E allora io mi ero sentita speciale. E quelle volte avevo pensato davvero che sarei diventata una grande attrice o una grande antropologa o una grande scrittrice o una grande donna.

Poi, certo, c’è stata la vita, i lutti, i debiti, la precarietà, le scelte sbagliate, i problemi in famiglia, le malattie, i traslochi, gli amori finiti. A un certo punto la ricerca di un sogno sembrava una perdita di tempo. Lavorare, guadagnare, sopravvivere. Ho cambiato così tante vite e case e città, che a un certo punto mi sono ritrovata così diversa che non mi riconoscevo nemmeno più.
E quando è diventato tutto un po’ più difficile, superati i 30, con contratti in scadenza, fatture non pagate e mutuaffitto, anche le persone intorno a me sono cambiate.
Così, negli ultimi anni, quando le cose andavano male, in moltissimi mi dicevano che dovevo accontentarmi. Accontentati, riduci le aspettative, lima i sogni. Mi spiegavano dove sbagliavo, così convinti di avercela fatta loro, solo perché, magari, erano riusciti a coprire la loro mediocrità con un accumulo di flebile ricchezza. Quando cresci, i sogni perdono valore se non ti rendono danaroso.

Allora l’Italia andava male, però per le persone negative intorno a me ero io, io, con la mia incapace indolenza, con la mia pigrizia, con la mia chissàcosa, chiticredevidiessere, a non funzionare. Quindi taglia, riduci, togli.

L’insicurezza è un virus letale. Se non lo curi subito, con una bella dose di faccia tosta, diventa cronico. E l’insicurezza ti fa circondare di brutte persone. Che sono tipo vampiri, che ti succhiano energie e forza, ma meno fichi dei vampiri, hanno la pancetta, la cellulite o la forfora. In sintesi, mi sono circondata di stronzi.

Mi hanno fatta sentire di nuovo borseggiata. Hai solo puntato troppo in alto. Solo quello.

E così ho rallentato. Rallentato. Rallentato. Poi mi sono fermata. Scrivere, viaggiare, stringere mani, fare colloqui, inviare progetti, fare brainstorming. Tutto fermo. Solo piccole cose, senza alzare gli occhi, come dicevano loro, riduci, ridimensiona, ti insegniamo noi come si fa. Un’ombra.

Epperò mi ha salvato l’imprevisto. Quello lì, l’uomo che non aspettavi ed entra nella tua vita e ti dice che tu sei di un altro pianeta e chi ti ha detto che non puoi volare ti ha mentito. Quell’uomo che ti insegna la filosofia di Stallone e ti dice ogni volta che cadi devi rialzarti, alzati, combatti anche per 14-15 round, perché non importa se stai prendendo a pugni un campione, tu ce la puoi fare. Anche se perdi, ce la fai. Lui, che quando tu gli dici non sono capace, non l’ho mai fatto, non ci riesco, lui non ti abbraccia e compatisce, ma ti dice fallo e basta, muoviti, sei invincibile.
Funziona. Non da un giorno all’altro. Ma funziona.
Ricostruire l’autostima, allontanare la negatività, riprendere i sogni che non è troppo tardi, ritrovare l’energia.
La procrastinazione, mi fotte, su quello devo lavorare, ma funziona.
A volte i sogni si realizzano solo se c’è qualcuno che ha davvero fiducia in te. Un po’ come Babbo Natale, che se ci credi, esiste. Un po’ come il Punto G.

Sia chiaro, non ho realizzato ancora nulla, però ho capito una cosa importante. Bisogna puntare in alto. Anche bluffando. In alto.

Ce. La. Puoi. Fare.

E vaffanculo le brutte persone!

Il prossimo anno voglio essere felice

Non piacerebbe anche a te, certe mattine, che una voce fuori campo riassumesse il tuo passato come prima dei telefilm quando “nelle puntate precedenti…”?

Avevo voglia di raccontare, come ormai faccio da dieci anni, e di condividere gli ultimi dodici mesi, ma mi rendo conto che quest’anno ho fatto già tantissimi bilanci che ho vissuto un capodanno ogni trimestre. Ogni cambiamento è stato un inizio: i viaggi, gli addii, i successi e gli insuccessi, il lavoro perso, gli amici ritrovati.
Stamattina ho la sensazione che non sia l’ultimo giorno di qualcosa, ma l’ennesimo giorno meraviglioso e complicato di questo reality che si chiama vita.
Gli anni meno faticosi passano più in fretta. Il 2013 è stato forse un periodo di transizione. Sto meglio, molto meglio, rispetto a un paio di anni fa in cui tutto è andato a pezzi ed era impossibile anche solo alzarsi la mattina.

Ho lavorato poco. Il 2012 avevo guadagnato la metà esatta dell’anno precedente e quest’anno ancora un terzo in meno. Molto di quello che ho guadagnato non mi è stato ancora pagato. Vivo di prestiti, risparmi e speranza e, se non fossi così incosciente, se avessi una famiglia, dei figli da mantenere o anche solo un’automobile, se non fossi pronta ad arrangiarmi, sarebbe molto più drammatico. Ma siamo quasi tutti su questo barcone sgangherato e ci facciamo forza e sappiamo che qualcosa prima o poi cambierà. E se è vero che non sempre abbiamo fatto abbastanza per lavorare di più e meglio, spesso abbiamo dato il massimo senza avere un ritorno.

I giorni che non ho lavorato, ho scritto. Tanti articoli, tante lettere, un romanzo nuovo e un romanzo breve che ho amato molto, ma i lettori meno. Poi mi sono presa una pausa. Per cambiare. Perché questi libri che ho pubblicato non sono io. Non sono Daniela. E forse non sono nemmeno tanto Dania. Sono piena di storie, ma storie diverse, linguaggi differenti, personaggi che mi somigliano molto di più, che dicono parolacce, che viaggiano in seconda classe, che indossano anfibi e vanno a fare la spesa al mercato.
Allora ho deciso che basta, che voglio scrivere una storia mia.
Quindi niente terzo capitolo della saga Chanel, niente glamour, niente amore.
E pensavo che sarebbe stato tutto più facile, invece è un casino e ho la testa che esplode e la pagina bianca davanti agli occhi che è come una ferita sanguinante.
Il tempo che passa, ormai, è scandito solo dalla persistenza delle mie pagine vuote. Fa male.

Prima o poi anche i libri mi verranno pagati (i diritti arrivano con molta calma) e inizierò a vivere questo tempo china sulla tastiera come un vero lavoro. Forse allora sarò più motivata, forse le parole usciranno più in fretta e più disciplinate. O forse no.

Ho viaggiato, non quanto vorrei, ma ho preso gli aerei giusti e ho passato dei giorni di tale serenità che mi sono chiesta perché non averlo fatto prima, sorvolare l’Oceano, riunire la famiglia, visitare i posti che ho sempre desiderato, mangiare tutto, ma proprio tutto quello che mi va.

Certi mesi mi sono scivolati addosso, perché non c’era niente da conquistare, altri sono stati delle battaglie, infinite.

L’amore è stata la cosa più complicata (non è sempre così?). Due passi avanti, uno indietro, addii, ritorni, promesse e lacrime, baci lunghissimi, fughe, parole scritte e tante parole non dette, canzoni, film, accuse, dichiarazioni. Colpi di scena.

È stato come avere di nuovo vent’anni, vivere le relazioni alla giornata, non sapere se domani sarà ancora tutto bello, avere il terrore di progettare insieme.
Ormai siamo arrivati fin qui, non possiamo tornare indietro, non possiamo buttare tutto, ce lo siamo guadagnato, conserviamolo, proteggiamolo.

È stato un anno disordinato, che mi ha insegnato che gli altri non possono sempre diventare alibi per la nostra negligenza, che se vogliamo cambiare, dobbiamo farlo e basta, noi da soli, perché tutti possono cambiare. Mi ha insegnato che c’è sempre una seconda occasione e, se non dovesse esserci, ci sarà un‘altra occasione, diversa ma non meno importante. Mi ha insegnato che le persone belle devi tenertele strette, a costo di superare la pigrizia e l’egoismo e la paura, perché il tempo passa e cancella tutto e l’unica cosa che conserverai per sempre sono i compagni di viaggio. Mi ha insegnato che i soldi e il successo e l’apparenza e la bellezza possono essere importanti, ma non a costo di non riconoscerti più, di modificare i tuoi sogni; che tra un mese dimenticherai la tua ospitata in TV, ma ricorderai per sempre le serate a ridere con gli amici, la coda lunghissima per  salire in cima a un grattacielo per guardare il tramonto, le canzoni urlate durante un concerto in uno stadio pieno di gente.

Mi ha insegnato che non c’è un arrivo, che la strada è infinita, che possiamo fare una sosta, per stanchezza, per rabbia, per pigrizia, ma poi dobbiamo rimetterci in viaggio, noi che siamo i nomadi del nostro destino.

Il prossimo anno voglio essere felice.
È un proposito folle, credete che non lo sappia?
Ma voglio metterci pazzia nel futuro.
Voglio scrivere il mio romanzo, voglio stare solo con le persone belle e tenere tutti gli altri a distanza, i gatti e le volpi, i falsi, gli approfittatori, le galline tutte tette e sorrisi e niente cervello, gli insicuri che ti succhiano il sangue, gli invidiosi. Voglio viaggiare di più, ma molto di più, voglio guadagnare abbastanza da poter tirare il fiato, voglio dire no a tutte le cose che non mi piacciono, le serate con i dress code, i finti amici, i locali con la lista all’ingresso, le cene in cui “voglio parlarti di un lavoro” e invece è solo marpionamento, le comparsate che chissenefrega, le foto fatte solo per dire io c’ero, le competizioni non richieste, gli insulti gratuiti di troll e stalker, quelli che “non ti fai mai sentire” e non ti chiamano mai.
Voglio stare con te, non solo il prossimo anno, ma tutta la vita, a costo di inseguirti e poi fuggire, di cambiare e poi tornare indietro.
E poi dormire un anno intero senza prendere sonniferi e mangiare senza sensi di colpa e sorridere solo se ne ho veramente voglia e non avere sempre l’ansia spaventosa di perdere tutto.

Voglio arrivare a fine anno e dire che meraviglia! Hai visto che non era impossibile? Che ce la potevo fare?
E se non ce la dovessi fare, poi ci sarà l’anno successivo e quello dopo ancora.
Non ci fermiamo mai.
Non voglio fermarmi mai. Ho le scarpe giuste, il fiato allenato, la borsa leggera e la colonna sonora perfetta.

BUON ANNO NUOVO.

Se io fossi quella

Se io fossi quella,

quella per cui apri gli occhi la mattina e respiri, dentro l’aria e fuori l’aria,
se io fossi quella a cui pensi mescolando lo zucchero nel caffè, anche se non bevi caffè, a te piace il tè e non lo capirò mai,
se io fossi quella che hai in testa mentre lavori di notte, quella che riempie i tuoi disegni, quella per cui pensi e scrivi tutte le parole, anche quelle difficili, anche quelle dolorose,

se io fossi quella che ti fa sperare che ci sarà un domani e sarà bello, quella che vedi al tuo fianco quando tutti i capelli, tutti, saranno diventati grigi, se io fossi quella che cerchi tra la folla, quella che senza ti senti perduto e solo, quella che come me nessuna mai e non c’è prima e non ci sarà un dopo,
se io fossi quella che toccarmi dà motivo alle tue mani di esistere, quella che baciarmi tiene in vita le tue labbra,
se io fossi quella che spiega tutto, che dà una ragione alla fatica fatta per arrivare qui, che chiude i conti, se io fossi quella che perdona tutti i tuoi sbagli, che ti regala un altro inizio, che mette insieme tutti i tuoi brandelli e ti insegna sapori e colori nuovi,

se io fossi quella, avrebbe tutto senso, le lacrime, le fughe, i sospiri, i pugni contro le porte chiuse, i chilometri in autostrada di notte per cercare risposte, i baci che sembra arrivino da lontano e ti prendono alla sprovvista,
avrebbero senso gli anni che abbiamo vissuto, le promesse che abbiamo fatto e non abbiamo saputo mantenere, avrebbero senso le fini e tutti gli addii, quelli che si portavano via pezzi di cuore e di stomaco, avrebbero senso le canzoni che regalavano sollievo, ascoltate dieci, cento, mille volte, avrebbero senso le sbronze e le scazzottate con gli amici, avrebbero senso i giorni che abbiamo passato lontano, a ricucirci le ferite,
avrebbero senso i giorni che verranno, avrebbero davvero senso, tutti, per sempre.

Ma se non sono quella, se non lo sono, portati via il tuo odore, porta via le parole e i tuoi sorrisi, strappami la tua voce dalla testa e nascondila sotto l’oceano, dove i rumori sono confusi e non posso più riconoscerli,
se non sono quella, dimenticati di me e io sparirò per sempre e non ci saranno ricordi che tolgono il fiato e non ci saranno rimpianti,
se non sono quella, non trattenermi nelle tue matite, non disegnare il mio volto per ricordarlo, non lasciare che il bianco e nero mi trasformi nel tuo passato.

Se non sono quella, non sarò un tentativo, non sarò un’alternativa, non sarò l’altra, non sarò un’amicizia, non sarò la compagna di qualche notte calda, non sarò l’allegria,
se non sono quella, non sarò niente,
perché non sono niente senza di te e tu non puoi farcela senza di me,
non puoi farcela,
perché non ci sono più io, non ci sei più tu,
perché il mondo esiste solo se ci siamo noi,
e nient’altro.

Ricominciare il lunedì è sopravvivere

Ricominciare il lunedì è sopravvivere.

Non sbirci l’iphone appena sveglia in cerca di segnali. Non ci sono più, non ci sono ancora sorrisi nel buongiorno. Arrivi in cucina senza quasi aprire gli occhi e prepari il caffè, annusando il barattolo pieno di polvere, una, due, tre volte e ti entra tutto nel naso, arabica, fino al cervello. Sa di calore, viaggi, casa, ricordi.

Accendi la tv e resti in piedi, con la tua tazza piena, masticando un biscotto, forse l’ultimo e devi fare la spesa e sullo schermo c’è Fini che parla di Renzi o almeno credi. Che anno è? Che giorno è? Chissà perché hai questa canzone in testa.

La doccia è bollente, ti arrossa la pelle, ché il suo odore lo senti comunque, dovunque.

Vorresti vestirti svogliatamente, ma non sei un’albachiara da un pezzo. Sei grande. Adulta da sempre. Più vicina a un’età che ti spaventa che a quella del se fossi e se potessi.

Stamattina, dici, comincio. Riempio questa pagina bianca di un romanzo che ho voluto così dannatamente e che non c’è. Viaggia nella testa. Si scrive da solo nella materia grigia. La scadenza è un groppo alla gola e meno male, ti fa sentire viva.

Ci caschi. Prendi il telefono e cerchi i messaggi scritti. Ma adesso sai come funziona, hai imparato a proteggerti. Rileggi solo i tuoi. Una, cinque, dieci volte. Perché adesso lo sai, lo sai benissimo, che bisogna usare tutte le parole, dirle proprio tutte tutte, senza tenerne nessuna dentro. E quando ti tornano in mente, quelle che avresti voluto dire e invece no, scriverle, inviarle, perché l’unico modo per andare avanti è non avere rimpianti. Nessun rimpianto. Nessun. Rimpianto.

Sei già qui seduta da un po’ e nemmeno una riga. E lo sai che in qualche personaggio metterai un po’ di lui. E un po’ di te. E un po’ del tempo che è stato e ti porti attaccato addosso e allora ha ragione Jane Austen quando dice che bisogna pensare al passato solo quando i ricordi ti possono fare piacere.

E non ascolti musica stamattina e continui a non raccontare niente a nessuno, perché lo sai che questa storia incredibile è solo per due, che hanno capito o capiranno, che inspirano e respirano, inspirano e respirano, seduti alle loro scrivanie piene di storie ingombranti.

Il lunedì è sopravvivenza. È questione di resistenza. Il collo rigido e i pugni stretti e lo stomaco chiuso e i sospiri. Ricominciare. Lo sai fare. Te lo garantisco, lo sai fare. Un po’ alla volta e poi un altro po’ e scivola via.

 

Aspetto che finisca

Sono diverse le fini, una dall’altra, e ti sorprendono, purtroppo, le stronze.
Quando pensi che ci sei già passata, sei già pronta e sai come funziona, cambia tutto.

L’ultima volta ho smesso di mangiare; ho pianto un sacco, ma tantissimo, tantissimissimo, che le borse sotto agli occhi erano valigie; ho parlato molto, con tutti, in continuazione, raccontando la storia, le storie, mille volte, soffermandomi sul finale, chiedendo agli altri e soprattutto a me “poteva andare diversamente? Avrei potuto fare altro? Dove ho sbagliato?”.

Questa volta mangio dolci in continuazione, tanti, a tutte le ore, ci sostituisco i pasti e poi mi chiudo in palestra a sudare e sudare e sudare; piango poco, lentamente, fermando le lacrime ai lati degli occhi prima che cadano giù; non parlo con nessuno, non racconto, non rispondo al telefono, non rispondo alle email. Mi sembra che a raccontarla questa fine sia troppo crudele, troppo personale, troppo intima e preferisco custodirla per me. E non chiedo più niente a nessuno, nemmeno a me e mi ripeto che non avrei potuto fare altro, doveva andare così e non ho sbagliato nulla.

Dopo questa fine non taglierò i capelli, non cambierò casa e città, non chiuderò i ricordi in un cassetto, non proverò a scriverci un libro che non finirò mai, non mi sforzerò di uscire per dimenticare, non ti cercherò in tutte le righe scritte e nelle foto e nel mare fangoso di internet.

Starò qui, in questo silenzio che mi protegge, in questa casa dalle finestre grandi, a bere caffè e ad aspettare che finisca anche questa fine, come finiscono tutte, giusto in tempo per lasciarci sopravvivere.

Fuori sta piovendo di brutto

Scrivo queste righe di notte, quando ormai nessuno legge più, perché impegnato a vivere la sua vita o a immaginarne una.

Scrivo con tre birre medie e un bicchiere di rum in corpo, che ti aprono la mente e ti rimescolano le budella, che ti fanno sentire vivo e disperato, disperato e pronto a tutto, pronto a tutto e coraggioso.

Scrivo per dirti che avevamo una cosa che non si era vista mai e che non è andata, che eravamo due che nemmeno nei romanzi più arditi potevano stare insieme e c’eravamo, che potevamo costruire castelli che le principesse fighe di legno se li sognano, che bastava allungare una mano per toccare il paradiso.

E invece no. Perché i fantasmi degli amori passati non ci lasciano, perché io ho il coraggio che tu non hai e forse è solo incoscienza, perché forse non mi ami abbastanza, perché a volte è più difficile rinunciare che accontentarci.

Fuori sta piovendo di brutto e io non avevo l’ombrello. Sono tornata a casa con gli anfibi e il parka zuppi di pioggia. Ti avrei scritto come mi sentivo, ma tu non eri già più.

Domani è venerdì e devo ricominciare tutto. Da capo. Tutto.

Da capo.

Tutto.

Così sono diventata migliore

Mi piace pensare che tutte le persone possano cambiare.
A me è successo, dopo eventi traumatici, abbandoni, lunghi viaggi; dopo amori che mi hanno rimescolato le budella, mettendo in forse tutto il prima e ipotecando il dopo.

Sono cambiata molto. A fatica, perché trasformarsi è sempre una piccola sconfitta, è accettare di avere dei difetti di fabbricazione, di avere qualcosa di sbagliato, di funzionare male. Quando si cambia in meglio. Perché a cambiare in peggio si fa molto più in fretta, e io lo so perché ho visto tutte le puntate di Breaking Bad.

Ho sempre giustificato le mie mancanze, verso gli altri e verso me stessa, come bisogni. Faccio così perché ho bisogno di, non riesco a darti quello che vuoi perché ho bisogno di, non riesco a esserti fedele perché ho bisogno di, non posso essere più presente perché ho bisogno di. Il mio bisogno di era l’alibi peggiore.
Mi è capitato di ferire le persone per immaturità, egoismo, distrazione, rabbia, invidia, pigrizia e troppe poche volte sono riuscita a chiedere perdono. Ancora meno a ottenerlo.
Così sono diventata migliore. A costo di darmi di meno, di fare un passo indietro, di metterci meno me stessa. Ho imparato che è meglio non fare, se fare può far soffrire le persone che amo. Ho imparato che è meglio fare un passo verso gli altri che aspettare che ti inseguano.
Ho imparato a trasformarmi, con un lungo allenamento, come quello che ho fatto per mantenere i glutei alti e la pancia piatta.

Sono stata ferita spesso, nella vita. Poche volte mi hanno chiesto scusa. Perché quando sei dura e severa e introversa e solitaria, gli altri credono che non ti spezzerai. Non lo fai. Ti crepi dentro, ti si aprono voragini enormi che fai fatica a riempire di cose belle.
Cambiando, imparo a schivare i colpi. Sono troppo vecchia per attaccare, devo solo provare a non farmi troppo male.
Quando qualcuno mi sgretola dentro, mi allontano. Quando chi mi ama non fa nulla per proteggermi, scappo via.

Mi piace pensare che tutte le persone possano cambiare. Mi piace pensare che possano diventare migliori. Mi piace immaginare che non siamo destinati all’infelicità.  E se ci sono riuscita io, puoi farlo anche tu.

L’apostrofo rosa

Mi ero dimenticata di dirvi che, da un mese, collaboro con Bloglive, che è un giornale online pieno di giovani speranze, e curo una rubrica che si chiama L’apostrofo rosa.

Nell’apostrofo rosa, recensisco. Libri, film, spettacoli teatrali, dischi, serie tv, eventi, mostre, cene di gala e tutto, TUTTO, quello che ruota attorno all’amore.

Perché l’amore, oh, fa davvero girare il mondo e tira fuori il meglio dalla testolina degli artisti.

Ho già parlato di:

Io che amo solo te, di Luca Bianchini

Mood Indigo, di Gondry

Nuvola numero nove, di Samuele Bersani

e nel pezzo di oggi, di tutti i film che ricordo in cui la pasta fa da collante alle storie d’amore (un modo tutto mio per tirare le somme del Fusillogate Barilla).

Scrivo un pezzo ogni giovedì.
Buona lettura.

La resa dei conti

Agosto è sempre la resa dei conti.

La pausa in cui tutto rallenta, i ritmi, la musica che ascolti, l’ansia per i debiti, il rumore della città che vive sotto la tua finestra.
Sono stata al mare, perché un’estate senza mare io non la ricordo da mai, e ho passato del tempo con le persone che amo da una vita, amiche, cugini, zii, sorella.
C’è un’età in cui ami passare il tempo in famiglia, seguita dagli anni in cui detesti anche solo l’idea di un pranzo insieme a mammà, e poi torna un momento in cui ti fa piacere stare con la gente della tua razza. Questo momento lo chiamano età adulta.

Come ogni estate ho capito delle cose. Soprattutto su di me, che sono diventata un libro aperto a fatica, con le pagine incollate e staccate col tagliacarte, una a una, per non sciuparle.

Ho capito che i traguardi sono punti di partenza, che non bisogna mai pensare di essere arrivati, perché la strada è lunghissima e, se ti fermi un momento e i muscoli si rilassano, poi farai fatica a riprendere il cammino.

Perché l’importante nella vita è avere sempre margini di miglioramento.

Ho capito che a invidiare gli altri si perde il gusto di quello che si ha, si spreca un sacco di tempo in cui potersi godere le cose belle e facili e nostre. E anche se l’invidia è un sentimento naturale, quando arriva dovresti respirare a fondo e contare uno due tre… dieci e sforzarti di sorridere e pensare che tutti hanno alti e bassi e che un giorno sarai così felice che nemmeno noterai cosa succede intorno a te.

Ho capito che chi non riesce a dirti “ti amo” non ti ama. E basta. Non esiste un morbo che smorza le parole in bocca, che toglie il respiro, che taglia la lingua. Puoi fraintendere gesti, attenzioni, sorrisi, emozioni, ma quando una persona non ti ama, prima o poi, te ne accorgi. E allora devi alzarti e girarti e camminare lontano lontano.

Ho capito che la fretta è positiva solo se hai un progetto.

Ho capito che, se non riesci a comprendere le storie d’amore che vivi, figurati se potrai mai concepire e giudicare le storie degli altri!

Ho capito che la bellezza, la magrezza e la ricchezza sono sì importanti, ma vuoi mettere il valore di un giro in moto nei campi di girasole? O un gelato con tanta panna che cola da ogni lato? O i piedi che entrano nell’acqua di mare fredda? O i baci con le mani che ti carezzano il viso, che chiudi gli occhi e ti dimentichi dove sei?

Mentre passeggiavo nella città deserta, dalla finestra di un palazzo chiaro è arrivata la musica di un pianoforte. Non c’erano macchine per la strada e quelle note sembravano la colonna sonora del film della mia fine estate. Allora mi sono fermata ad ascoltarle e sono durate troppo poco. E quando le dita hanno smesso di pigiare i tasti, ho infilato di nuovo le cuffie, ho legato i capelli in una coda e ho continuato a cercare un bar aperto.

 

Misantropa sporadica

Mi piace praticare una sporadica misantropia.
Alcuni giorni voglio stare da sola, ascoltare musica, camminare e camminare, leggere e non rivolgere la parola a nessuno.
Il silenzio è un’arma potente. Quando impari a conviverci, capisci molte cose, ti capisci e il suono della tua voce, dopo un po’, ti sembra più intenso, più tuo.

È difficile dire alle persone che non hai voglia di vederle, quindi fingo impegni improvvisi, lavori che non devo svolgere, viaggi che non faccio, visite mediche che non ho prenotato. A volte non rispondo agli inviti e basta, tanto puoi sempre dare la colpa al telefono, all’operatore telefonico, all’email non scaricata, alla distrazione, al tempo che passa e non te ne eri nemmeno accorta.

Ci sono pochissime persone che vorrei accanto a me sempre sempre, che non riesco a tenere distanti, che quando ci sono mi sembra di avere un terzo polmone, un occhio in più, due cuori, quattro gambe. Trovo insopportabile che mi stiano lontane e non riesco ad accettare che vivano e sopravvivano anche senza di me.

Vivo così l’amore, come l’espansione del mio corpo, come la moltiplicazione dei sensi, come la condivisione dell’ultimo ossigeno rimasto sulla terra, che se non lo respiriamo insieme, uno dei due finisce molto male.

Non capisco quell’amore piccolo, che non ha fretta né bisogno di essere vissuto, che viene centellinato, che può attendere, che un giorno tornerà da me, ma adesso no, che non in questo periodo, devo pensare solo a me stesso, al lavorocarrieramicisoldideeprogetti.

Quando le persone che sono tutto tutto non ci sono, per scelta, per errore, per malinteso, io preferisco stare da sola, per un po’, non per sempre, per analizzare tutte le tracce che hanno lasciato, per fare pulizia, per capire cosa avevo io in meno o cosa ho dato di più.

Allora pratico la mia sporadica misantropia e mi dico che anche da sola sono niente male, che guarda dove sono arrivata, di nuovo tutta intera, nonostante i pezzi che mi hanno strappato e che si sono portati via e che, secondo me, dopo un po’ muoiono e rimane solo un ricordo.

E che peccato! Perché ho capito che io sono veramente una che dovresti tenere sempre sul comodino, che non puoi farcela a stare senza di me. Ci ho messo tutta la vita per capirlo. E oggi non è un giorno di quelli, quindi indosso il mio vestito bianco e metto il rimmel ed esco di casa e ti vengo a cercare.

 

Da oggi metto la testa a posto

A cena, un paio di sere fa, circondate dai gatti, dall’afa e dal magico profumo estivo dello zampirone, Elena e io discutevamo con degli amici del perché dei nostri continui fallimenti amorosi.

Elena è generosa, comprensiva, presente, allegra, espansiva e materna. Non gliene va bene una. Le dicono che è perché è troppo disponibile e, finché non inizierà a farsi inseguire, non troverà mai la persona giusta.

Io sono riservata, dura, cerebrale, pigra, esigente e ironica. Non me ne va bene una. Mi dicono che è perché sono troppo forte e, finché non inizierò a inseguire, non troverò mai la persona giusta.

Poi siamo salite in moto e siamo andate allo Sherwood Festival a mescolarci tra i giovani più giovani di noi, sperando di sentirci meno adulte.

“Secondo te, è vero che sono troppo disponibile?”.

“No. Secondo me è una balla. Non è sbagliato quello che facciamo, è solo una questione di fortuna. Ci vuole fortuna perché le due metà della mela combacino. E ci vuole pazienza. E ci vuole coraggio ad accettare compromessi. E ci vuole forza, ma una grandissima forza, a lasciare andare le persone che non ci vogliono, anche se sono il grande amore, anche se come loro nessuno mai”.

“Allora, che si fa?”

“Boh, io prendo un’altra birra”

“Io bevo troppo. Non ho mica più l’età!”

“Non ti preoccupare. Non lo dirò a nessuno. Questa sera siamo di nuovo noi due di quasi vent’anni fa”.

Anche se al posto del Sì, siamo venute in Ducati. Anche se abbiamo più di cinquemila lire in tasca. Anche se la scuola per noi è già finita da un pezzo. Anche se abbiamo già scoperto che essere grandi non è poi così semplice. Anche se domani ci sveglieremo con un gran cerchio alla testa e ci ripeteremo, convinte, questa volta è l’ultima, da oggi metto la testa a posto.

Mondi nuovi

A vent’anni gli altri sono mondi nuovi. Le persone ti sorprendono, ti insegnano, ti mostrano le cose che non avevi mai notato. E se ti deludono, lo fanno in maniera nuova, in modi che non avevi mai visto né provato. A vent’anni le persone sono prime volte, da gustare, da scoprire, anche quando sono orribili e fanno male.

Crescendo impariamo a capire, a proteggerci, a prevedere. Gli altri diventano categorie, li capiamo con un paio di sguardi, soppesiamo la prima impressione, selezioniamo quelli che ci piacciono e ci somigliano.

Da adulti, gli altri sono linguaggi decifrabili, sono libri da leggere, anche quando sono noiosi o faticosi. Alcuni sono repliche di persone già incontrate, già amate, già lasciate.

È sempre più raro che le persone ti sorprendano quando diventi maturo e corri verso gli ‘anta, tuo malgrado. Eppure accade, in circostanze molto fortunate, di inciampare in due occhi che sono pianeti completamente nuovi, mai visti, mai provati. Incontrare una persona che non riesci a decifrare, alla mia età, è un evento che scuote, è un terremoto, è uno tzunami.

E cerchi di capire e di inquadrare e di cogliere somiglianze e trovare una chiave di lettura e non c’è nulla che possa aiutarti a comprendere la persona speciale. Puoi solo viverla per conoscerla.

È bello e spaventoso stupirsi di un altro. Un altro tanto unico che non ne avevi conosciuti mai così. Un altro che ti ha costretta a usare parole nuove. Un altro che non vuoi perdere. Un altro che diventa una prima volta che conserverai per sempre nella memoria, come il biglietto di quel concerto nascosto tra le pagine del vecchio diario, che sbuca fuori all’improvviso e ti ricorda quanto è bello vivere.

Dodici giorni di pagina bianca

Eravamo tutti occupati a capire come sarebbe andata a finire. La politica era il primo argomento, al bar, in palestra, a cena, a lavoro, in treno, al telefono, al cesso, a letto.

Un’infinita soap opera, ogni giorno un colpo di scena. Come quando scrivi romanzi rosa, in cui hai bisogno di continui mutamenti e sorprese. Che poi sono sempre amarsi/non amarsi, mettersi/lasciarsi, piangere/stare bene, tradirsi/perdonarsi, allontanarsi/ritrovarsi.

La vita, insomma. E la politica.

A furia di aspettare, abbiamo perso la cognizione del tempo. Che giorno è? Quando abbiamo iniziato ad aspettare? Quando finiremo, decideremo, andremo avanti?

Giorni fa ho finito i maledetti colpi di scena. Fisso la pagina bianca da dodici giorni. Dodici. Non ce la farò mai.

Mi dici che è colpa mia, ho perso tempo. Il tempo non lo perdi, non è un mazzo di chiavi che ti cade dalla tasca. Il tempo lo consumi, a volte lo sprechi, altre volte lo vivi, ma non capita quasi mai quando vorresti.

Dici ti amo, ma non possiamo stare insieme e non possiamo vivere separati. Non possiamo andare avanti, non possiamo tornare indietro. È un gran casino. Tu – mi dici – hai combinato un gran casino. E non chiedermi perché. Non me l’aspettavo che andasse così.

Dodici giorni di pagina bianca, due mesi senza governo, sette anni di nuovo vecchio Presidente.

Siamo fuori tempo massimo. È troppo tardi e quando la scadenza arriva sei fottuto. E se sei Superman, fai girare al contrario il mondo e torni indietro nel tempo. Torni indietro anche se hai una DeLorean. Io non ce l’ho una DeLorean. Ho un Sì Piaggio immatricolato nel 1992. Ancora funzionante. La miscela era al 2%. Adesso devi fartela tu da solo. Non ci torna indietro quel Sì, ci ho provato. Fa al massimo 35 km/h, se lo tiri a manetta e ti metti in posizione aerodinamica.

È meglio se non mi muovo e resto qui. Aspetto il colpo di scena. Tanto oggi a Milano piove e a Roma si dimettono tutti e ho comprato le nespole e, se ho davvero perso tempo, lo vado a cercare in qualche cassetto.