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Roma, fai un po’ la stupida stasera

Sono in partenza per Roma. Ho puntato la sveglia all’alba, ho stirato (sì, proprio così, S T I R A T O) la gonna che indosserò, che ormai è l’unica in tutto l’armadio che ancora mi entra, ho messo in valigia le mie scarpe nuove col taccazzo e sono pronta.

Vado a parlare dell’Arco, il racconto che ho scritto per il progetto Update your legs, il primo in cui mi cimento con l’erotico. O ci provo. E il protagonista è un uomo, che pensa e parla come un uomo. O come gli uomini che amo.
L’ebook è gratuito e potete scaricarlo qui.

Se avete voglia di fare due chiacchiere con me e le altre autrici, ci vediamo dalle 18 alle 21 nella boutique di Wolford in via Frattina 90. Io sono quella vestita male che cerca disperatamente qualcuno che le riempia il bicchiere.

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Milano è stata nostra

Invece di fuggire come tutti, siamo rimasti a difendere la città dall’esodo ferragostano.

Il cielo è limpido e azzurro, che non sembra nemmeno Milano, e soffia un vento fresco leggero, di quelli che ti carezzano dolcemente mentre ti godi la pennica del pomeriggio.

C’è il silenzio, nelle strade, nei parchi, nei pochi locali aperti. Quel silenzio gentile, interrotto da poche chiacchiere, da qualche ruota che solca la strada, dal rumore dei binari del tram.

La città fantasma ha pochi superstiti, che si ritrovano nei punti di ristoro ancora aperti, nei quartieri più popolari, dove le ferie sono un vezzo e non una necessità.
Siamo andati a mangiare in quel ristorante cinese buonissimo, di quelli che non fingono di essere di Tokyo e non ti cucinano riso bollito e salmone invitandoti a mangiare tutto il sushi che vuoi.

Siamo stati bene e poi abbiamo camminato tanto per trovare un bar aperto, dove bere un caffè.

E quando ti ho salutato, mi sono infilata in un supermercato per fare qualche provvista per i prossimi giorni, quelli da passare segregata in casa a scrivere un libro intero, senza distrazioni.

Un supermercato della stessa catena di quello in cui mi servo io, con gli stessi prodotti, con lo stesso odore, però diverso: la disposizione degli scaffali, la metratura, la grandezza, le facce dei commessi, la distanza dalle casse.

È stato come se avessero preso le cose che conosco, le avessero mescolate nel panaro della tombola e le avessero risputate fuori, un po’ a casaccio.

Spaesata. Ci ho messo un’eternità a comprare tonno e pomodori, tra le cose che conoscevo, disposte in un modo che non riconoscevo.

Come quando tua madre viene a trovarti, dopo tanto tempo, e ti sistema la cucina, senza che tu glielo chieda, e ordina tutto con la sua logica e quando ti serve un apribottiglie non lo trovi più e ti viene voglia di spaccare tutto.

La città vuota è uno spazio familiare in cui ti senti un po’ estraneo. I confini non sono delimitati dagli altri esseri umani, i marciapiedi sono sgombri da tavolini e biciclette e moto, nella metropolitana trovi sempre posto a sedere, le saracinesche chiuse ti ricordano che non hai bisogno di niente, la palestra è in ferie e vai a correre per le strade solitarie.

È stato bello conquistarla insieme a te, questa città che ci ha fatto innamorare e che ieri sembrava nostra.

Tra poche ore torneranno gli esuli e rioccuperanno il loro spazio e Milano smetterà di sorridere e tornerà a lavoro e noi continueremo a scrivere, fino al giorno della consegna, quando ci affacceremo per le strade affollate e sogneremo di fuggire via, lontano.

Il mare prima delle quattro

I pomeriggi d’estate erano tutti una lunga attesa delle quattro, l’ora in cui ci era concesso di fare il bagno.

Il calcolo delle ore necessarie a farci digerire veniva fatto a spanne: Sandra e Irene mangiavano solo gelati, Valeria la frutta, Sergio saltava il pranzo, correndo tutto il giorno sulla sabbia, tra la disperazione di zia Laura, Elisabetta e io non disdegnavamo frittate di maccheroni e pizze al trancio, fossero pure 40 gradi all’ombra.

Le nostre mamme avevano deciso di comune accordo una tregua dall’acqua, senza patemi, senza occhi sbarrati verso l’orizzonte per controllare che fossimo in salvo, senza minacciare “se vai a largo ti vengo a pigliare e abbuschi“,  senza corse alle docce calde (quelle che solo col gettone) per toglierci il sale dagli occhi e dai capelli. Dopo mangiato si volevano “arricreare”, chiacchierare sotto l’ombrellone, leggere il giornale, spettegolare, mentre i signori maschi dormivano beati coccolati dalla brezza marina, dopo aver spento l’ultima sigaretta.

L’ingresso pomeridiano in acqua, caotico rompete le righe, liberi tutti festoso di quella dozzina di cugini rumorosi sulla spiaggia di Capo Miseno, era stato fissato alle sedici. Sedici e trenta, a volte, quando il relax necessitava di qualche minuto in più di assestamento.

“Avete mangiato, non potete fare il bagno!”. Era il divieto medico, la verità divina. L’ipotesi di una morte per congestione, mai chiaramente compresa, ma terrificante, era un disincentivo fortissimo.

Nessuno si era mai ribellato al divieto, forse solo Aldo, sprezzante del pericolo. Ma Aldo era abituato a essere punito, ci aveva fatto l’abitudine, a Natale, Pasqua, dopo la messa, in settimana bianca, in gita, durante le domeniche in famiglia. Si ribellava e veniva punito. Era il nostro pirata.

Che avessimo mangiato a mezzogiorno, alle due, un panino, un conopalla, un fiordifragola, non aveva nessuna importanza. Il mare prima delle quattro era inviolabile.

C’erano altri bambini, chiattoncelli, urlanti, cafoni da millanta generazioni, che sguazzavano beati sotto al sole delle ore più calde. A volte restavamo a guardarli, chiedendoci quale fosse il loro superpotere, aspettando di vederli sparire divorati dall’acqua magica delle due.

Chissà che sapore aveva il mare prima delle quattro. Se era davvero così cattivo, se era più caldo o ghiacciato, se era pieno di sirene che ti trascinavano negli abissi.

Poi è arrivata l’adolescenza e gli occhi che ti controllano dalla riva sono spariti. Un po’ alla volta abbiamo smesso di guardare l’orologio e siamo entrati e usciti dall’acqua quando ci andava. Sorridendo di tutti gli studi clinici, che anno dopo anno ci svelavano che si può entrare dopo mangiato, basta aver mangiato poco, basta farlo subito, basta entrare lentamente, basta stare a galla.

Siamo cresciuti, ormai, troppo o troppo poco, e potremmo prendere il mare a ogni ora. Spesso, però, ci limitiamo a guardarlo, a infilarci i piedi, a passeggiarci qualche minuto, prima che le dita avvizziscano. Siamo cresciuti e diventati  animali più di sabbia che di acqua, destinati alla tintarella, unica conquista duratura di questi giorni troppo brevi che non sono più vacanze, ma ferie.

E adesso, che ho l’età in cui dovrei essere io di vedetta dal bagnasciuga, avrei voglia, ogni tanto, di qualcuno che controlli ancora l’orologio per me e mi dica “solo altri cinque minuti, amore, e poi ti puoi tuffare”.

Milano mi ruba il tempo

Milano mi ruba il tempo e io rubo Milano, negli angoli più nascosti, tra i mille fiorai, i binari del tram, i palazzi tutti uguali, i negozi senza numero civico.

Non è una città difficile e non è nemmeno facile, quando c’è il sole e tu arrivi sotto casa mia e mi porti a mangiare sushi, anche se ho già pranzato e ho gli occhi gonfi, perché ho pianto, con le lenti a contatto, anche se c’è il sole. Piango anche se c’è il sole e tu non sai cosa dirmi e io bevo birra ghiacciata, perché mi sembra mi faccia bene.

Milano non è difficile, ma non sa farsi volere bene, è chiusa, è orgogliosa, è permalosa, è come me che non so dire ti amo, che se l’avessi detto prima, se l’avessi detto davvero, forse adesso non starei qui ad aspettare i ritorni che non arrivano mai.

Milano mi ruba il tempo, prima ce l’avevo e poi non c’è più, è veloce, è passato e non faccio mai tutto quello che voglio e finiamo sempre a bere in posti diversi che sembrano tutti uguali e il tempo scorre veloce, veloce, veloce e non so più che giorno è e dimentico il lavoro, dimentico che devo scrivere e vivo storie che non mi piacerebbe raccontare e racconto storie che mi piacerebbe vivere.

Mi fermo qui ancora qualche mese, per capire se ne vale la pena, e intanto siedo alla mia nuova scrivania e mi guardo allo specchio e mi sembra di essere molto uguale a me stessa, un po’ più stanca, con segni nuovi sul viso, con la città alle calcagna e con nuovi tu tra lo stomaco e il cuore.

Per sempre

È il mio compleanno -ti ho detto- portami al mare.

E siamo saliti in macchina verso la costa.

C’era la nebbia, quella nebbia grigia e sporca, così veneta, così densa da entrarti nelle ossa, negli occhi, nei capelli lisci che diventano crespi, nei vestiti di lana che diventano pesanti.

Non distinguevamo nulla lungo la strada. Gli alberi, le case, i vecchi, i cani, le panchine, le fermate dell’autobus, le macchine parcheggiate, i cassonetti dell’immondizia.

Siamo arrivati sulla spiaggia, immersi nella foschia lattiginosa, e abbiamo iniziato a camminare e faceva freddo e tu dicevi è normale a gennaio e io pensavo all’anno in più e all’umidità che mi arricciava i capelli.

E abbiamo camminato sulla sabbia bagnata e sporca e per vedere il mare siamo dovuti arrivare fino a infilare quasi i piedi nell’acqua. Ed era un mare grigio, dello stesso colore del cielo, dello stesso colore della sabbia, dello stesso colore del vento.

Da quanto tempo non mi portavi a vedere il mare?

Ti ricordi quando, nei pomeriggi pigri e stanchi, saltavamo in macchina e andavamo a cercare la libertà? In fondo alla strada per la libertà c’era sempre il mare, azzurro o verde, calmo o arrabbiato, con l’odore forte di orizzonte e di promesse.

Questo mare qui, il mare di questo inverno, è un mare invisibile, un mare schivo, un mare che si nasconde e non vuole raccontare storie.

Ho sempre pensato che le storie di mare fossero dentro di noi, che avessimo il mare dentro.

Come il titolo di quel film che abbiamo noleggiato, anni fa, e non abbiamo mai finito di guardare e ci siamo detti prima o poi lo guarderemo, un giorno, in futuro. Quando ancora non ci spaventava l’eternità.

Le parole tue

Il primo anno di università ero diventata grande amica di Matteo.

Avevamo gli stessi gusti musicali, gli stessi gusti letterari, gli stessi gusti cinematografici.

Matteo diceva sempre cose bellissime che non erano parole sue, erano parole prese dai libri che amavamo, dai film che ci avevano fatto sognare, dalle canzoni che ascoltavamo dalla mia vecchia radio rotta, che avevo riparato con lo scotch e gli adesivi con la falce e il martello.

Passavamo ore al caffè in campo dei Frari, tra una lezione e l’altra, a emozionarci per quelle parole che sembravano fatte per noi, dette da noi, scritte proprio come se nella penna ci fossero stati i miei capelli neri neri e i suoi occhi grigi.

E tutti gli altri amici conoscevano quelle parole, le ripetevano, ce le cantavano, in quelle sere veneziane stanche di chitarra, canne, vino cattivo e splendidi vent’anni.

Una notte piena di bellissime parole, ci siamo baciati e siamo stati lì in silenzio, nel silenzio dei baci, tutta la notte.

Non ne abbiamo mai parlato e, ogni volta che ci tornava in mente, all’improvviso, ci guardavamo e stavamo zitti ad ascoltare il rumore leggero dei pensieri.

E poi sono passati i mesi e gli anni, Matteo si è fidanzato con una delle mie più care amiche dell’epoca. Penso fossero felici insieme. I nostri silenzi sono finiti, un giorno, così come sono iniziati e, lentamente, Matteo è sparito insieme ai vent’anni.

Ieri, mentre passeggiavo senza sapere dove andare, trascinandomi dietro le mie inquietudini mascherate dal volume alto della musica, la selezione casuale dell’iPod ha scelto una di quelle canzoni lì, quelle di tanti anni fa, piene di parole meravigliose che Matteo mi diceva tra le calli notturne, piene soltanto di luce di luna.

Ho pensato a lui, dopo così tanti anni, dopo così tanta distanza. E ho capito, infine, perché quella vicinanza perfetta, nonostante il nostro grande bisogno e desiderio, non è mai diventata amore.

A Matteo e me sono mancate le parole nostre, le parole pensate, scritte e dette da noi, le parole imperfette e forse sbagliate, le parole piccole, ma uniche, le parole che nessun altro poteva usare per l’amore, solo noi.

Nel timore che quella storia mai nata potesse non essere perfetta come le parole che amavamo, abbiamo semplicemente preferito non raccontarla.

Avrei voluto dire tutto questo a Matteo, ieri, dovunque lui fosse, dirgli che ho trovato le parole per dirti perché non abbiamo mai avuto parole, le parole che avrei dovuto dirti, che avresti dovuto dirmi, in quei silenzi infiniti, faticosi e immobili.

E ho pensato a lui ancora un po’, passeggiando per la città fredda. Poi la musica è cambiata e il ricordo si è allontanato e camminando ho ascoltato altre parole e ho pensato ad altre storie, alcune non scritte, altre abbozzate, altre finite e poche, pochissime perfette.

Pre scriptum

Oggi avevo preso un giorno di ferie e avevo progettato di passarlo a scrivere.

Dopo aver bevuto il caffè, stamattina, ed essermi lavata i capelli, sono andata in posta e al supermercato.

Poi sono passata a recuperare un pacco a casa di mia madre e il pedale della bici mi sembrava non funzionare benissimo e mi sono fermata dal vecchietto che le aggiusta, le bici, per fargli controllare il pezzo.

Sono rientrata e ho pensato che non sarebbe stata una cattiva idea fare una lavatrice, ma prima c’erano tutti i panni delle precedenti lavatrici da sistemare e dopo bisognava appendere tutto con estrema cura, ché il mio compagno dice che faccio la centrifuga troppo elevata e non appendo bene e allora hai voglia a stirare! non verranno mai perfetti!

E si è fatto tardi e, intanto, avevo già mangiato, lavato i piatti e poi ho perso tempo sui social network per spiegare agli amici che a quella festa di sabato, dove c’erano tutti tutti, non ero sbronza, era solo molto stanca.

Poi ho portato il notebook a letto e ho pensato “adesso mi ci metto davvero” ed è arrivato il gatto e siamo stati lì, a poltrire come due felini, mentre il tempo scorreva sul mio senso di colpa.

Adesso sono seduta al tavolo della cucina, che scrivo per non scrivere quello che avrei dovuto scrivere, mentre preparo la cena e penso che dovrei lavare il bagno prima di andare a dormire.

Credo che le ferie non siano fatte per scrivere.

Le ferie sono fatte per fare quelle cose che non puoi fare mentre lavori e che quasi sempre non puoi fare se non lavori.

Per riempire le pagine bianche non ci vogliono le ferie, non basta una pausa dalla routine del lavoro per riuscire a mettere nero su bianco i monologhi interiori accumulati.

Per scrivere forse avrei bisogno di mettermi in malattia, in aspettativa o di vincere una rendita.

Ma se vincessi una rendita forse non avrei più voglia di scrivere. Passerei tutto il tempo a viaggiare. Mi dimenticherei di non aver abbastanza tempo per fare le cose che mi piacerebbe fare e le farei solo quando ho davvero voglia di farle.

Forse sarei più felice.

E di sicuro ci sarebbe qualcun altro a stirare i miei panni troppo centrifugati per essere perfetti.


Réclame

I primi giorni di maggio uscirà in edicola un albo di comics e varie amenità che cambierà il destino dell’umanità tutta: il Canemucco.

Il giornale, oltre a essere di pregiata fattura e a contenere capolavori del Sig. Makkox, è l’unico in Europa -e forse addirittura nel mondo intero- a poter vantare la pubblicazione dei racconti della Dottoressa Dania.

Fossi in voi, sarei già in coda davanti all’edicola per poterne acquistare una copia o, meglio ancora, mi ci abbonerei.

Non comprarlo potrebbe anche non avere nessun effetto negativo sulla vostra salute, ma perché rischiare?