I pomeriggi d’estate erano tutti una lunga attesa delle quattro, l’ora in cui ci era concesso di fare il bagno.
Il calcolo delle ore necessarie a farci digerire veniva fatto a spanne: Sandra e Irene mangiavano solo gelati, Valeria la frutta, Sergio saltava il pranzo, correndo tutto il giorno sulla sabbia, tra la disperazione di zia Laura, Elisabetta e io non disdegnavamo frittate di maccheroni e pizze al trancio, fossero pure 40 gradi all’ombra.
Le nostre mamme avevano deciso di comune accordo una tregua dall’acqua, senza patemi, senza occhi sbarrati verso l’orizzonte per controllare che fossimo in salvo, senza minacciare “se vai a largo ti vengo a pigliare e abbuschi“, senza corse alle docce calde (quelle che solo col gettone) per toglierci il sale dagli occhi e dai capelli. Dopo mangiato si volevano “arricreare”, chiacchierare sotto l’ombrellone, leggere il giornale, spettegolare, mentre i signori maschi dormivano beati coccolati dalla brezza marina, dopo aver spento l’ultima sigaretta.
L’ingresso pomeridiano in acqua, caotico rompete le righe, liberi tutti festoso di quella dozzina di cugini rumorosi sulla spiaggia di Capo Miseno, era stato fissato alle sedici. Sedici e trenta, a volte, quando il relax necessitava di qualche minuto in più di assestamento.
“Avete mangiato, non potete fare il bagno!”. Era il divieto medico, la verità divina. L’ipotesi di una morte per congestione, mai chiaramente compresa, ma terrificante, era un disincentivo fortissimo.
Nessuno si era mai ribellato al divieto, forse solo Aldo, sprezzante del pericolo. Ma Aldo era abituato a essere punito, ci aveva fatto l’abitudine, a Natale, Pasqua, dopo la messa, in settimana bianca, in gita, durante le domeniche in famiglia. Si ribellava e veniva punito. Era il nostro pirata.
Che avessimo mangiato a mezzogiorno, alle due, un panino, un conopalla, un fiordifragola, non aveva nessuna importanza. Il mare prima delle quattro era inviolabile.
C’erano altri bambini, chiattoncelli, urlanti, cafoni da millanta generazioni, che sguazzavano beati sotto al sole delle ore più calde. A volte restavamo a guardarli, chiedendoci quale fosse il loro superpotere, aspettando di vederli sparire divorati dall’acqua magica delle due.
Chissà che sapore aveva il mare prima delle quattro. Se era davvero così cattivo, se era più caldo o ghiacciato, se era pieno di sirene che ti trascinavano negli abissi.
Poi è arrivata l’adolescenza e gli occhi che ti controllano dalla riva sono spariti. Un po’ alla volta abbiamo smesso di guardare l’orologio e siamo entrati e usciti dall’acqua quando ci andava. Sorridendo di tutti gli studi clinici, che anno dopo anno ci svelavano che si può entrare dopo mangiato, basta aver mangiato poco, basta farlo subito, basta entrare lentamente, basta stare a galla.
Siamo cresciuti, ormai, troppo o troppo poco, e potremmo prendere il mare a ogni ora. Spesso, però, ci limitiamo a guardarlo, a infilarci i piedi, a passeggiarci qualche minuto, prima che le dita avvizziscano. Siamo cresciuti e diventati animali più di sabbia che di acqua, destinati alla tintarella, unica conquista duratura di questi giorni troppo brevi che non sono più vacanze, ma ferie.
E adesso, che ho l’età in cui dovrei essere io di vedetta dal bagnasciuga, avrei voglia, ogni tanto, di qualcuno che controlli ancora l’orologio per me e mi dica “solo altri cinque minuti, amore, e poi ti puoi tuffare”.