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Donnissime a Milano

Amiche e amici milanesi, se la “fescion uik” non vi ha risucchiato anche l’anima, ci vediamo domani, venerdì 23 settembre, alle 18.30 al Mondadori Megastore di via San Pietro all’Orto per chiacchierare di Donnissima, il mio nuovo favoloso romanzo.

Insieme a me, Mafe De Baggis, che in gergo chiamiamo una “femminona”.

Vi aspetto tutti per festeggiare insieme. Segnatelo subito sulla Smemo!

Presentazione Donnissima

E se siete curiosi di sapere di cosa parla il libro, ve lo racconto in sei minuti in questo video.

Reportage dal concertone di RadioItalia, come fanno quelli bravi.

Ieri sera sono stata assoldata da Toyota come inviata al Concerto di RadioItalia in piazza Duomo. Come tutti i bravi inviati, ho fatto domande scomode in giro (scusi, dov’è il rinfresco?), paparazzato e preso appunti.

Eccovi il reportage fotografico di uno degli eventi più divertenti e affollati di Milano, subito dopo la metro verde nell’ora di punta.

L'anonima location dell'evento.
L’anonima location dell’evento con una minuscola Alessandra Amoroso sul palco.

Il concerto di RadioItalia è il concertone della musica italiana, quello in cui ci sono i più bravi cantantoni del Paese, in cui canti tutte, ma proprio tutte le canzoni, senza bisogno di inventarti le parole in finto inglese, in cui porti la tipa che ti piace perché dopo di sicuro te la dà e in cui si ritrovano per fare festa insieme tutti i giornalisti/blogger/personaggioni/produttori/speaker radiofonici/wannabe.

I bravi presentatori che l'anno prossimo verranno sostituiti da Dania&Claudio.
I bravi presentatori che l’anno prossimo verranno sostituiti da Dania&Claudio.

A rappresentare l’ultima categoria, c’ero io insieme al mio amico Claudio Mastroianni, omonimo – per puro caso – di un amatissimo personaggio dei miei romanzi e compagno di mille e più avventure.

Rimasti di sasso alla richiesta di Gianna Nannini di farle da coristi.
Rimasti di sasso alla richiesta di Gianna Nannini di farle da coristi.

Lo sponsor ci aveva fornito un invidiabile pass che, oltre a dare accesso alla zona sotto al palco, soprannominata VIP RING (mica cotiche!), ci permetteva di bivaccare nella terrazza del ristorante di Giacomo Arengario, al terzo piano del Museo del Novecento, dove era stato allestito un rinfresco, con un commovente open bar.

La distesa di essere umani immortalati dalla terrazza del Museo del Novecento. Densità di popolazione di Pechino.
La distesa di essere umani immortalati dalla terrazza del Museo del Novecento. Densità di popolazione di Pechino.

Col nostro pass, però, non potevamo accedere alla zona più “calda” (nel senso proprio di temperatura) dell’evento, il backstage, e per riuscire a scucire foto piccanti con gli artisti, Claudio e io abbiamo utilizzato una tecnica di cui siamo ormai padroni indiscussi: l’imbuco.
Dopo aver eluso più di un bodyguard con il nostro fascino magnetico e con più di una supercazzola prematurata con doppio scappellamento a destra, ecco i meravigliosi (quasi)selfie rubati durante la serata.

Nesli insiste per fare una foto con noi, dal gusto retrò.
Nesli insiste per fare una foto con noi, dal gusto retrò.
Noemi esce dal camerino di Fedez, dove s'era imbucata per scroccare tramezzini.
Noemi esce dal camerino di Fedez, dove s’era intrufolata per scroccare tramezzini.
Fedez esce per rincorrere Noemi e viene subito circondato da elettori di Gasparri.
Fedez esce per rincorrere Noemi e viene subito circondato da elettori di Gasparri.
Ha poi insistito tantissimo per un quasiselfie con la sottoscritta.
Ha poi insistito tantissimo per un quasiselfie con la sottoscritta.
Ah, c'era anche Claudio...
Ah, c’era anche Claudio…
Per non parlare del Photobombing di Lorenzo Fragola! Te lo ritrovavi in tutti gli scatti.
Lorenzo Fragola era il genio indiscusso del photobombing. Te lo ritrovavi in tutti gli scatti.
Ligabue ha preteso un primo piano di tutto rispetto, per il suo quasiselfie.
Ligabue ha preteso un primo piano di tutto rispetto, per il suo quasiselfie.
Mentre Gianna Nannini, nostra grande fan, aveva dato disposizione ai suoi bodyguard di tenerci a distanza di almeno 10 metri dal suo track.
Mentre Gianna Nannini, nostra grande fan, aveva dato disposizione ai suoi bodyguard di tenerci a distanza di almeno 10 metri dal suo truck.
Al calar delle tenebre, ci siamo ritirati in terrazza, ad ammirare lo splendido panorama e a gridare alla folla "mangino brioche!".
E al calar delle tenebre, mentre cantava Mengoni, dopo ore di divertimento, ci siamo ritirati in terrazza, ad ammirare lo splendido panorama e a gridare alla folla “mangino brioche!”.

Grazie Toyota Italia per la bellissima serata. Siamo già pronti per la prossima avventura! (Anche se Claudio non ricorda dove ha parcheggiato l’AYGO, ieri sera…).

Cosa ricorderò più a lungo di questo concerto? MA CHE DOMANDE!
Quando sono rispuntati bomber e anfibi e abbiamo solennemente ricordato gli anni ’90.

Sei un mito, Max!
Sei un mito, Max Pezzali!

 

Mi sono affacciata alla finestra e ho visto le montagne

Non avevo mai notato che dalla finestra della mia camera da letto si vedessero le montagne.
In lontananza, che spiccano fiere a toccare le nuvole basse.
Mi sono sempre fermata a guardare la strada e i suoi passanti, il campo da tennis che d’estate lasciano scoperto, il giardino con gli alberi già in fiore e poi i palazzi, i tetti di tegole di Milano e le piccole terrazze usate come avamposto da vedette sempre di fretta, sempre in guerra con i ritmi cittadini.
Non avevo mai allungato lo sguardo al di là delle gru, del grattacielo che sale dalle mura spagnole, oltre il rumore delle auto e dei motorini che sfrecciano veloci.
Oggi mi sono fermata a fissare fuori per rimettere a posto le idee, per prendermi una pausa, per sistemare i pensieri che non vogliono prendere forma, e le ho viste.
Sono sempre state lì, in questi intensi anni e dolorosi e belli passati in questa città?

Quante volte limitiamo il nostro sguardo a quello che ci sta intorno e non proviamo a guardare oltre. Quante volte ci sentiamo perduti perché non riusciamo a immaginare che ci sia molto altro oltre il nostro piccolo mondo. Quanto spesso non siamo in grado di cogliere soluzioni e opportunità perché ci dimentichiamo di alzare la testa dalle nostre abitudini rassicuranti.

E basta un solo attimo di felice distrazione per scoprire che all’orizzonte c’è così tanta grandezza ancora da esplorare.

Se ti concentri, li vedi in lontananza anche tu.
Se ti concentri, le vedi in lontananza anche tu.

Il DNA della procrastinazione

Sono un’amante della procrastinazione.
Credo che tutto quello che può essere fatto domani, senza o con poco danno, non meriti di essere sbrigato oggi. Mi piace passare il tempo a sentirmi in colpa per le iniziative che non prendo, per i lavori che non finisco, per le pagine che non scrivo. Salvo poi recuperare tutto sotto scadenza, ridurmi all’ultimo minuto, cuore in gola, per accorciare le distanze.
Si nasce procrastinatori, è nel nostro DNA.
Quelli come me, che spostano sempre un po’ più in là la fine temporale di qualsiasi evento, non potrebbero mai vivere iniziando subito, adesso, in fretta, quello che necessita di lunga, inutile e pigra pianificazione.

L’altro ieri, dopo aver – appunto – procrastinato per quasi due mesi, ho deciso di portare il mio vecchio e fidato iPhone 4S in un centro di riparazioni cinesi, per risolvere un paio di problemi che cominciavano a renderlo utile come una piastrella del bagno. E visto che avevo rimandato di ora in ora il mio rituale appuntamento con la palestra, mi sono detta che avrei potuto unire l’utile al dilettevole, arrivando a piedi in Via Paolo Sarpi.
C’era il sole, l’aria fresca e Milano era bella, quella bellezza intima, che vedi perché ami questa città, te la sei scelta, hai capito che è più tollerante di tutte le città italiane in cui hai vissuto, compresa quella in cui sei nata.
Ho camminato per cinque chilometri, con la testa al contacalorie bastardo che da una settimana mi ricorda che i vizi di gola si pagano, come quelli di gioco. Ho camminato tanto, ascoltando la musica, scoprendo luoghi e locali che non avevo mai visto, annotandoli nella mia mappa interiore e poi sono entrata nel bugigattolo che amo, quello in cui risolvono i tuoi problemi in fretta e a poco prezzo, gli ho lasciato il telefono e il nome e mi hanno chiesto di passare a ritirare tutto dopo un’ora. E io ho pensato “che bello, un’ora intera di passeggio per la splendida Chinatown. Un’ora per guardare vetrine, osservare la gente, rilassarmi”.
Dopo essermi allontanata di pochi passi dal negozio, ho istintivamente toccato la tasca del parka in cui tengo sempre il telefono e ho avuto un sussulto.
Era vuota.
Era ovviamente vuota perché avevo appena lasciato l’iCoso in assistenza, ma era incredibilmente vuota di senso. Che ore erano? Come facevo a sapere quando sarebbero passati sessanta minuti, se l’unico orologio è sul telefono? Cosa avrei fatto in quel frammento improvvisamente lungo senza Twitter, Facebook, Whatsapp? Che scopo aveva passeggiare in una Milano benedetta dal sole se non potevo fotografarla e postarla su Instagram?
Mi capita spesso di spegnere il telefono, soprattutto quando scrivo, perché i social network sono i nemici della scrittura, ti rubano il tempo, ti fregano l’attenzione. Spengo il telefono quando sono in viaggio, quando sono in palestra, quando sono triste e non voglio parlare. Ma l’ho sempre con me. Ho sempre la sua rassicurante presenza fisica, come se fosse un organo che posso non usare per lungo tempo, ma che devo avere vicino perché mi serve per vivere. Un po’ come il cuore.
Ero nuda, senza il mio mondo amplificato, in un posto che amo e che mi è sembrato improvvisamente misterioso, difficile, sconosciuto.
Per un paio di minuti mi sono sentita frastornata. Poi ho continuato a passeggiare, ho notato un orologio su un palo e ho annotato mentalmente l’ora, ho cominciato a muovermi con passo inspiegabilmente veloce, ho sbirciato le scarpe esposte in un paio di negozi, comprato della frutta, guardato la gente indaffarata che sembrava sapere esattamente cosa fare e non dover aspettare, come me, un’ora incredibilmente lunga, seppur breve, per riavere in mano il mio piccolo mondo.
Siccome il tempo che ogni giorno corre, mi sfugge via, si esaurisce troppo in fretta, quel pomeriggio sembrava non scorrere mai, per ingannare l’attesa mi sono seduta al tavolino di un bar, ho preso uno, poi due caffè, ho tirato fuori dalla borsa un libro, ho iniziato a leggere. E allora tutto è tornato al proprio posto, l’ansia dell’irreperibilità svanita, la stanchezza per la camminata alleviata, il terrore delle scadenze evaporato, il fastidio di non poter scrivere a tutto il mondo “sono seduta a un bar a leggere” dissolto.

Le storie belle, che leggi, che guardi, che ascolti sono lo strumento più potente per superare la paura del tempo, la paura della solitudine, la paura del vuoto di senso. E non c’è nulla di sbagliato o spaventoso nello scendere qualche istante dalla giostra del mondo che gira troppo velocemente e prendersi una pausa, facendo qualcosa che ti fa stare bene.

La luce è calata quasi di colpo. Ero seduta al tavolino da forse troppo tempo. Quando sono tornata nel negozio c’era molta coda al bancone. Il telefono era stato riparato. Ha anche una batteria nuova, che dura più delle due ore della precedente. L’ho preso e l’ho rimesso in tasca, cercando di dimenticarmene mentre andavo verso la fermata del tram. Ma quando sono entrata nel mezzo e mi sono seduta, l’ho tirato fuori e, con una sottile punta di delusione, ho capito che il mondo aveva girato lo stesso senza che io partecipassi a tutto, senza che fossi connessa per un paio di ore.
Sono arrivata a casa, mi sono accorta di aver passato tutta la giornata, un’altra, senza scrivere nulla, ho segnato in agenda un’altra virtuale scadenza nella scadenza per rimettermi in riga, ho nutrito il gatto, guardato fuori dalla finestra la notte che arriva sempre un po’ più tardi, ho ritirato il libro fuori dalla borsa, tolto la suoneria e ho continuato a leggere fino all’ultima pagina.

Il rosso in tour

Domani (13 dicembre) alle 18, mi trovate al Fashion Camp – Christmas Edition, in via Asti 17 a Milano, per una bellerrima presentazione di A noi donne piace il rosso, accompagnata dagli smalti rossi rossi di TNS in omaggio per tutte e seguita da allegro brindisi.

A noi donne piace il rosso

Il 19 dicembre sarò alla Mokeria di Porto Sant’Elpidio, per chiacchierare di vino, amore e donne e per firmare copie.
C’è sempre un brindisi.
Che fai, non vieni?

E se non avessi ancora letto il libro, puoi correre in libreria o comprarlo qui (anche in ebook).

Regalalo a tutte le tue amiche a Natale: crea dipendenza, ma di quella buona!

Update del 15 dicembre: l’evento marchigiano è stato annullato. Il 19 mi trovi a Padova, in piazza a bere prosecco.

Milano è stata nostra

Invece di fuggire come tutti, siamo rimasti a difendere la città dall’esodo ferragostano.

Il cielo è limpido e azzurro, che non sembra nemmeno Milano, e soffia un vento fresco leggero, di quelli che ti carezzano dolcemente mentre ti godi la pennica del pomeriggio.

C’è il silenzio, nelle strade, nei parchi, nei pochi locali aperti. Quel silenzio gentile, interrotto da poche chiacchiere, da qualche ruota che solca la strada, dal rumore dei binari del tram.

La città fantasma ha pochi superstiti, che si ritrovano nei punti di ristoro ancora aperti, nei quartieri più popolari, dove le ferie sono un vezzo e non una necessità.
Siamo andati a mangiare in quel ristorante cinese buonissimo, di quelli che non fingono di essere di Tokyo e non ti cucinano riso bollito e salmone invitandoti a mangiare tutto il sushi che vuoi.

Siamo stati bene e poi abbiamo camminato tanto per trovare un bar aperto, dove bere un caffè.

E quando ti ho salutato, mi sono infilata in un supermercato per fare qualche provvista per i prossimi giorni, quelli da passare segregata in casa a scrivere un libro intero, senza distrazioni.

Un supermercato della stessa catena di quello in cui mi servo io, con gli stessi prodotti, con lo stesso odore, però diverso: la disposizione degli scaffali, la metratura, la grandezza, le facce dei commessi, la distanza dalle casse.

È stato come se avessero preso le cose che conosco, le avessero mescolate nel panaro della tombola e le avessero risputate fuori, un po’ a casaccio.

Spaesata. Ci ho messo un’eternità a comprare tonno e pomodori, tra le cose che conoscevo, disposte in un modo che non riconoscevo.

Come quando tua madre viene a trovarti, dopo tanto tempo, e ti sistema la cucina, senza che tu glielo chieda, e ordina tutto con la sua logica e quando ti serve un apribottiglie non lo trovi più e ti viene voglia di spaccare tutto.

La città vuota è uno spazio familiare in cui ti senti un po’ estraneo. I confini non sono delimitati dagli altri esseri umani, i marciapiedi sono sgombri da tavolini e biciclette e moto, nella metropolitana trovi sempre posto a sedere, le saracinesche chiuse ti ricordano che non hai bisogno di niente, la palestra è in ferie e vai a correre per le strade solitarie.

È stato bello conquistarla insieme a te, questa città che ci ha fatto innamorare e che ieri sembrava nostra.

Tra poche ore torneranno gli esuli e rioccuperanno il loro spazio e Milano smetterà di sorridere e tornerà a lavoro e noi continueremo a scrivere, fino al giorno della consegna, quando ci affacceremo per le strade affollate e sogneremo di fuggire via, lontano.

Diventare oggi

Ti è mai capitato di stare bene?

Bene come in quelle sere che non hai impegni e poi torni a casa tardissimo, che chiacchieri con gli sconosciuti e ti accorgi di avere mille cose da raccontare. Quelle sere che non importano i rotolini di grasso, il trucco sbavato, il capello spettinato. Tu mangi due, tre gelati, bevi vino e sorridi e ti senti bella e sei bella e non importano età, peso, taglia, colore, firma degli abiti, abbinamenti.

Ti è mai capitato di sentire che tutto torna?

Che le domande hanno le loro risposte, che i silenzi hanno tutti una musica, che i visi sono pieni di sorrisi, che domani non ci saranno solo timori, ma speranze, che oltre la fatica di essere, c’è il desiderio e l’allegria di esistere.

Ti è mai capitato di essere dove dovresti essere?

Non un passo indietro, non uno avanti. Qui. Ora. In un luogo e in un tempo che sono tuoi, nonostante gli ostacoli, nonostante i pentimenti e i sensi di colpa e i no e le porte chiuse in faccia e i fallimenti.

Tutto è andato come doveva andare.

E all’improvviso non sei troppo né sei troppo poco. Sei tu. Precisa, come dovresti. Sei energia che riempie gli spazi, sei la luce che invade le stanze, sei l’aria che sposta le tende alle finestre, sei il movimento che attira l’attenzione.

Sei. il. piccolo. centro. del. tuo. grande. mondo.

Ti è mai capitato di stare bene?

A me è capitato. Quando nemmeno me l’aspettavo. Senza preavviso. Ed era notte a Milano e c’era la luce e i venditori di rose e l’ultima metro che mi ha aspettata prima di chiudere le porte e le nuvole che minacciavano pioggia e il telefono con ancora un po’ di carica e domani che aveva fretta di arrivare. La fretta di diventare oggi.

Rimasugli di te

C’è stato un lungo periodo della mia vita in cui scrivevo soltanto quando stavo male. Diari, che portavo sempre con me, e lettere, tantissime lettere, di quelle di carta, che in questo momento mi mancano così tanto.
Mi è capitato, tempo fa, di ritrovare tutti i quaderni che avevo riempito con la mia brutta calligrafia disordinata, di risfogliarli e di non riuscire a rivivere le emozioni e i sentimenti che provavo allora. Non perché non sia ancora in grado di provare la più profonda tristezza, di vivere con una saudade continua o con il terrore che il meglio sia già perduto, ma perché, credo, di aver cambiato pelle così tante volte, da essere una persona completamente diversa.

Ogni trasformazione, anche la più drastica, ti lascia addosso un residuo della persona che eri. Qualcosa di cui non riesci a fare a meno, perché non sai nemmeno che è una tua particolarità. Puoi imparare a vestirti, camminare, parlare, mangiare, lavorare in mille maniere diverse. Puoi imparare ad amare e amarti in modi che non avevi mai immaginato. Puoi cambiare gusti, scoprire di gradire il caffè decaffeinato e di non essere più in grado di mangiare maionese, di trovare attraenti i ragazzi con i capelli lunghi e detestabili gli intellettuali. Puoi cambiare desideri, volere a tutti i costi una casetta in periferia, invece di un appartamento in centro, una vacanza in montagna, invece dell’estate a Ibiza, un figlio, invece della pancia piatta.

Ma non riuscirai mai a cancellare quel rimasuglio di te che compone la tua parte più segreta.

Uno dei miei rimasugli è il senso di colpa. Per tutto. Per quello che mi succede e per quello che non accade. Per i fatti del mondo e per quelli del mio orticello. Per le scelte che ho fatto e per quelle che non ho mai preso. Per gli errori, per i traguardi, ma non quelli giusti. Per l’irruenza, l’istintività e per l’accidia e la pigrizia.

E non mi è chiaro se penso sempre di non meritarmi le cose o se sono convinta di non aver fatto abbastanza per meritarmi di più.

Possono cambiare le circostanze, l’amore, il lavoro, i debiti, le città, gli anni, gli amici fidati, i desideri, le passioni, la taglia dei pantaloni, le idee politiche, la musica preferita, ma il rimorso e il rimpianto non mi abbandonano mai.

L’altro residuo dell’autentica me è il nomadismo, il desiderio di spostarmi spesso, il bisogno di iniziare in continuazione, perché gli inizi contengono promesse di felicità, speranze, passione. Appena una casa o un posto mi diventano familiari, ho voglia di ripartire. C’è così tanto mondo da vivere e così pochi anni in una vita!

Ultimamente ho conosciuto persone che non si sono mai spostate troppo dal loro quartiere. Non dal loro paese, dalla regione, dalla città… Dal quartiere.

Non riesco a capire cosa si prova a non desiderare di voler provare a vivere altrove. Però ho capito una cosa importante. Mentre un tempo pensavo di aver cambiato così tante città da non avere più una “casa”, adesso mi rendo conto che, al contrario, sono a casa mia in tantissimi posti. Tanti posti che non credevo sarebbero diventati così tanto parte di me.

A volte penso che vorrei scrivere di questo. Far vivere ai miei personaggi quello che ho provato. Usare un po’ di autobiografia tra le mie righe.
Vorrei tornare a scrivere come in quelle lunghe lettere che inviavo ogni volta che cambiavo città, che mandavo ai vecchi e nuovi amici, che rileggevo due o tre volte prima di spedire e non rivederle più, che mettevano in ordine i miei pensieri e poi sparivano. Quelle lettere che non potrò più sfogliare e che forse, proprio per questo, contenevano le parole più importanti, che non sono state scritte per un sollievo futuro, ma per il bisogno di raccontare e basta.

È bella la primavera, della finestra della mia camera. Quella finestra a cui da poco ho messo le tende, non per tenere il mondo fuori quando le chiudo, ma per scoprirlo ogni volta che le apro.

Tutte le cose che non sono te

Chissà cosa ci spinge ad associare momenti della nostra vita all’accumulo di determinati oggetti.
Da piccola amavo le cartolerie. Girare tra scaffali di quaderni, matite, gomme da cancellare, cartelline mi faceva sentire in pace con il mondo. L’odore della carta, così confortante, come ogni volta che entri in una libreria e sai che sei circondato da buona compagnia.

Pochi giorni prima di iniziare la scuola, mia madre ci portava da Amodio a Port’alba per comprare diari, astucci, penne e tutte le armi che ci sarebbero servite per affrontare classe, insegnanti e materie. Lo zaino no. Ché ho avuto lo stesso Jolly Pro dalla prima media alla quinta superiore, trattato con rispetto, conservato come un cimelio.

Era bello. Perdevo la cognizione del tempo. Amavo soprattutto l’idea che la maggior parte di quegli oggetti avrebbe scandito il tempo che passava: smemorande che segnavano i giorni che mancavano al Natale, le matite da temperare fino al mozzicone, le gomme da cancellare che si consumavano piano. Finire le cose. Esaurire l’inchiostro delle Bic, scrivere fino all’ultima pagina dei quadernoni. Non so spiegarlo. Mi faceva stare bene.

Quando è arrivata l’adolescenza e sono stata portata a Padova, mio malgrado, ho iniziato ad amare le profumerie. I rossetti scuri, lo smalto, gli ombretti viola. Provare sul dorso mano le tonalità. Spruzzarsi profumi da uomo per sentirsi più trasgressive. Rubare i tester dei prodotti troppo cari. Andare con le amiche a cercare di mascherare il disagio di crescere.

E poi il periodo dei CD, il periodo dei braccialetti etnici, quello dei libri delle edizioni ES e quello delle scarpe.

Stamattina leggevo un articolo che spiegava che l’età adulta non esiste più. Siamo abituati a sentirci giovani fino a quando non diventiamo anziani. Posticipiamo il tempo delle responsabilità. Facciamo figli quasi fuori tempo massimo. Restiamo a casa dei genitori a lungo, a volte per necessità, molto più spesso per scelta. Un governo di cui l’età media è 47 anni è considerato un governo “giovane”. A 40 anni sei un ragazzo. A 50 sei giovane. Dovrebbe consolarci, l’allungamento di una presunta età dell’oro. E invece no. Dall’età infinita della minigonna alla menopausa, senza soste intermedie. Traumatico. Deleterio.

Io invece sono diventata adulta. Me ne sono accorta quando ho smesso alzare la voce. Quando durante uno scontro mi fermo e lascio perdere. “Come ti pare”. Quando ho capito che molti dei miei errori non dipendono dagli altri. Quando mi sono resa conto dei miei limiti. Quando ho capito che non sempre ce la posso fare da sola.

Sono diventata adulta quando ho iniziato ad accumulare tazze. Prese in viaggio, scelte con cura all’Ikea, fatte personalizzare con foto o scritte simpatiche, comprate ai festival, con la data che ricorda “io c’ero”. E quando, finita la convivenza, sono tornata a vivere da sola, ho cominciato a bere una moka da due intera, ho accantonato le tazzine e ho iniziato a usare solo tazze. Ho la mia preferita da caffè, che non metto in lavastoviglie e lavo sempre a mano. Ho quelle da tisana, quelle per i cereali, quelle che non uso spesso perché la forma o lo spessore non mi piacciono, quelle in cui offro il tè agli amici.
Ho due ripiani della cucina strapieni di tazze. E quando ne vedo qualcuna in un negozio di casalinghi, magari color malva o con una forma strana o con il manico buffo o di un materiale nuovo, devo fare uno sforzo per non acquistarla.

L’età della responsabilità è quella delle tazze.

Ho imparato a rinunciare agli oggetti quando ho dovuto affrontare grossi lutti. E tutti i traslochi. Le cose non ti danno un’identità. Pensare che un oggetto possa essere la forma di un ricordo, spesso, non sempre, ma spesso ti fa dimenticare che la memoria ti seguirà nel mondo senza bisogno di materia. Tu non diventerai quello che lasci e quello che lasci non sostituirà mai te. Sei solo quello che riesci a portarti sempre dietro, compresi affetti, dolori, gusti, idee, affanni, sorrisi.

Poche cose sono con me da tanto tempo. La maggior parte si sono fermate nei vecchi appartamenti, a casa di mia madre, da qualche amico, in garage, nelle stanze di qualcuno che le ha ricomprate. Ogni vita nuova aveva oggetti nuovi, che diventavano ricordi nuovi a cui non affezionarsi troppo.

Per fuggire lontano o ricominciare, ancora e ancora, serve viaggiare leggeri. Non esiste nulla a cui non si può rinunciare. Esistono solo persone e luoghi di cui hai davvero bisogno.

Stamattina, mentre lavavo la mia tazza preferita, quella rossa di quel festival lì, ho quasi rischiato di farla cadere e per un momento mi è mancato il fiato. L’ho afferrata al volo. Intonsa. L’ho riposta con cura ad asciugare e ho capito che non è tempo di ripartire, anche se in questi giorni lo farei, infilerei le scarpe comode e correrei via senza fermarmi mai.

Non è ora di lasciare tutte le tazze.

Forse non lo sarà mai più.

Smettere di scappare è l’età adulta.

Anche se gli psicologi dicono che non esiste più.

 

La resa dei conti

Agosto è sempre la resa dei conti.

La pausa in cui tutto rallenta, i ritmi, la musica che ascolti, l’ansia per i debiti, il rumore della città che vive sotto la tua finestra.
Sono stata al mare, perché un’estate senza mare io non la ricordo da mai, e ho passato del tempo con le persone che amo da una vita, amiche, cugini, zii, sorella.
C’è un’età in cui ami passare il tempo in famiglia, seguita dagli anni in cui detesti anche solo l’idea di un pranzo insieme a mammà, e poi torna un momento in cui ti fa piacere stare con la gente della tua razza. Questo momento lo chiamano età adulta.

Come ogni estate ho capito delle cose. Soprattutto su di me, che sono diventata un libro aperto a fatica, con le pagine incollate e staccate col tagliacarte, una a una, per non sciuparle.

Ho capito che i traguardi sono punti di partenza, che non bisogna mai pensare di essere arrivati, perché la strada è lunghissima e, se ti fermi un momento e i muscoli si rilassano, poi farai fatica a riprendere il cammino.

Perché l’importante nella vita è avere sempre margini di miglioramento.

Ho capito che a invidiare gli altri si perde il gusto di quello che si ha, si spreca un sacco di tempo in cui potersi godere le cose belle e facili e nostre. E anche se l’invidia è un sentimento naturale, quando arriva dovresti respirare a fondo e contare uno due tre… dieci e sforzarti di sorridere e pensare che tutti hanno alti e bassi e che un giorno sarai così felice che nemmeno noterai cosa succede intorno a te.

Ho capito che chi non riesce a dirti “ti amo” non ti ama. E basta. Non esiste un morbo che smorza le parole in bocca, che toglie il respiro, che taglia la lingua. Puoi fraintendere gesti, attenzioni, sorrisi, emozioni, ma quando una persona non ti ama, prima o poi, te ne accorgi. E allora devi alzarti e girarti e camminare lontano lontano.

Ho capito che la fretta è positiva solo se hai un progetto.

Ho capito che, se non riesci a comprendere le storie d’amore che vivi, figurati se potrai mai concepire e giudicare le storie degli altri!

Ho capito che la bellezza, la magrezza e la ricchezza sono sì importanti, ma vuoi mettere il valore di un giro in moto nei campi di girasole? O un gelato con tanta panna che cola da ogni lato? O i piedi che entrano nell’acqua di mare fredda? O i baci con le mani che ti carezzano il viso, che chiudi gli occhi e ti dimentichi dove sei?

Mentre passeggiavo nella città deserta, dalla finestra di un palazzo chiaro è arrivata la musica di un pianoforte. Non c’erano macchine per la strada e quelle note sembravano la colonna sonora del film della mia fine estate. Allora mi sono fermata ad ascoltarle e sono durate troppo poco. E quando le dita hanno smesso di pigiare i tasti, ho infilato di nuovo le cuffie, ho legato i capelli in una coda e ho continuato a cercare un bar aperto.

 

Closer è un film bellissimo

Sono andata in palestra la domenica mattina. Non avrei dovuto farlo. Era affollata, c’era la fila per gli attrezzi, fila per gli armadietti, fila per docce, fila per phon. E poi i corsi erano di livello base, perché le sciure della domenica vengono in palestra truccate e non possono sudare.

In palestra mi guardo allo specchio, tantissimo, e a volte mi dico diomio, ma cos’è quella cosa?! e altre mi dico niente male, davvero niente male.

Penso di essere soddisfatta di quello che sono diventata.
No, non è quello che sognavo da bambina. Che poi, da bambina, cambiavo idea ogni tre mesi. Un giorno volevo essere un’archeologa, il giorno dopo una regina, poi una scrittrice, poi una ballerina, poi una delle sorelle Occhi di Gatto, poi un benzinaio.

Sono soddisfatta perché sono stata capace di cambiare, perché ho imparato a chiedere scusa, perché riesco ancora a pagarmi le spese, senza dover tornare in un ufficio, perché ho accettato il tempo che passa, perché ho tagliato i ponti con persone-cose-luoghi che mi rendevano una brutta persona.

Un tempo mi sarei logorata all’idea di non aver avuto di più. Adesso vivo con la certezza che dovrei essere io a dare di più.

Poi ho imparato una cosa difficile difficile che mi ha resa cintura nera del saper vivere. Ho imparato a dire di no.

No alle situazioni sgradevoli, no ai compromessi professionali, no alle umiliazioni per soldi, no alla ruffianeria, no agli impegni mondani pieni di gente che odio, no alle amicizie ipocrite e interessate, no agli appuntamenti con uomini ricchi e famosi, ma interessanti come la lettiera del mio gatto.

Sono soddisfatta perché ho superato le mie durezze e non ho più paura di dire ti amo per prima. Perché quello che lo dice per primo, si sa, è quello che si fa più male.

Non ho più paura, perché ho imparato che, quando incontri la metà esatta della mela, non puoi permetterti di perdere tempo.

Non c’è tempo da perdere, non c’è da riflettere, quando arriva quello giusto. Anche se dice che Closer è un brutto film. Non può pensarlo davvero. L’ha detto così, dai, per fare il macho. Closer è un film bellissimo. Deve ammetterlo. Magari ne riparliamo domani e anche dopodomani. In fondo, sono io la donna. Non può fare altro che rassegnarsi e darmi ragione.

 

È tutto. Anzi, no.

Il blog è migrato (finalmente) sul nuovo server.
Ringrazio tanto, tanto, tantissimo Andrea Beggi per il prezioso aiuto tecnico. Un giorno, questo salvatore del wordpress verrà ricordato nei libri di storia.

Tra qualche giorno partirà il Dania World Tour: 8 febbraio a Roma, 9 a Padova, dal 10 al 13 a Parigi, 14 e 15 a Roma, dal 16 al 18 a Padova, brevissima sosta a Milano e partenza il 19 febbraio per il Brasile, con rientro a Milano il 6 marzo.

Mi scuso con i creditori e, soprattutto, con la mia meravigliosa editor (sì, sto cercando di blandirti) per i ritardi che accumulerò.

Fatemi un fischio se la situazione in Italia precipita. Potrei decidere di restare nel Maranhão.

È tutto.

Anzi, no: l’amore è una cosa faticosissima. E fa bruciare molte meno calorie del Body Pump. Non sono mica sicura che ne valga la pena.

Quella cosa che mi manca

Sento che mi manca qualcosa. La cerco ovunque. Scaricando email, rovistando nell’armadio, sfogliando libri, passando per le strade che abbiamo attraversato insieme.

Cerco quella cosa che mi manca e non so dov’è, come quando non trovo quella borsa che mi piaceva tanto, come quando non so dove sono finiti i guanti, dove ho lasciato gli occhiali, dove ho messo le chiavi. Quella cosa che mi manca e che adesso è la più importante, quella fondamentale.

In questi giorni c’è la nebbia e l’umidità gonfia i capelli e appanna i vetri e ti fa sentire più grigia del solito. Indosso stivali caldi e quintali di mascara. Mi proteggono dall’inverno.

Sento che mi manca qualcosa. Apro i cassetti, chiamo gli amici, rileggo cose lette centinaia di volte, bevo vino, mi tuffo nei saldi, mi chiudo in palestra.

Da qualche parte devo averla messa. Da qualche parte al sicuro. Quella cosa che mi manca e che conosciamo solo io e te.

Io e te.

L’umidità

Quelle giornate in cui il cielo è bianco vorresti soltanto rimanere a letto e rigirarti tra le lenzuola e non aprire gli occhi, fino a quando non fanno male i muscoli o devi fare la pipì, e restare fermo, nel dormiveglia, a pensare e sognare, sognare e pensare.

Quelle giornate umide e grigie, come oggi, come forse l’altro ieri, non sono fatte per vivere, sono fatte per resistere, sono fatte per escogitare una fuga, sono fatte per sopravvivere.

Così cammino poco, leggo, scrivo, però lascio a metà le frasi, rileggo dieci volte le e-mail prima di spedirle, prendo il telefono, provo a chiamarti, poi prima del primo squillo metto giù. Ti chiamo dopo. Anzi ti scrivo.

È umido. Il gatto dorme da ore. Ho rotto quella regola che mi ero imposta di non bere più caffè il pomeriggio, dopo le sei.

Ascolto una canzone, ma la interrompo a metà. Preferisco il silenzio, oggi. E il rumore lontano della strada che entra dalla mia finestra al quinto piano.

È umido. Ho i capelli gonfi. Tu non rispondi. Ti scrivo ancora. Poi conto fino a cento. Poi ti chiamo. Faccio solo tre squilli. Se non rispondi metto giù. Se rispondi, ti dico che mi manchi.

E poi aspetto che faccia buio buio, chiudo la finestra, accendo la TV e guardo e penso e mi addormento sul divano, senza dire una parola.