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Cosa accade a chi torna

“Chi parte sa da che cosa fugge, ma non sa cosa cerca”, diceva l’amico Lello al protagonista Gaetano, in Ricomincio da tre (senza citarne la fonte, come direbbero sul web).

Mi sono sempre chiesta cosa accade a chi torna, invece.
La mia vita è sempre stata una corsa in avanti, nomade, cambiando città  come se fossero paia di scarpe, accumulando strati di nostalgia e mazzi di chiavi, abitudini da ricreare in continuazione, scatoloni da riempire.
Questa è l’età in cui fermarsi e guardarsi un po’ indietro, per misurare il cammino e dirsi che tutto sommato è stata una bella distanza. Ed è l’età in cui far pace col passato, i fantasmi, i ricordi mitizzati, gli addii, le occasioni perdute, le scelte fatte.

Sto per partire per un viaggio a ritroso e sono eccitata e un po’ spaventata. Per fortuna, dove sto andando c’è il caffè più buono del mondo.

A Natale voglio fare cose belle

Prima era la riunione di famiglia. Tutti i fratelli di mamma che tornavano a Napoli, i divaniletto sempre aperti, le brandine in salotto, i cugini in pigiama tutto il giorno, l’odore delle arance e dei mandarini, i carciofi fritti nascosti per evitare che fossero spazzolati via prima di pranzo e poi dimenticati in una credenza e tirati fuori solo la sera. C’erano gli struffoli, che ognuna diceva di fare meglio dell’altra, la cassata siciliana gigante che mandava l’amico di zio Guido, c’erano gli zampognari, i lavoretti fatti col DAS a scuola, l’insalata di rinforzo, le telefonate interurbane da pochissimi minuti per fare gli auguri a chi non era potuto venire. C’era la messa di mezzanotte, tutti pigiati a sbadigliare sulle panche, nel freddo della chiesetta di via Fonseca; c’era la carta da regali, i vestiti nuovi che potevi indossare per la prima volta, la tombola con i ceci che segnavano le caselle, il mercante in fiera, noci, nocelle e castagne infornate, Il piccolo Lord, le poesie in piedi sopra la sedia, nonno che ci convocava uno alla volta e ci regala qualche diecimila lire.

Poi è arrivata, violenta e ribelle, l’epoca dei viaggi, dei vent’anni, delle mete lontane, dei sapori esotici, degli amici, del mangiare meno e bere di più, dei pochissimi regali, quasi sempre libri che avresti amato tutta la vita. Il momento in cui non c’è più magia perché non c’è religione e quindi va bene essere ovunque, purché non qui, purché insieme, noi che saremo compagni di avventure per sempre e poi invece ti persi di vista, per un malinteso, per un bacio di troppo o per uno mai dato.

Cambi città, amici, fidanzati, mariti, lavoro, stipendio, gusti, dieta, taglia.
Per tanti anni non fai l’albero, non addobbi, accetti inviti a casa di sconosciuti, perché “da sola pare brutto”, stai bene, non ti interessa, non sopporti l’odore di fritto, vuoi dormire, perché lavori sempre troppo, eviti i cinema affollatissimi il 25 pomeriggio, scambi regalini con le colleghe solo perché se l’aspettano.

All’improvviso ritorna.
La voglia di Natale.

Sarà per colpa dei nipotini, degli anni che ti fanno venire nostalgia di casa, dei tuoi parenti che invecchiano e vorresti vedere di più, degli amici che come te sono stanchi di aperitivi, del desiderio che non avevi mai avuto, e che adesso non riesci ad allontanare, di cucinare biscotti.

Questo Natale voglio fare cose belle.

Voglio confezionare io i pacchetti regalo e non farlo fare alle addette nei negozi.
Voglio comprare la migliore cioccolata da offrire a chiunque passi per casa.
Voglio ascoltare gli aneddoti di mia madre, per la milionesima volta, e ridere ancora insieme a lei.
Voglio mandare gli auguri con i biglietti cartacei, con i francobolli.
Voglio telefonare e non scrivere su WhatsApp.
Voglio preparare i dolci per il pranzo e per tutti i pasti a seguire.
Voglio cucinare le lasagne con mia sorella.
Voglio vestirmi di rosso.
Voglio sorridere e ridere moltissimo.
Voglio fare tante foto con amici e parenti senza postarle sui Social Network.
Voglio iniziare a pranzare senza fotografare il piatto.
Voglio mangiare tutto senza dire mai che sono grassa.
Voglio addormentarmi sul divano dopo i pasti e dormire senza mettere la sveglia.
Voglio aprire le bottiglie di vino migliori e berle con gli amici.
Voglio ascoltare le canzoncine sceme di Natale.
Voglio passare il giorno di Santo Stefano insieme a lui, per una maratona di Twin Peaks.
Voglio rivedere Una poltrona per due.
Voglio mandare dei baci a mio nipote in Brasile via webcam.
Voglio essere felice.

Breaking Bad ‘ngopp ‘o rione

Prima o poi doveva accadere. Crescere, lavorare, pagare l’affitto, le tasse, smettere coi tacchi e tornare alle scarpe basse, correre, cucinare, poi mettersi a dieta, scivolare quasi verso gli ‘anta. E a quest’età qui, avere una discussione con il proprio compagno su Breaking Bad.

La prima di un paio di premesse che dovrebbero far sembrare una conversazione del genere meno folle è che sono rimasta vittima, come molti, della dipendenza dalle serie TV. Ne guardo tante, tutte in lingua originale, così evito di pagare le lezioni private di inglese e imparo un sacco di parolacce. Mi hanno fatto compagnia quando ero annoiata dal mio lavoro da dipendente mal pagata, quando sono stata disoccupata, quando ero single, quando ho traslocato e non conoscevo nessuno, e mi hanno dato un sacco di buoni consigli quando ho iniziato a scrivere storie. Così, adesso, se mia madre chiama e chiede cosa stai facendo, io rispondo sto lavorando, sto studiando le tecniche di storytelling degli sceneggiatori ameriggani. È per lavoro.
E lei ci crede.
La seconda premessa è che anche lui scrive, ma da molto prima di me. E mentre io formavo il mio immaginario leggendo gli autori russi crudeli e guardando film francesi lentissimi o noiosi documentari su festival musicali nel deserto o sui ginecei indiani, lui conosceva a memoria tutte le storie dei supereroi che io – lo ammetto – ho incrociato molto tardi e quasi esclusivamente grazie ai filmoni marveliani di ultimissima generazione.

Lui ha sempre amato protagonisti dalle grandi doti, coraggiosi, nobili, abili, il cui ruolo era combattere i cattivi, criminali, mostri, per rendere il mondo (il nostro o qualche altro pianeta alieno) un posto migliore. Io mi sono a lungo sorbita storie senza redenzione, ho preso le parti di Raskol’nikov in Delitto e Castigo, ho capito che Kafka, Hrabal, Keret non ti danno soluzioni né conforto, ma ti dicono soltanto “così stanno le cose. Stringi i denti”, mi sono rassegnata all’idea che non esista una Giustizia, ma alcune forme di giusto o sbagliato che cambiano con il tempo, il luogo, il progresso.

Lui crede che Walter White, nell’ultima stagione, abbia perso le sue motivazioni. Sostiene che avesse già esaurito la sua carica di rivalsa verso le ingiustizie subite, che avesse già espiato i propri errori e che sia diventato un personaggio poco credibile, con la fine della quarta. Al contrario, io ritengo che solo quando il nostro amato Heisenberg abbandona ogni alibi morale e ammette di provare piacere nell’essere bad, solo in quel momento lui diventa un personaggio perfetto.

Per farla breve e terminare la discussione, prima di ordinare la seconda brioche fatta col lievito madre nel baretto da hipster sotto casa, ho sintetizzato i nostri punti di vista (sebbene lui non confermi – ad oggi – la mia versione, che pur essendo molto semplicistica, mi aiuta ad andare avanti in questo maledetto post in cui mi sono impelagata).
Il mio compagno parte dal presupposto che l’essere umano sia buono per natura. La vita, le esperienze, la società, la miseria, gli abusi lo trasformano e lo rendono peggiore, fino a quando non interviene qualcuno con una moralità ancora intatta che lo salva. Gli uomini possono quindi sempre essere redenti, perché nascono esseri positivi.
Io sostengo che l’uomo sia per natura crudele, egoista, avido, tendenzialmente violento e guerrafondaio. Ha però capito che un’organizzazione sociale basata sul rispetto delle regole, sui buoni rapporti, sull’assistenza reciproca funziona molto meglio che il caos e ha quindi deciso di evolversi. In sostanza, nasciamo cattivi, ma la vita, le esperienze, la società, la cultura ci rendono migliori. Con buona pace della mia educazione cattolica, del catechismo e dei soldi spesi per farmi studiare, ho capito questa verità quando ero molto molto piccola.

La perdita della mia innocenza è avvenuta un giorno di quasi trent’anni fa, durante un pranzo nella mia scuola materna, il fu Istituto Parificato Ruggero Bonghi di Napoli, ormai estinto. Tra i compagni di classe, c’era un bambino più grande di noi, che soffriva di un handicap fisico che gli impediva di camminare, muoversi correttamente e di parlare. Suppongo fosse stato inserito nella nostra classe perché all’epoca non esistevano strutture adatte per assisterlo e le scuole elementari napoletane del periodo non fossero proprio il massimo. Lo suppongo soltanto, senza offesa per nessuno, perché ero solo una bambina dell’asilo, chennepotevosape’?.
A lui piaceva stare con noi, in compagnia, sebbene a tutti noi fosse evidente che era diverso: era alto, più grande, portava degli occhiali con le lenti spessissime, si muoveva in modo strano, non riusciva a comunicare.
Durante i pasti, le maestre ci facevano sedere ai tavolini esagonali, tiravamo fuori dal cestino i nostri piatti, le cuoche ci servivano la pasta e si mangiava tutti insieme.
Il giorno che è arrivato il bambino grande, le maestre lo hanno fatto sedere accanto a me e io gli ho voluto istintivamente bene. Non lo so spiegare. Aveva quella fragilità e inconsapevolezza che, a una bambina timida e introversa come me, non facevano paura.
Mentre stavamo mangiando, alcuni bambini hanno iniziato a prenderlo in giro, a fargli dei versi, a dire il suo nome, a toccarlo e lui non si rendeva conto e rideva e sembrava felice. Poi uno di quelli si è alzato ed è venuto a sputargli nel piatto.
Così. Con naturalezza.
Si è alzato dal suo tavolo, è venuto da noi e gli ha sputato nel piatto.
E io che l’ho visto fare questa cosa brutale, avevo una rabbia e un’incredulità che non riuscivo a spiegare. Insostenibile al punto che ancora la ricordo. Spiazzante.
Perché? Perché hai fatto una cosa del genere?
Avevo – quanti? – cinque anni e ho provato un disprezzo davvero profondo per un altro essere umano. Chiaro, netto.
Subito dopo, un altro bambino ha fatto lo stesso, sempre di nascosto dalle maestre (o almeno è quello che voglio ricordare). Poi un terzo. E il bimbo grande rideva, pensava fosse un gioco. Fino a quando non so come, ho trovato la forza di urlare basta, di allontanarli e di lasciare il mio piatto a quel bimbo grosso che continuava a pensare fosse un gioco. Non so come ci sono riuscita. Forse avevo anche le lacrime agli occhi.
Quelle merde di bambini avevano la mia età. Pochi anni. Per tutta la vita mi sono chiesta se fosse stato un istinto o un insegnamento appreso da qualcuno. Perché nessuno poteva avergli insegnato che quando vedi un disabile che mangia devi sputargli nel piatto. E sì, venivano da quartieri difficili del centro di Napoli, (ma anche io), e sì, alcuni di loro avranno avuto delle situazioni familiari poco serene, (ma anche io), ma mi risulta molto difficile credere che non fosse qualcosa di innato in loro, che non dipendesse dal fatto che nasciamo cattivi e solo poi capiamo che essere cattivi è sbagliato.
Credo sia stata una delle più precoci e violente frustrazioni della mia vita, quella sensazione di non poter far altro che allontanarli, di sapere di non poter proteggere tutti i bimbi grossi dagli schifosi bambini malvagi.
È stato forse il primo momento in cui ho messo in dubbio la mia fiducia nel genere umano.

Cosa è successo, poi?
Che negli anni ho imparato un altro tipo di fiducia: quella nelle persone. Singole. Preziose. No razza umana, ma alcuni uomini. Adesso so per certo che il mondo non è un posto orribile, o meglio, non così orribile, perché ci sono anche persone che sanno renderlo bello. E tra queste, purtroppo, non ci sono io, perché sono pigra, vigliacca, perché da bambina potevo diventare un supereroe e lottare contro le ingiustizie, e invece non ci ho mai provato davvero.

Perché anch’io ho perso le mie motivazioni e sono entrata nella mia quinta stagione di Breaking Bad.

Sono ancora convinta che gli essere umani nascano perfidi. E poi guadagnano la loro fetta di paradiso solo vivendo. Come resto dell’idea che questa nuova epoca non abbia bisogno di supereroi, ma di antieroi.
Nessuno riuscirebbe più a identificarsi in Superman, perché lui è ed è sempre stato alieno. Mentre, quando ci raccontano storie di cattivi che sono anche un po’ buoni e di buoni che sono anche figli di puttana, allora possiamo sentirci pronti a fare grandi cose.

Questo volevo spiegare l’altro giorno a colazione al mio ragazzo, poi sono arrivati i caffè e abbiamo cambiato argomento. Volevo dirgli che Breaking Bad ha senso perché ci mette di fronte al nostro grande limite, non ci racconta che è la società a renderci cattivi, ma che siamo tutti cattivi, salvo scegliere di non esserlo. Almeno credo.

E non so se dopo queste deliranti parole potrà darmi ragione. L’unica cosa su cui siamo d’accordo è che i telefilm con gli zombie sono molto, molto meglio.

 

P.s. per la cronaca, ho googlato per la corretta grafia di Raskol’nikov.

Tutte le cose che non sono te

Chissà cosa ci spinge ad associare momenti della nostra vita all’accumulo di determinati oggetti.
Da piccola amavo le cartolerie. Girare tra scaffali di quaderni, matite, gomme da cancellare, cartelline mi faceva sentire in pace con il mondo. L’odore della carta, così confortante, come ogni volta che entri in una libreria e sai che sei circondato da buona compagnia.

Pochi giorni prima di iniziare la scuola, mia madre ci portava da Amodio a Port’alba per comprare diari, astucci, penne e tutte le armi che ci sarebbero servite per affrontare classe, insegnanti e materie. Lo zaino no. Ché ho avuto lo stesso Jolly Pro dalla prima media alla quinta superiore, trattato con rispetto, conservato come un cimelio.

Era bello. Perdevo la cognizione del tempo. Amavo soprattutto l’idea che la maggior parte di quegli oggetti avrebbe scandito il tempo che passava: smemorande che segnavano i giorni che mancavano al Natale, le matite da temperare fino al mozzicone, le gomme da cancellare che si consumavano piano. Finire le cose. Esaurire l’inchiostro delle Bic, scrivere fino all’ultima pagina dei quadernoni. Non so spiegarlo. Mi faceva stare bene.

Quando è arrivata l’adolescenza e sono stata portata a Padova, mio malgrado, ho iniziato ad amare le profumerie. I rossetti scuri, lo smalto, gli ombretti viola. Provare sul dorso mano le tonalità. Spruzzarsi profumi da uomo per sentirsi più trasgressive. Rubare i tester dei prodotti troppo cari. Andare con le amiche a cercare di mascherare il disagio di crescere.

E poi il periodo dei CD, il periodo dei braccialetti etnici, quello dei libri delle edizioni ES e quello delle scarpe.

Stamattina leggevo un articolo che spiegava che l’età adulta non esiste più. Siamo abituati a sentirci giovani fino a quando non diventiamo anziani. Posticipiamo il tempo delle responsabilità. Facciamo figli quasi fuori tempo massimo. Restiamo a casa dei genitori a lungo, a volte per necessità, molto più spesso per scelta. Un governo di cui l’età media è 47 anni è considerato un governo “giovane”. A 40 anni sei un ragazzo. A 50 sei giovane. Dovrebbe consolarci, l’allungamento di una presunta età dell’oro. E invece no. Dall’età infinita della minigonna alla menopausa, senza soste intermedie. Traumatico. Deleterio.

Io invece sono diventata adulta. Me ne sono accorta quando ho smesso alzare la voce. Quando durante uno scontro mi fermo e lascio perdere. “Come ti pare”. Quando ho capito che molti dei miei errori non dipendono dagli altri. Quando mi sono resa conto dei miei limiti. Quando ho capito che non sempre ce la posso fare da sola.

Sono diventata adulta quando ho iniziato ad accumulare tazze. Prese in viaggio, scelte con cura all’Ikea, fatte personalizzare con foto o scritte simpatiche, comprate ai festival, con la data che ricorda “io c’ero”. E quando, finita la convivenza, sono tornata a vivere da sola, ho cominciato a bere una moka da due intera, ho accantonato le tazzine e ho iniziato a usare solo tazze. Ho la mia preferita da caffè, che non metto in lavastoviglie e lavo sempre a mano. Ho quelle da tisana, quelle per i cereali, quelle che non uso spesso perché la forma o lo spessore non mi piacciono, quelle in cui offro il tè agli amici.
Ho due ripiani della cucina strapieni di tazze. E quando ne vedo qualcuna in un negozio di casalinghi, magari color malva o con una forma strana o con il manico buffo o di un materiale nuovo, devo fare uno sforzo per non acquistarla.

L’età della responsabilità è quella delle tazze.

Ho imparato a rinunciare agli oggetti quando ho dovuto affrontare grossi lutti. E tutti i traslochi. Le cose non ti danno un’identità. Pensare che un oggetto possa essere la forma di un ricordo, spesso, non sempre, ma spesso ti fa dimenticare che la memoria ti seguirà nel mondo senza bisogno di materia. Tu non diventerai quello che lasci e quello che lasci non sostituirà mai te. Sei solo quello che riesci a portarti sempre dietro, compresi affetti, dolori, gusti, idee, affanni, sorrisi.

Poche cose sono con me da tanto tempo. La maggior parte si sono fermate nei vecchi appartamenti, a casa di mia madre, da qualche amico, in garage, nelle stanze di qualcuno che le ha ricomprate. Ogni vita nuova aveva oggetti nuovi, che diventavano ricordi nuovi a cui non affezionarsi troppo.

Per fuggire lontano o ricominciare, ancora e ancora, serve viaggiare leggeri. Non esiste nulla a cui non si può rinunciare. Esistono solo persone e luoghi di cui hai davvero bisogno.

Stamattina, mentre lavavo la mia tazza preferita, quella rossa di quel festival lì, ho quasi rischiato di farla cadere e per un momento mi è mancato il fiato. L’ho afferrata al volo. Intonsa. L’ho riposta con cura ad asciugare e ho capito che non è tempo di ripartire, anche se in questi giorni lo farei, infilerei le scarpe comode e correrei via senza fermarmi mai.

Non è ora di lasciare tutte le tazze.

Forse non lo sarà mai più.

Smettere di scappare è l’età adulta.

Anche se gli psicologi dicono che non esiste più.

 

Napule è

Io li vedo ancora tutti e mille i colori, anche se dimentico i nomi delle strade, se non ricordo più certe parole, se la gelateria dove andavamo da ragazzini ha chiuso, se adesso ci sono più metropolitane, se siamo tutti più adulti e più stanchi.

Io le sento le mille paure e il disagio e vedo ancora il tanto che non va e la fatica e l’arrangiarsi e il pare brutto e la rabbia silenziosa che cola dalle mura di tufo.

Io sento tutti i profumi, tutti i rumori, tutte le risa, tutti i sapori, tutto lo sporco, tutto l’azzurro del cielo, tutti gli sguardi penetranti, tutti i motorini senza casco, tutti i pastori, tutte le salite, tutte le discese. Io sento tutto dentro.

Io cammino e cammino e guardo e respiro e parlo con la gente e bevo caffè e caffè, già zuccherato, grazie, perché ‘o doce nun m’abbasta maje int’a ‘sta città acussì bella e amara.

I cordiali

Ogni due domeniche, da bambini, mia madre ci portava a pranzo da mia nonna, sua suocera, la madre di mio padre.

Noi eravamo bambini con i genitori separati che, a quei tempi lì, a Napoli, era una cosa inusuale e anche un po’ triste, quindi eravamo bambini da coccolare, ma anche bambini forti, per gli altri, perché per noi eravamo solo bambini.

Ogni due domeniche, mia madre ci faceva prendere la circumvesuviana e ci faceva arrivare a Pomigliano D’Arco da mia nonna e mia nonna faceva il suo ragù speciale e il polpettone e quelle patatine così buone, che ogni volta che ne mangiamo simili diciamo che buone! Sono proprio come quelle di nonna.

Mia madre, prima di andare da mia nonna, passava al bar di Santa Teresa e si faceva preparare un pacco con lo zucchero e il caffè. Lo chiamavano il cordiale, come il liquore. Mi insegnava che quando si va a casa della gente a mangiare si porta sempre un pensiero e, poi, io nella vita sarei diventata una di quelle che porta sempre vino e, invece, mia madre a mia nonna portava quel cordiale fatto di zucchero e caffè, ché a Napoli zucchero e caffè sono come il pane, non bisogna mai rimanere senza, sono una cosa che si usa e consuma sempre, sono parte della nostra tradizione.

Quando ci siamo trasferiti a Padova vedevamo molto meno spesso mia nonna, ma le telefonavamo ogni domenica.

L’ultima volta che sono andata a trovarla, lei era molto stanca e malata e mi ha detto sai prepararti un caffè? E io le ho risposto ma che domande! Ormai sono grande, so cucinare, so preparare il caffè, so fare tutto. E lei mi ha sorriso e mi ha detto sei sempre stata così indipendente e così testarda.

Due giorni dopo ho preparato il caffè per tutta quella gente che passava a salutarla per l’ultima volta, il giorno del suo funerale.

Stamattina, ho scoperto di non avere zucchero e mi sono ricordata di quei cordiali e della grande verità di mia madre che diceva che non c’è nulla di peggio di ritrovarsi in casa senza caffè e senza zucchero. Mi è tornata in mente mia nonna e come ero diversa tanti anni fa. Mi sono tornati in mente quei pacchi regalo avvolti nella carta rigida del bar. Poi ho bevuto il caffè amaro e mi sono infilata in doccia.

Succede

Non sono mai stata ottimista.

Sono fatalista come tutti i napoletani, melodrammatica, passionale, scassacazzi, permalosa. Parlo troppo, racconto tutto ad alta voce, sono teatrale, sarcastica, lamentosa. Ho slanci di smodata generosità e non me ne pento, ma a volte, di nascosto, faccio la somma degli abbracci dati e ricevuti e vorrei avere di più di quello che do. Sono malinconica, nostalgica, severa. Sono possessiva, ma non gelosa. E non sono mai stata ottimista. Noi napoletani ci arrangiamo, tiriamo a campare e cantiamo, mangiamo e ridiamo solo perché non abbiamo fiducia nel futuro.

Però, questa volta, voglio pensare che andrà tutto bene, che le cose schifose andranno via e resteranno quelle belle, che non dimenticherò le volte in cui sono stata felice, in cui siamo stati felici, che ricomincio dal mio tre.

Stamattina non mi sento pessimista.

Succede a noi napoletani dopo una lunga serata passata a bere cabernet veneto.

Estrela mágica

C’è questa donna, Estrela, che ha tappezzato tutta la Beira Mar di Fortaleza di piccoli manifesti in cui c’è scritto che ha il poter di portarti la persona amata.
Ti fa i tarocchi, l’oroscopo e ti prepara amuleti e pozioni.

Allora mi sono ricordata che anche a Napoli era pieno di donne e uomini e santoni che ti promettevano di portarti l’amore. Io sono cresciuta ascoltando storie di malocchi, incantesimi, fatture fatte coi capelli dell’amato, con i denti da latte, con la biancheria intima, con le lenzuola usate per fare l’amore.

È che l’amore è una cosa che succede senza ragione. Una cosa che capita. È la cosa più vicina alla magia che io conosca, perché non la so spiegare.

Ci sono quelli che dicono l’amore mi è successo così e cosà, lei era perfetta, aveva tutto quello che mi serviva e allora io mi sono messo d’impegno e mi sono innamorato. Ma l’amore non succede mai così. L’amore lo ricostruisci a posteriori, lo giustifichi, ma ti capita sempre senza la tua volontà, come una fortuna. O come una sciagura.

Per esempio, a me nella vita è successo che mi sono innamorata quasi sempre di uomini che non mi volevano. Amici che stavano bene con me e il sesso era favoloso e sei importante per me e non potrei vivere sapendoti fuori dalla mia vita.

Ma non ti amo.

Ti-voglio-bene-ma-non-ti-amo. La sfumatura dei sentimenti del cazzo.

Ho contato che mi è successo sette volte.

Compresa quella volta del francese je-t’aime-bien-mais-je-ne-t’aime-pas. La sfumatura di significato nella lingua del cazzo.

Di sette volte in cui il cuore mi è scoppiato, cinque sono state quelle in cui gli uomini non mi amavano perché amavano una mia amica. Lo sai, lei è perfetta per me, lei ha quella cosa che tu non hai, tu che sei importante per me e non potrei vivere sapendoti fuori dalla mia vita.

E non ti amo.

Di cinque amiche, tre si sono fidanzate. Una mi ha chiesto se davvero era un problema per me perché non avrebbe mai voluto farmi soffrire. Due mi hanno detto che ero una stronza ad amare i loro uomini.

La causa-effetto ognuno la racconta a modo suo, in amore.

Quelle come me, si dice, se sopravvivono ai petardi nel petto, diventano streghe. E forse non è nemmeno un brutto mestiere.

C’è questa donna, Estrela, che ha tappezzato tutta la Beira Mar di Fortaleza di piccoli manifesti in cui c’è scritto che ha il poter di portarti la persona amata e dicono che funziona, che fa innamorare tante persone che non si amano e la gente si rivolge a lei in preghiera, come una santa.

L’amore ti succede e tu decidi se ti è successo per destino o per magia.
Per Estrela o per le stelle.

E se non ti succede bevi e piangi. Ma soprattutto bevi.

Una volta ho chiesto a un’amica, a Napoli, che accompagnava la zia a farsi fare i tarocchi, perché la sua parente non avesse scelto di affidarsi a un santo cattolico per chiedere il miracolo di trovare l’amore. E lei mi ha risposto: «Ai santi veri non si chiedono mai ‘ste scemità. Si chiedono solo salute e soldi.»

 

Tra le pagine

Ho ripreso in mano un libro che non sfogliavo da tempo per trovarci dentro una risposta.

Cercavo di capire se un personaggio sfocato della mia recente vita non fosse solo l’ombra di un personaggio che avevo amato in un romanzo dimenticato sullo scaffale.

Tra le pagine ho trovato un foglio color salmone, con un messaggio che mi avevi lasciato tu.

Ho ritrovato, dopo tredici anni, il tuo messaggio che parlava delle tue scarpe rosse e di uno dei tuoi viaggi, in un libro che non avevo più aperto, ma al quale avevo pensato spesso.

L’ho trovato stamattina, dopo che ieri, rompendo un silenzio durato un decennio, tu sei venuta da me a cercare un sorriso, tra le pagine di un social network che non ha il colore, l’odore e il rumore di tutta la carta che abbiamo consumato.

Non lo so se sono solo coincidenze, non lo so se il destino ha deciso che per ogni persona che si allontana ce n’è sempre una che ritorna da un lungo lunghissimo viaggio.

So solo che il tempo è la distanza più crudele.

E che quando tu, troppi anni fa, in quella Napoli che non era già più nostra, mi ha chiesto se sarebbe stato per sempre non ho avuto il coraggio di mentirti, come farei ora, per non lasciarti andare via.

La buona fede

Quell’estate lì, quando ero bambina, i criceti avevano fatto i cuccioli, che erano dei piccoli fagottini di carne rossa, un po’ disgustosi. Ed erano tanti e riempivano tutta la gabbia.

Il gatto infilava la zampetta tra le sbarre della gabbia e provava a rubarli e una volta c’è riuscito e abbiamo trovato la testa del criceto sgranocchiato nella scodella della pappa e abbiamo pianto come se non ci fosse fine alle lacrime.

Allora ho pensato che dovevo difendere i criceti, dovevo proteggerli, metterli al sicuro dal gatto e dai pericoli. Li ho messi in veranda, ho chiuso a chiave la porta, sono tornata a giocare e a vivere la vita.

Poi il pomeriggio è passato, un pomeriggio di un caldo devastante, un caldo napoletano afoso e grasso, e alla sera sono andata in veranda a dare da mangiare ai criceti sopravvissuti al gatto.

E la temperatura della veranda era salita troppo, era diventata incandescente, e forse era mancata l’aria, forse era finita l’acqua, forse il sole batteva troppo sulla gabbia, forse avrei dovuto lasciare almeno una finestra aperta, anche se mia madre diceva sempre chiudi, perché entrano i ladri, perché a Napoli è normale che i ladri entrino in casa e quindi le finestre, quando si andava via, erano sempre tutte sprangate.

I criceti era tutti morti. Quasi tutti. Solo un paio si erano salvati e ansimavano.

Li avevo uccisi io, per difenderli. Li avevo soffocati per proteggerli.

Ero stata una bambina peggiore di un gatto.

Mi sono sentita in colpa per decenni, anche se molti mi hanno detto che non avevo colpa, che non potevo sapere, che volevo fare la cosa giusta.

E a volte mi consolo anch’io, pensando che è la cosa giusta, credendo sia la cosa migliore, sbagliando ogni volta per proteggerti, chiudendoti in gabbia in veranda, per difenderti dai pericoli e per tenerti sempre con me.

Con quell’orrendo alibi che chiamano buona fede.

Cattive maestre

Tornata a casa, nel pomeriggio, ho incrociato nell’atrio del mio condominio l’insegnante di italiano che ho avuto in seconda superiore, nell’anno in cui mi sono trasferita a Padova.

Lei sosteneva che i voti alti che avevo preso in prima liceo a Napoli non erano meritati, perché quando scrivevo usavo troppo la fantasia.
E la fantasia non fa bene.

L’anno dopo mi cambiarono sezione e insegnante.
Non la vedevo da più di un decennio e mi è apparsa come una vecchia arcigna e infelice.

Deve aver vissuto tutta la vita usando pochissimo la fantasia.
E la vita non le ha fatto per niente bene.