Prima o poi doveva accadere. Crescere, lavorare, pagare l’affitto, le tasse, smettere coi tacchi e tornare alle scarpe basse, correre, cucinare, poi mettersi a dieta, scivolare quasi verso gli ‘anta. E a quest’età qui, avere una discussione con il proprio compagno su Breaking Bad.
La prima di un paio di premesse che dovrebbero far sembrare una conversazione del genere meno folle è che sono rimasta vittima, come molti, della dipendenza dalle serie TV. Ne guardo tante, tutte in lingua originale, così evito di pagare le lezioni private di inglese e imparo un sacco di parolacce. Mi hanno fatto compagnia quando ero annoiata dal mio lavoro da dipendente mal pagata, quando sono stata disoccupata, quando ero single, quando ho traslocato e non conoscevo nessuno, e mi hanno dato un sacco di buoni consigli quando ho iniziato a scrivere storie. Così, adesso, se mia madre chiama e chiede cosa stai facendo, io rispondo sto lavorando, sto studiando le tecniche di storytelling degli sceneggiatori ameriggani. È per lavoro.
E lei ci crede.
La seconda premessa è che anche lui scrive, ma da molto prima di me. E mentre io formavo il mio immaginario leggendo gli autori russi crudeli e guardando film francesi lentissimi o noiosi documentari su festival musicali nel deserto o sui ginecei indiani, lui conosceva a memoria tutte le storie dei supereroi che io – lo ammetto – ho incrociato molto tardi e quasi esclusivamente grazie ai filmoni marveliani di ultimissima generazione.
Lui ha sempre amato protagonisti dalle grandi doti, coraggiosi, nobili, abili, il cui ruolo era combattere i cattivi, criminali, mostri, per rendere il mondo (il nostro o qualche altro pianeta alieno) un posto migliore. Io mi sono a lungo sorbita storie senza redenzione, ho preso le parti di Raskol’nikov in Delitto e Castigo, ho capito che Kafka, Hrabal, Keret non ti danno soluzioni né conforto, ma ti dicono soltanto “così stanno le cose. Stringi i denti”, mi sono rassegnata all’idea che non esista una Giustizia, ma alcune forme di giusto o sbagliato che cambiano con il tempo, il luogo, il progresso.
Lui crede che Walter White, nell’ultima stagione, abbia perso le sue motivazioni. Sostiene che avesse già esaurito la sua carica di rivalsa verso le ingiustizie subite, che avesse già espiato i propri errori e che sia diventato un personaggio poco credibile, con la fine della quarta. Al contrario, io ritengo che solo quando il nostro amato Heisenberg abbandona ogni alibi morale e ammette di provare piacere nell’essere bad, solo in quel momento lui diventa un personaggio perfetto.
Per farla breve e terminare la discussione, prima di ordinare la seconda brioche fatta col lievito madre nel baretto da hipster sotto casa, ho sintetizzato i nostri punti di vista (sebbene lui non confermi – ad oggi – la mia versione, che pur essendo molto semplicistica, mi aiuta ad andare avanti in questo maledetto post in cui mi sono impelagata).
Il mio compagno parte dal presupposto che l’essere umano sia buono per natura. La vita, le esperienze, la società, la miseria, gli abusi lo trasformano e lo rendono peggiore, fino a quando non interviene qualcuno con una moralità ancora intatta che lo salva. Gli uomini possono quindi sempre essere redenti, perché nascono esseri positivi.
Io sostengo che l’uomo sia per natura crudele, egoista, avido, tendenzialmente violento e guerrafondaio. Ha però capito che un’organizzazione sociale basata sul rispetto delle regole, sui buoni rapporti, sull’assistenza reciproca funziona molto meglio che il caos e ha quindi deciso di evolversi. In sostanza, nasciamo cattivi, ma la vita, le esperienze, la società, la cultura ci rendono migliori. Con buona pace della mia educazione cattolica, del catechismo e dei soldi spesi per farmi studiare, ho capito questa verità quando ero molto molto piccola.
La perdita della mia innocenza è avvenuta un giorno di quasi trent’anni fa, durante un pranzo nella mia scuola materna, il fu Istituto Parificato Ruggero Bonghi di Napoli, ormai estinto. Tra i compagni di classe, c’era un bambino più grande di noi, che soffriva di un handicap fisico che gli impediva di camminare, muoversi correttamente e di parlare. Suppongo fosse stato inserito nella nostra classe perché all’epoca non esistevano strutture adatte per assisterlo e le scuole elementari napoletane del periodo non fossero proprio il massimo. Lo suppongo soltanto, senza offesa per nessuno, perché ero solo una bambina dell’asilo, chennepotevosape’?.
A lui piaceva stare con noi, in compagnia, sebbene a tutti noi fosse evidente che era diverso: era alto, più grande, portava degli occhiali con le lenti spessissime, si muoveva in modo strano, non riusciva a comunicare.
Durante i pasti, le maestre ci facevano sedere ai tavolini esagonali, tiravamo fuori dal cestino i nostri piatti, le cuoche ci servivano la pasta e si mangiava tutti insieme.
Il giorno che è arrivato il bambino grande, le maestre lo hanno fatto sedere accanto a me e io gli ho voluto istintivamente bene. Non lo so spiegare. Aveva quella fragilità e inconsapevolezza che, a una bambina timida e introversa come me, non facevano paura.
Mentre stavamo mangiando, alcuni bambini hanno iniziato a prenderlo in giro, a fargli dei versi, a dire il suo nome, a toccarlo e lui non si rendeva conto e rideva e sembrava felice. Poi uno di quelli si è alzato ed è venuto a sputargli nel piatto.
Così. Con naturalezza.
Si è alzato dal suo tavolo, è venuto da noi e gli ha sputato nel piatto.
E io che l’ho visto fare questa cosa brutale, avevo una rabbia e un’incredulità che non riuscivo a spiegare. Insostenibile al punto che ancora la ricordo. Spiazzante.
Perché? Perché hai fatto una cosa del genere?
Avevo – quanti? – cinque anni e ho provato un disprezzo davvero profondo per un altro essere umano. Chiaro, netto.
Subito dopo, un altro bambino ha fatto lo stesso, sempre di nascosto dalle maestre (o almeno è quello che voglio ricordare). Poi un terzo. E il bimbo grande rideva, pensava fosse un gioco. Fino a quando non so come, ho trovato la forza di urlare basta, di allontanarli e di lasciare il mio piatto a quel bimbo grosso che continuava a pensare fosse un gioco. Non so come ci sono riuscita. Forse avevo anche le lacrime agli occhi.
Quelle merde di bambini avevano la mia età. Pochi anni. Per tutta la vita mi sono chiesta se fosse stato un istinto o un insegnamento appreso da qualcuno. Perché nessuno poteva avergli insegnato che quando vedi un disabile che mangia devi sputargli nel piatto. E sì, venivano da quartieri difficili del centro di Napoli, (ma anche io), e sì, alcuni di loro avranno avuto delle situazioni familiari poco serene, (ma anche io), ma mi risulta molto difficile credere che non fosse qualcosa di innato in loro, che non dipendesse dal fatto che nasciamo cattivi e solo poi capiamo che essere cattivi è sbagliato.
Credo sia stata una delle più precoci e violente frustrazioni della mia vita, quella sensazione di non poter far altro che allontanarli, di sapere di non poter proteggere tutti i bimbi grossi dagli schifosi bambini malvagi.
È stato forse il primo momento in cui ho messo in dubbio la mia fiducia nel genere umano.
Cosa è successo, poi?
Che negli anni ho imparato un altro tipo di fiducia: quella nelle persone. Singole. Preziose. No razza umana, ma alcuni uomini. Adesso so per certo che il mondo non è un posto orribile, o meglio, non così orribile, perché ci sono anche persone che sanno renderlo bello. E tra queste, purtroppo, non ci sono io, perché sono pigra, vigliacca, perché da bambina potevo diventare un supereroe e lottare contro le ingiustizie, e invece non ci ho mai provato davvero.
Perché anch’io ho perso le mie motivazioni e sono entrata nella mia quinta stagione di Breaking Bad.
Sono ancora convinta che gli essere umani nascano perfidi. E poi guadagnano la loro fetta di paradiso solo vivendo. Come resto dell’idea che questa nuova epoca non abbia bisogno di supereroi, ma di antieroi.
Nessuno riuscirebbe più a identificarsi in Superman, perché lui è ed è sempre stato alieno. Mentre, quando ci raccontano storie di cattivi che sono anche un po’ buoni e di buoni che sono anche figli di puttana, allora possiamo sentirci pronti a fare grandi cose.
Questo volevo spiegare l’altro giorno a colazione al mio ragazzo, poi sono arrivati i caffè e abbiamo cambiato argomento. Volevo dirgli che Breaking Bad ha senso perché ci mette di fronte al nostro grande limite, non ci racconta che è la società a renderci cattivi, ma che siamo tutti cattivi, salvo scegliere di non esserlo. Almeno credo.
E non so se dopo queste deliranti parole potrà darmi ragione. L’unica cosa su cui siamo d’accordo è che i telefilm con gli zombie sono molto, molto meglio.
P.s. per la cronaca, ho googlato per la corretta grafia di Raskol’nikov.