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La Ferrante è tornata: ho letto in anteprima La vita bugiarda degli adulti (e l’ho amato)

Ho letto in anteprima il nuovo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti.

Elena Ferrante - La vita bugiarda degli adulti

Ricevutane un copia dall’editore, a 48 ore dall’uscita a scaffale, ho rinunciato al sonno per poterlo finire in fretta, orfana da anni di trame e personaggi di un’autrice che ho amato con la pancia, prima che con la testa. La lettura di getto e notturna mi è sembrata un gesto di devozione dovuto e, a pochi minuti dall’ultima riga, ho deciso di rispolverare un luogo di vecchie glorie, come questo blog, per raccontare quello che ho vissuto in queste 300 intense pagine.

Termino la mia premessa aggiungendo che la mia è stata una lettura vergine, senza prima aver sbirciato una sinossi o anche solo letto qualche recensione degli addetti ai lavori. Tutto quello che annoto qui è la confusa analisi di una donna con troppe ore di veglia alle spalle, che non è più in grado di scrivere libri suoi, ma che ha una nuova e vivida capacità di leggere e rileggere quelli degli altri.

Il romanzo è la storia di un periodo crudele, “gli anni brutti” dell’adolescenza, come li definisce la stessa autrice, raccontati in prima persona da Giovanna, una ragazzina della Napoli bene, del Rione Alto, cresciuta tra gli agi, le ostentate libertà, il linguaggio studiato e le ipocrisie delle famiglie borghesi.

Giovanna è all’inizio della sua inarrestabile metamorfosi, sta abbandonando l’età dell’infanzia, con le sue gioie confortevoli, con la venerazione sconfinata nei suoi genitori, con la percezione ovattata del corpo, della sua immagine e dei suoi confini. Lo sgretolarsi inevitabile del suo bozzolo comincia con un bisbiglio di suo padre appena captato, con la scoperta di non essere la figlia perfetta, con un paragone che il suo amato genitore fa tra lei e una zia che non ricordava di avere, con la rivelazione di possedere una famiglia che non conosceva, con legami di sangue con la Napoli bassa, quella della miseria, della violenza, dell’allegria rabbiosa e volgare.

Come una minuscola crepa allargata con le unghie e i polpastrelli, da un’epifania spaventosa ne derivano altre, in un crescendo di rivelazioni, di dubbi, di consapevolezze e di fastidio. Il suo nuovo contatto con un’umanità più greve e più passionale, impersonata dalla maestosa e infelice zia Vittoria, sorella del padre, dà a Giannina il coraggio di guardare oltre le apparenze, di spiare i grandi, di scoprirne le bugie, le maschere, le insicurezze. Il tutto mentre cerca il suo ruolo tra i coetanei, a volte respingente, a volte esageratamente provocatoria.

Alto e basso, miseria e nobiltà, felicità e disperazione,  sesso e innocenza, sono gli estremi tra cui spazia la narrazione, senza dimenticare l’ossessione maggiore che permea il libro e i pensieri della ragazzina: la dicotomia tra il bello e il brutto.

Giovanna si scopre brutta e si interroga sull’apparenza, sul legame tra cattiveria e bruttura, tra serenità e bellezza. Un’indagine non solo filosofica, ma pragmatica, perché come i ragazzini (ma spesso anche gli adulti) pensano i belli sono desiderati, amati, ricercati, chiavano, mentre i brutti sono destinati alla solitudine.

E poi genitori che si separano, amori mai dimenticati, arrivismo, avidità, solitudine e riscatto.

La Ferrante viviseziona l’adolescenza, evitando la maniera stereotipata di chi ha ormai troppi anni e ha dimenticato la gravità, il dolore e la fatica dei tormenti. L’autrice ci riporta nella pelle di una quindicenne e ci lascia lì, senza protezione, a riviverne i dolori, in una corsa affannosa attraverso le parole, fino all’ultima (non troppo) catartica riga.

È inevitabile un’analisi comparativa, dopo aver amato e venerato per un lustro L’amica geniale. C’è meno epicità, ne La vita bugiarda degli adulti, e quasi nulla del destino corale che ci aveva legati ai romanzi precedenti. Un pur nutrito teatro di personaggi, alcuni anche invadenti come la famosa zia, non trovano che lo spazio di comprimari nell’unica, sola e dolorosa (non è forse questa la cifra normale a quell’età?) protagonista, l’adolescenza di Giovanna.

A prendere le distanze dalla vita di Lenù e Lila è anche la toponomastica, così oscura, vaga e quasi magica nei precedenti libri, qui diventa chiara, meticolosa, didascalica. La città viene attraversata con il Tuttocittà alla mano, e sappiamo che qui succede questo, là quell’altro, in una scenografia quasi teatrale, con il sole e il bello in alto, e la polvere, il buio, lo sporco in basso.

Gli uomini della Ferrante, anche i più eccelsi, sono ancora una volta pieni di difetti di fabbricazione, vittime del proprio ego, oppure fragili, rotti, in fuga da loro stessi e dall’onnipresente, onnisciente, generosa e crudelissima Napoli.
Le donne tessono trame, muovono fili, sono capaci di sentimenti eroici ed estremi, la rabbia, la paura, l’amore assoluto. Eppure ancora una volta, e forse maggiormente  che nel resto del mondo ferrantiano, non riescono a liberarsi dalla prigionia di ruoli imposti che detestano. Tutte, tranne Giovanna, e forse in parte la sua amichetta Ida, che decidono che la vergogna e il senso di colpa non sono prezzi così alti da pagare per essere diverse e, forse, libere.

Non rivelo troppo della trama, perché ritengo che vada scoperta in solitudine e, anche se le prime pagine richiederanno per alcuni un atto di fede, la lettura vi lascerà come mi sento io in questa piovosa e fredda giornata: pieni, sazi, soddisfatti, appagati nell’attesa e vittime di una non meglio definita nostalgia.

Buona lettura.

Libri in attesa: Le ragazze di Emma Cline

-Che hai fatto in tutti questi mesi, Dania?
-Sono andata a letto presto. Ah, e ho letto tanti libri.

Avevo immaginato una gravidanza diversa, piena di progetti portati a termine, viaggi, cose da fare e persone da vedere perché poi non avrò più il tempo di, lavori accumulati per guadagnare il più possibile, soggetti da completare e spedire agli editori per assicurarmi di non essere dimenticata troppo presto. Non ce l’ho fatta. Ho scritto e pubblicato il mio ultimo romanzo durante i tre mesi di nausee, ho passato una bellissima estate al mare a non fare assolutamente nulla, ho lavoricchiato, ho visto amici, ho fatturato quello che ho potuto, sono ingrassata, ho preparato il nido, sono ingrassata un altro po’ e lo sto ancora facendo.
I libri mi hanno fatto compagnia nelle giornate lunghissime in cui non potevo correre/saltare su un aereo/fare sforzi/bere vino, alcuni divorati in un pomeriggio, altri trascinati a lungo in giro per i caffè della città, altri ancora abbandonati dopo poche pagine.

Vi racconto quelli che più hanno alimentato sogni e incubi di queste notti lunghe, sperando che vi venga voglia di leggerli o di non leggerli mai, perché così dovrebbe funzionare con le storie: non tutte devono essere per forza vissute da noi impavidi ed esigenti lettori.

Pronti per la mia (breve, lo giuro!) lista? Cominciamo.

Le ragazze

Sono una lettrice snob e come i miei simili ho un’avversione per i successi annunciati, mi provocano un dolore quasi fisico, simile all’orticaria e all’alluce che si schianta contro il bordo del divano. Se lanci un romanzo dichiarando che è “il libro dell’anno” e magari siamo al 6 gennaio e non l’ha ancora letto nessuno, mi fai venire voglia di non acquistarlo e sfogliarlo mai mai mai.
Le ragazze di Emma Cline (Ed. Einaudi, 18 euro) era destinato a essere uno dei titoli che non avrebbero mai trovato rifugio sui miei scaffali, esordio di un’autrice poco più che ventenne “taggato” già in fascetta come capolavoro, piazzato strategicamente nei posti migliori delle mie librerie di fiducia e consigliato da tutte le persone del cui giudizio mi fido pochissimo. E invece…

Evie, fresca adolescente annoiata, figlia di una madre benestante e new age e di un padre patetico che lascia tutto il poco che ha per un’amante più giovane, è in cerca di attenzioni. I suoi quattordici anni le calzano male come un vestito preso in prestito e ha una fretta molesta di emozioni, cambiamenti, amore. I giorni si susseguono uguali e noiosi come il ritornello di una canzone brutta, fino a quando non incontra le “ragazze” in un parco cittadino,  capelli lunghi, vestiti corti, sfacciate, terribili e si lascia trascinare da loro in quella che le sembra essere la vita vera. Finisce al ranch, una comune tra le colline, zozza e libertina come i meravigliosi anni ’60 ormai al tramonto, guidata dal carismatico Russell, wannabe musicista e improvvisato santone che gode della venerazione di molti seguaci. La storia è un déjà-vu, se come me avete visto in una sola settimana tutte le due stagioni di Aquarius e avete googolato tutto lo scibile su quelle simpatiche canaglie di Charles Manson e i suoi scagnozzi: il crescendo di rabbia e frustrazione, il delitto famoso, le donne che eseguono e il guru che fa da mandante, la droga, il sesso, il sangue.
I fatti sono quelli della triste cronaca, quello che colpisce, però, è il punto di vista, il racconto di un’adolescenza da cui forse non ci emancipiamo mai, le sensazioni della fatica e dello stupore di vivere che subiamo a quindici anni e che forse segnano davvero tutto il resto della nostra esistenza.
Ho rivissuto emozioni (spesso sgradevoli) che avevo rimosso, così attenta come sono stata a seppellire il disagio provato ere geologiche fa di non essere più bambina e non essere ancora adulta.
Ho gradito meno la retorica che ogni tanto affiora sul bisogno delle donne di seguire un uomo comunque e ovunque, ma ho cercato di circoscriverla al tempo storico in cui è ambientato per la maggior parte il romanzo.
E poi, Emma Cline scrive dannatamente bene!
Siamo sicuri che abbia solo 24 anni? Che il traduttore non sia intervenuto per rendere più gradevole un testo acerbo? Che non ci sia troppo cesello di un bravo editor, dietro? Perché quando incontro penne così felici, anche se la trama non mi toglie il fiato, non riesco comunque a staccare gli occhi dalle righe (e ho bisogno di tanto zucchero per rimettere in sesto la mia autostima).
A quell’età il desiderio era spesso un atto di volontà” e “c’era solo la soffocante, perenne presenza di me stessa, una compagnia stupida e disperata” sono solo un paio delle frasi che ho sottolineato, che riassumono perfettamente il mio pensiero su quel periodo della vita che non ho amato per nulla (povero figlio mio, quando ci arriverai!).

Un romanzo che consiglio, scorrevole, potente, con una storia non troppo originale, ma di sicuro gradevole.
Se il mondo fosse un posto giusto, l’autrice dovrebbe aspettare almeno la mia età per pubblicare un altro bel libro (e non farmi sentire ormai troppo vecchia).