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Eskimo

Una volta mi sono fermata a dormire a casa di Valentina, che abitava sul Montello, in un vecchio casolare diroccato, che lei e il fidanzato cercavano di ristrutturare un po’ alla volta e che avevano preso in affitto da un’anziana che non voleva assolutamente venderlo, perché era la casa del fratello, che era emigrato cinquant’anni prima in Argentina, e che sarebbe tornato, prima o poi, era sicura, lei lo aspettava da decenni, per quello teneva quella casa fatiscente, sul bordo del ruscello, uguale a quando il fratello viveva lì.

Una volta mi sono fermata a dormire a casa di Valentina e avevo diciannove anni e i capelli rasati a zero e l’orecchino al naso e quell’ombretto viola facinoroso e imbarazzante e quei maglioni così larghi e pesanti e quelle camicie che a indossarle sentivi anche tu la pallottola del fucile a pompa nel cranio, come Kurt.

Valentina e io recitavamo insieme, in un teatro veneziano di quelli che non hanno mai vantato grandi stelle, e portavamo in scena un pezzo di Václav Havel e facevamo un sacco di prove e abbiamo anche vinto dei premi, di quelli che non hanno mai cambiato la vita, e ci frequentavamo spesso e ci piacevamo molto.

Lei aveva trentuno, forse trentadue anni.

Fino all’anno prima aveva un lavoro, fisso, probabilmente noioso, poi aveva deciso di prendersi una pausa, un anno sabbatico, e di fare per dodici mesi le cose che non aveva mai avuto il tempo di fare.

Che io, a quella età lì, in cui credevo che il tempo sarebbe finito oggi, che dovevo provare tutto in fretta, che dovevo bruciare ogni notte e ogni giorno e ogni notte, a quell’età lì pensavo che se avessi avuto dodici mesi a mia disposizione, senza dover pensare all’università, ai lavoretti da cameriera, alle cose da finire, sarei partita in viaggio per non fermarmi mai, lasciando tutto e tutti, guadagnandomi da vivere come potevo, per poter vedere tutto, per poter provare tutto.

Lei, invece, aveva deciso che quell’anno lì, di pausa, di tempo a disposizione, di cose mai fatte e da fare, l’avrebbe dedicato a tutti i libri che non aveva letto, ma che aveva sempre desiderato leggere, ai film che non aveva visto e a quelli da rivedere altre dieci, cento volte, agli spettacoli e ai festival in giro per l’Italia, agli amici che non vedeva da tempo, al compagno, al nuoto che trascurava, all’orto, al teatro, al teatro e al teatro.

E io pensavo che progetti piccoli per un tempo così grande!, che spreco di emozioni, di avventura, che tempo perso senza averci un cortomaltese in gola, senza correre, senza vedere occhi diversi e stringere mani diverse e finire in letti diversi, tanti letti diversi, per provare tutti i gusti, tutti i sapori, per ascoltare tutte le melodie del mondo.

E io pensavo che età ingrata quella che verrà, in cui non avrò più l’ansia di correre, più il bisogno di accumulare e mettere tacche sui miei pugnali e prendere aerei e treni e autobus e indossare lo zaino e parlare lingue straniere e fuggire.

Poi è successo che, non so come, sono passati questi anni e se ci penso non sono pochi e ho visto tanti porti e viaggiato su tante navi e avuto tante prime volte e poi erano seconde e terze volte e non erano sempre belle come la prima. È successo che da tanto tempo non ci vediamo più e chissà cosa fa adesso lei, se ha dei figli, se recita ancora, se ha comprato il casolare del vecchio argentino.

Poi è successo che abbiamo vissuto in una canzone di Guccini e i venti se ne sono appena andati, eh, e non sempre mi mancano, e adesso che potrei permettermi qualche viaggio in più, qualche vizio in più, adesso che sappiam quasi tutto e adesso che problemi non ne ho, se avessi il tempo, quel tempo libero, senza sensi di colpa per lavoro, mutuo, bollette, senza ansia per la carriera, le fatture, la competizione, le consegne, mi siederei sul divano di Valentina, a leggere con lei, guardare tutti i film, chiamare gli amici, cucinare per tutti, vedere i festival, passeggiare, visitare musei, studiare, prendere treni solo per guardare fuori dal finestrino, guidare per guardare negli occhi un amico e chiedergli come stai? senza scriverlo nella chat di skype, salire su un palcoscenico e recitare la parte di tante altre donne, possibilmente felici.

Il senso

Sono andata a vedere lo spettacolo di un vecchio caro amico che non incontravo da tanti anni.

Lui era quello di noi – sognatori, rivoluzionari pigri, chiacchieroni, brillanti e arrabbiati – che aveva davvero talento.

È diventato famoso, ha vinto tutti i premi possibili, gira il mondo, da Tokyo a New York, e fa quello che ha sempre desiderato fare.

Ci siamo parlati per pochi minuti prima che si alzasse il sipario e vedendolo così realizzato, così adulto, così diverso da quello che era eppure così tanto uguale, così coerente, così illuminato, così deciso, gli ho chiesto:

«Ma, quindi, sei felice?»

e lui mi ha risposto

«In che senso?».

Allora ho sorriso, l’ho salutato, gli ho detto “tanta merda” e sono andata a sedermi al mio posto.

Cambio pelle

Ieri sera, mentre la pioggia battente mi ricordava che le stagioni non hanno voglia di cambiare, ho rivisto un caro amico che non vedevo da anni.

Improvvisamente, senza sforzo né volontà, sono tornata ad essere la Daniela di tanto tempo fa, la protagonista di un’altra epoca in cui non ero la dottoressa Dania, non ero ancora nemmeno dottoressa e non avevo mai pensato che la mia vita potesse essere un delicato equilibrio tra volere e potere.

Sono tornata ad essere la ragazza che aveva lasciato gli studi per il teatro e non ancora quella che poi lascerà il teatro per gli studi.

Sono tornata la ribelle che voleva una vita senza certezze e non la precaria che vorrebbe un briciolo di stabilità.

Sono tornata appena ventenne, perché forse non ho mai smesso di sentirmi poco più che adolescente.

E per la prima volta, ricordare il passato non mi ha reso malinconica o triste: mi ha fatto sentire semplicemente me stessa.

tutte le Dania del mondo

Grazie a Pro-fumo per la bella foto e a Francesco Niccolini per la bella serata.