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La buona fede

Quell’estate lì, quando ero bambina, i criceti avevano fatto i cuccioli, che erano dei piccoli fagottini di carne rossa, un po’ disgustosi. Ed erano tanti e riempivano tutta la gabbia.

Il gatto infilava la zampetta tra le sbarre della gabbia e provava a rubarli e una volta c’è riuscito e abbiamo trovato la testa del criceto sgranocchiato nella scodella della pappa e abbiamo pianto come se non ci fosse fine alle lacrime.

Allora ho pensato che dovevo difendere i criceti, dovevo proteggerli, metterli al sicuro dal gatto e dai pericoli. Li ho messi in veranda, ho chiuso a chiave la porta, sono tornata a giocare e a vivere la vita.

Poi il pomeriggio è passato, un pomeriggio di un caldo devastante, un caldo napoletano afoso e grasso, e alla sera sono andata in veranda a dare da mangiare ai criceti sopravvissuti al gatto.

E la temperatura della veranda era salita troppo, era diventata incandescente, e forse era mancata l’aria, forse era finita l’acqua, forse il sole batteva troppo sulla gabbia, forse avrei dovuto lasciare almeno una finestra aperta, anche se mia madre diceva sempre chiudi, perché entrano i ladri, perché a Napoli è normale che i ladri entrino in casa e quindi le finestre, quando si andava via, erano sempre tutte sprangate.

I criceti era tutti morti. Quasi tutti. Solo un paio si erano salvati e ansimavano.

Li avevo uccisi io, per difenderli. Li avevo soffocati per proteggerli.

Ero stata una bambina peggiore di un gatto.

Mi sono sentita in colpa per decenni, anche se molti mi hanno detto che non avevo colpa, che non potevo sapere, che volevo fare la cosa giusta.

E a volte mi consolo anch’io, pensando che è la cosa giusta, credendo sia la cosa migliore, sbagliando ogni volta per proteggerti, chiudendoti in gabbia in veranda, per difenderti dai pericoli e per tenerti sempre con me.

Con quell’orrendo alibi che chiamano buona fede.

Il cambio di stagione

Cambiare vita è come cambiare gli armadi a inizio stagione.

È un cambio di stagione emozionale.

Alcune cose, alcune persone le tieni, vanno bene per tutti i periodi, continuerai a indossarle, forse, per tutta la vita.

Altre le butti via o le regali, spesso a malincuore, perché non ti vanno più bene, ti vanno strette, ti vanno larghe, ti cadono troppo male.

A volte ritrovi nel fondo di un cassetto cose o persone che avevi dimenticato, ma che ti piacevano così tanto, allora le rimetti all’aria, decidi di indossarle nuovamente, le porti con allegria.

Altre che ti stanno male, che ti fanno male, ma che ti sono costate così care, le chiudi in un baule, provi a dimenticarle, ma non le butti via, perché prima o poi, lo sai, vorrai indossarle ancora o solo guardarle e toccarle, per sapere che, un tempo, sono state così tanto tue.

Cambiare vita è un faticoso lavoro di rimettere in ordine, togliere, rammendare, lavare e stirare le cose e le relazioni.

Svuotare gli armadi e riempirli di colori nuovi.

E la cosa meravigliosa è che, per riempire di cose belle e nuove i tuoi vecchi armadi, non hai nemmeno bisogno della carta di credito.

Come una libreria Ikea

Finito l’assemblaggio, come a tutte le persone, mi hanno dato un cuore.

Me l’hanno messo lì, appeso al petto, senza spiegarmi come funziona, senza lasciarmi un libretto di istruzioni, senza dirmi come accenderlo e spegnerlo.
Mi hanno detto “usalo” e io pensavo fosse facile, un cuore ce l’hanno quasi tutti, non dev’essere così complicato, insomma, si istallerà da solo, si aggiornerà da solo.

A volte mi è sembrato di usarlo bene. Si gonfiava, faceva entrare le persone, batteva, andava veloce, mi rendeva felice. Altre volte si chiudeva, cacciava tutti fuori, diventava freddo, diventava duro, faceva male. Spesso se ne stava lì, a non far nulla, a non dire niente, a non sentire niente, a non provare niente, calmo, addormentato.

Quando non c’è nessuno dentro, dentro al cuore, le giornate sono tutte uguali, tutte tranquille, tutte senza colori forti, tutte lente. Quando è pieno, ha sempre fretta, ha voglia di cambiare le cose, ha voglia di partire, ma anche di restare, salta dallo stomaco alla gola, scende dalla gola allo stomaco e, di notte, fa così rumore che non riesco a dormire.

All’inizio, lo regalavo spesso a gente che non l’aveva chiesto in dono, che lo guardava e diceva no, grazie, non mi serve questo cuore, puoi riprenderlo. E io lo riprendevo e mi dicevo mai più, mai più regalerò il mio cuore! Dovrete implorarmi, dovrete piangere per avere anche solo un grammo del mio meraviglioso cuore!
E poi, invece, lo regalavo ancora e lo riprendevo e lo regalavo e lo riprendevo.

Crescendo, quand’è diventato un cuore più allenato, ho iniziato a tenermelo stretto, a contrattare ogni minima cessione, a darlo in prestito per poco tempo, a richiederlo indietro quando iniziava a fare male.

In alcuni momenti, per paura di romperlo, l’ho chiuso in cassaforte e lui, senza aria, ha rischiato di morire.

Ogni tanto, qualche zingaro me l’ha rubato per gioco, ci ha passato qualche pomeriggio al sole e poi l’ha abbandonato su una panchina. E ho dovuto percorrere tutta la città, a piedi, per recuperarlo, per pulirlo, per rimettermelo al collo.

Non sono sicura, dopo tanti anni che porto questo cuore, di essere riuscita a capire come farlo funzionare. Spesso sbaglio ancora, lo uso troppo o troppo poco, lo uso troppo presto e, molte sciagurate volte, troppo tardi.

A volte si frantuma. E allora provo a ripararlo.
Con le mie mani piccole incollo le schegge minuscole, le rimetto tutte insieme, copro i buchini invisibili e ci soffio sopra, aspettando che la colla si asciughi.

Ma quando le fratture sono grandi, mi serve tanta forza per riattacarle insieme. Mi servono mani più grandi, tipo le tue, che tengano stretti i due pezzi squarciati, uno contro l’altro, e che facciano forza, fino a quando la pressione non li aggiusta e la frattura è solo una linea sottilissima, una cicatrice che, col tempo, non noterò nemmeno più.

In fondo, ecco, è questa la cosa che ho imparato: a volte bisogna essere in due per riuscire a usare un cuore.

E se mi avessero dato quel maledetto libretto di istruzioni, forse ci sarebbe anche stato scritto, che per usare un cuore è meglio essere due. Come c’è scritto sulle istruzioni della libreria dell’Ikea, che ti fanno anche un disegno di due omini per spiegarti che da solo sarebbe troppo complicato montarla, e tu ci provi sempre a farlo da solo, ma mica ci riesci, allora mi chiami e ci mettiamo lì, con la brugola e le viti, a seguire tutti i passaggi e a lavorare, lentamente, insieme.

Come quelle donne

Avrei voluto essere come quelle donne leggere, che hanno i sorrisi che coinvolgono, che hanno gli occhi chiari che brillano. Quelle donne dolci, che sembrano eterne ragazzine, che parlano sottovoce, che ridono per le sciocchezze, che piangono per le canzoni d’amore. Avrei voluto essere come quelle donne fragili, che devono essere protette, che devono essere difese, quelle donne che ti fanno sentire forte, che ti fanno sentire uomo. Avrei voluto essere come quelle donne che sbagliano, ma si perdonano sempre, che dimenticano in fretta, che ti lasciano con il cuore a pezzi, ma non si sentono in colpa. Quelle donne che sono il centro del mondo, che sono le regine della festa, quelle donne facili da amare, quelle donne semplici. Avrei voluto essere come quelle donne che parlano a chiunque di sentimenti, che si innamorano con un bacio e smettono di amare all’improvviso, senza rimpianti. Avrei voluto essere come quelle donne che sanno mentire, che sanno mentire a se stesse, che sanno dimenticare, che bevono con le amiche e tutto passa, che ballano sotto la luna e tutto è a posto.

Avrei voluto non dover fare sempre la cosa giusta, non avere le spalle forti, non dover difendere e difendermi, non dover sempre lottare. Avrei voluto perdonarmi, riuscire a dimenticare, avrei voluto saper mentire, avrei voluto saper scappare. Avrei voluto essere meno dura, meno saggia, meno forte. Avrei voluto affidarmi agli altri, essere quella che sbaglia e non quella che aggiusta, essere quella che distrugge e non quella che costruisce, essere quella che sbanda e non quella che regge.

Avrei voluto essere come quelle donne e sono come me, e non l’ho scelto. E non si può cambiare quello che abbiamo così dentro, dentro l’anima. E non si può scegliere di essere diversi da noi stessi.

Ma tu, tu che mi sei accanto tutti i giorni, tu mi hai scelta. Hai scelto me che non sono facile da amare, hai scelto me che porto sulla schiena il peso di tutto il fottuto mondo, hai scelto me che sono sempre in battaglia, che non smetto mai di pensare, che osservo troppo le persone, che capisco troppo, che non mento mai, che pretendo non mi si menta mai. Hai scelto me mille volte e poi ancora e ancora.

E fino a quando continuerai a scegliermi, sarò la donna migliore che posso essere.

Tutte le altre vite

C’è che io le scelte che non ho fatto, le decisioni che non ho saputo prendere, le storie in cui non ho avuto il coraggio di tuffarmi le vivo tutte nella mia testa.

Passo giornate intere, nella mia fantasia, a continuare amori mai nati, a fare lavori che non ho fatto, a dire frasi che non ho mai detto, a costruire castelli in cui non ho abitato, a baciare bocche che non ho baciato, a prendere treni che non ho preso, a scrivere frasi che non ho scritto, a sorridere nei momenti giusti, a dire resta a chi, invece, se n’è andato, a dire ti amo al posto di gridare ti odio, a dire proviamo al posto di finiamo, a essere felice invece di essere triste.

Passo giornate intere a vivere la mia vita e le vite che non ho vissuto, tutte insieme, tutte nel cervello, negli occhi e nel cuore.

Passo giornate intere a vivere così tanto che poi, la sera, sono distrutta.

Ma non riesco mai dormire, perché, di notte, c’è tanta, ancora tanta vita perfetta da immaginare.

Non di martedì

Quando mi sono trasferita a Parigi, un terzo di vita fa, Roberto ha iniziato a scrivermi delle lunghe lettere.

Ci scrivevamo le lettere quelle di carta, quelle che arrivavano quando decideva la posta, tutte un po’ sgualcite, ma che sapevano di viaggio, di distanza, di attesa. Erano lettere con la calligrafia nervosa o serena, lettere che dicevano più delle parole scritte, che raccontavano la stanchezza delle mani o l’allegria delle dita, che dicevano se ero stata in cartoleria a scegliere la carta o se l’avevo strappata da un quaderno durante una lezione di ebraico particolarmente noiosa.

A volte, nella fretta di raccontarci cose, le lettere successive partivano prima di ricevere le risposte e le cose da dirci, i pensieri che dovevamo per forza condividere, che non potevamo non far sapere all’altro, si confondevano. E dovevamo rileggere le vecchie lettere per capire, per ricostruire.

Spesso ci mettevo un po’ a decifrare una parola, studiavo la calligrafia da ingegnere di Roberto per intuire cosa significava uno sgorbio, se un tratto aveva un senso o era solo uno sputo di penna lasciato lì, a fissarmi dal foglio.

Ricordo che una volta, dopo aver spedito le mie ansie e i miei dubbi per posta aerea, arrivò una busta blu, piena di fogli, fogli tutti pieni di parole, parole tutte scritte fitte fitte, avanti e dietro, in tutte le pagine.

In quella lettera dalla busta blu, Roberto aveva capito le cose, aveva preso tutte le paure che mi si erano attaccate come sanguisughe al cuore e le aveva staccate e poi schiacciate, aveva lisciato i miei progetti accartocciati e li aveva messi al sole, aveva fatto entrare aria nella mia testa di ventenne arrabbiata e aveva fatto uscire i pensieri belli, in volo. Mi aveva raccontata in quelle pagine e mi aveva permesso di leggermi, con le parole sue, nei miei occhi, sulla sua carta, nei miei pensieri.

Roberto mi aveva lasciato una traccia, mi aveva scritto dentro, in quella lettera che ho riletto due, tre, quattro, mille volte.
Aveva saputo leggermi, sbirciando con discrezione sotto la mia corazza che credevo impenetrabile. Aveva fiutato i sorrisi, capito i silenzi, ascoltato, osservato. E poi aveva usato una penna biro blu per cancellare la mia tristezza e camminare un po’ come me, nella tasca del mio cappotto leggero, nei tramonti sul Quai de Seine.

Ci sono state altre lettere, poi gli abbracci, poi le sbronze, poi le fughe, poi i ritorni, poi le altre lettere. Un giorno abbiamo iniziato a usare l’email. Lui dall’università, io dalla biblioteca.

Poi, anni dopo, è stato tutto più difficile. È stato difficile leggersi, è stato difficile capirsi.
Un giorno volersi bene è diventato più faticoso che non volersene, a due come noi, che si erano guardati dentro dentro, che si erano capiti così tanto, che si erano cercati tante volte perché stare lontani era un pensiero osceno.

Un giorno che non c’erano più chilometri tra di noi ci siamo accorti di essere tanto, troppo distanti.

Ma questa è un’altra storia, che non parla di lettere.
Quest’altra storia parla di distanze, di amicizia e di amore.
E io non so parlar d’amore il martedì.

Le parole tue

Il primo anno di università ero diventata grande amica di Matteo.

Avevamo gli stessi gusti musicali, gli stessi gusti letterari, gli stessi gusti cinematografici.

Matteo diceva sempre cose bellissime che non erano parole sue, erano parole prese dai libri che amavamo, dai film che ci avevano fatto sognare, dalle canzoni che ascoltavamo dalla mia vecchia radio rotta, che avevo riparato con lo scotch e gli adesivi con la falce e il martello.

Passavamo ore al caffè in campo dei Frari, tra una lezione e l’altra, a emozionarci per quelle parole che sembravano fatte per noi, dette da noi, scritte proprio come se nella penna ci fossero stati i miei capelli neri neri e i suoi occhi grigi.

E tutti gli altri amici conoscevano quelle parole, le ripetevano, ce le cantavano, in quelle sere veneziane stanche di chitarra, canne, vino cattivo e splendidi vent’anni.

Una notte piena di bellissime parole, ci siamo baciati e siamo stati lì in silenzio, nel silenzio dei baci, tutta la notte.

Non ne abbiamo mai parlato e, ogni volta che ci tornava in mente, all’improvviso, ci guardavamo e stavamo zitti ad ascoltare il rumore leggero dei pensieri.

E poi sono passati i mesi e gli anni, Matteo si è fidanzato con una delle mie più care amiche dell’epoca. Penso fossero felici insieme. I nostri silenzi sono finiti, un giorno, così come sono iniziati e, lentamente, Matteo è sparito insieme ai vent’anni.

Ieri, mentre passeggiavo senza sapere dove andare, trascinandomi dietro le mie inquietudini mascherate dal volume alto della musica, la selezione casuale dell’iPod ha scelto una di quelle canzoni lì, quelle di tanti anni fa, piene di parole meravigliose che Matteo mi diceva tra le calli notturne, piene soltanto di luce di luna.

Ho pensato a lui, dopo così tanti anni, dopo così tanta distanza. E ho capito, infine, perché quella vicinanza perfetta, nonostante il nostro grande bisogno e desiderio, non è mai diventata amore.

A Matteo e me sono mancate le parole nostre, le parole pensate, scritte e dette da noi, le parole imperfette e forse sbagliate, le parole piccole, ma uniche, le parole che nessun altro poteva usare per l’amore, solo noi.

Nel timore che quella storia mai nata potesse non essere perfetta come le parole che amavamo, abbiamo semplicemente preferito non raccontarla.

Avrei voluto dire tutto questo a Matteo, ieri, dovunque lui fosse, dirgli che ho trovato le parole per dirti perché non abbiamo mai avuto parole, le parole che avrei dovuto dirti, che avresti dovuto dirmi, in quei silenzi infiniti, faticosi e immobili.

E ho pensato a lui ancora un po’, passeggiando per la città fredda. Poi la musica è cambiata e il ricordo si è allontanato e camminando ho ascoltato altre parole e ho pensato ad altre storie, alcune non scritte, altre abbozzate, altre finite e poche, pochissime perfette.

L’oublié

Il mio ex parigino, di cui non avevo notizie da 10 anni, mi ricontatta su facebook qualche giorno fa per invitarmi a un pic-nic al parc des Buttes-Chaumont per il suo compleanno.

Sono riuscita a superare la sorpresa per il bizzarro invito e quella di vederlo in salute, nonostante l’abuso di droghe negli anni passati.

Quello che proprio non riesco ad accettare, in lui come in tutti i miei ex, è che si sia permesso di sopravvivere senza di me.

Certe persone dovrebbero finire quando finisce l’amore.
E rimanere taggate solo nei ricordi.