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L’anno che sta arrivando (e quello che se ne va)

Sarà forse l’ansia del freelance, un po’ di strizza e grande speranza nel futuro, sarà che quando si invecchia rimorsi e rimpianti si mescolano e tutto sta nel rimanere a galla, sarà che le feste mi rendono malinconica e la malinconia è un abito avvolgente e caldo, ma non riesco a fare a meno dei bilanci.

Il 2023 è stato un anno di limature, per arrivare a fine mese, per dormire mezz’ora in più, per rientrare nei vecchi jeans, per riuscire a consegnare nelle scadenze, per provare a fatturare di più, per tagliare le spese, per trovare del tempo per me.

“La vita è aggiunta fino ai 40 anni, dopo è sottrazione”, dice un illuminato Sylvester Stallone e non me la sento di dargli torto.

Quest’anno si è portato via un pezzo di famiglia, lasciando un vuoto incolmabile. Ma è stato anche l’anno in cui ci siamo sposati, scalzi in riva al mare, in una festa così bella che ci verrebbe quasi voglia di replicarla ogni anno.

È stato l’anno in cui, dopo troppi anni, ho finito il mio nuovo romanzo. Romanzo che però non siamo riuscite a vendere a un editore e chissà se vedrà mai la luce.
Un anno in cui ho viaggiato poco, ma in cui ho visto tanto mare.
Un anno in cui ho lavorato poco, ma erano tutti progetti bellissimi.
Un anno in cui sono diventata bravissima a parlare inglese.
Un anno in cui sono tornata in radio, in Tv e a parlare in pubblico.
Un anno in cui ho ascoltato molta opera lirica.
Un anno in cui mi sono chiesta cosa verrà dopo, perché tra pochi giri di boa ci saranno i cinquanta e io me l’ero sempre immaginata diversa la vita.
Un anno di senso di colpa, per quello che vedo e leggo, per l’impotenza di non poter cambiare le cose, per la fatica di arrancare sapendo che siamo comunque molto più fortunati di buona parte di mondo.

Cosa mi auguro per l’anno nuovo?
Più tempo con le persone che amo, più viaggi, più serate fuori, più soldi, molti più soldi (magari – lo dico? – uno stipendio fisso). Mi auguro la salute e che tutti in famiglia mantengano più a lungo possibile memoria e ricordi. Mi auguro di avere voglia di scrivere altre storie, nonostante tutto. Mi auguro di ritornare ad avere fiducia nel mio paese e nel futuro. Mi auguro che la sottrazione già in atto mi tolga solo le cose superflue. Mi auguro di essere così rivoluzionaria da non sentire mai più il bisogno di apparire, ma il privilegio e la leggerezza di sparire. Mi auguro che la vita sia bella e gentile, che ci siano sempre caffè, buoni libri, la musica, gli amici, il vino, le serie TV, l’entusiasmo dei bambini, gatti da accarezzare e mattine passate a dormire senza la sveglia che suona.
Mi auguro ci sia libertà di scelta.

Buona fortuna a tutte e tutti.

La Ferrante è tornata: ho letto in anteprima La vita bugiarda degli adulti (e l’ho amato)

Ho letto in anteprima il nuovo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti.

Elena Ferrante - La vita bugiarda degli adulti

Ricevutane un copia dall’editore, a 48 ore dall’uscita a scaffale, ho rinunciato al sonno per poterlo finire in fretta, orfana da anni di trame e personaggi di un’autrice che ho amato con la pancia, prima che con la testa. La lettura di getto e notturna mi è sembrata un gesto di devozione dovuto e, a pochi minuti dall’ultima riga, ho deciso di rispolverare un luogo di vecchie glorie, come questo blog, per raccontare quello che ho vissuto in queste 300 intense pagine.

Termino la mia premessa aggiungendo che la mia è stata una lettura vergine, senza prima aver sbirciato una sinossi o anche solo letto qualche recensione degli addetti ai lavori. Tutto quello che annoto qui è la confusa analisi di una donna con troppe ore di veglia alle spalle, che non è più in grado di scrivere libri suoi, ma che ha una nuova e vivida capacità di leggere e rileggere quelli degli altri.

Il romanzo è la storia di un periodo crudele, “gli anni brutti” dell’adolescenza, come li definisce la stessa autrice, raccontati in prima persona da Giovanna, una ragazzina della Napoli bene, del Rione Alto, cresciuta tra gli agi, le ostentate libertà, il linguaggio studiato e le ipocrisie delle famiglie borghesi.

Giovanna è all’inizio della sua inarrestabile metamorfosi, sta abbandonando l’età dell’infanzia, con le sue gioie confortevoli, con la venerazione sconfinata nei suoi genitori, con la percezione ovattata del corpo, della sua immagine e dei suoi confini. Lo sgretolarsi inevitabile del suo bozzolo comincia con un bisbiglio di suo padre appena captato, con la scoperta di non essere la figlia perfetta, con un paragone che il suo amato genitore fa tra lei e una zia che non ricordava di avere, con la rivelazione di possedere una famiglia che non conosceva, con legami di sangue con la Napoli bassa, quella della miseria, della violenza, dell’allegria rabbiosa e volgare.

Come una minuscola crepa allargata con le unghie e i polpastrelli, da un’epifania spaventosa ne derivano altre, in un crescendo di rivelazioni, di dubbi, di consapevolezze e di fastidio. Il suo nuovo contatto con un’umanità più greve e più passionale, impersonata dalla maestosa e infelice zia Vittoria, sorella del padre, dà a Giannina il coraggio di guardare oltre le apparenze, di spiare i grandi, di scoprirne le bugie, le maschere, le insicurezze. Il tutto mentre cerca il suo ruolo tra i coetanei, a volte respingente, a volte esageratamente provocatoria.

Alto e basso, miseria e nobiltà, felicità e disperazione,  sesso e innocenza, sono gli estremi tra cui spazia la narrazione, senza dimenticare l’ossessione maggiore che permea il libro e i pensieri della ragazzina: la dicotomia tra il bello e il brutto.

Giovanna si scopre brutta e si interroga sull’apparenza, sul legame tra cattiveria e bruttura, tra serenità e bellezza. Un’indagine non solo filosofica, ma pragmatica, perché come i ragazzini (ma spesso anche gli adulti) pensano i belli sono desiderati, amati, ricercati, chiavano, mentre i brutti sono destinati alla solitudine.

E poi genitori che si separano, amori mai dimenticati, arrivismo, avidità, solitudine e riscatto.

La Ferrante viviseziona l’adolescenza, evitando la maniera stereotipata di chi ha ormai troppi anni e ha dimenticato la gravità, il dolore e la fatica dei tormenti. L’autrice ci riporta nella pelle di una quindicenne e ci lascia lì, senza protezione, a riviverne i dolori, in una corsa affannosa attraverso le parole, fino all’ultima (non troppo) catartica riga.

È inevitabile un’analisi comparativa, dopo aver amato e venerato per un lustro L’amica geniale. C’è meno epicità, ne La vita bugiarda degli adulti, e quasi nulla del destino corale che ci aveva legati ai romanzi precedenti. Un pur nutrito teatro di personaggi, alcuni anche invadenti come la famosa zia, non trovano che lo spazio di comprimari nell’unica, sola e dolorosa (non è forse questa la cifra normale a quell’età?) protagonista, l’adolescenza di Giovanna.

A prendere le distanze dalla vita di Lenù e Lila è anche la toponomastica, così oscura, vaga e quasi magica nei precedenti libri, qui diventa chiara, meticolosa, didascalica. La città viene attraversata con il Tuttocittà alla mano, e sappiamo che qui succede questo, là quell’altro, in una scenografia quasi teatrale, con il sole e il bello in alto, e la polvere, il buio, lo sporco in basso.

Gli uomini della Ferrante, anche i più eccelsi, sono ancora una volta pieni di difetti di fabbricazione, vittime del proprio ego, oppure fragili, rotti, in fuga da loro stessi e dall’onnipresente, onnisciente, generosa e crudelissima Napoli.
Le donne tessono trame, muovono fili, sono capaci di sentimenti eroici ed estremi, la rabbia, la paura, l’amore assoluto. Eppure ancora una volta, e forse maggiormente  che nel resto del mondo ferrantiano, non riescono a liberarsi dalla prigionia di ruoli imposti che detestano. Tutte, tranne Giovanna, e forse in parte la sua amichetta Ida, che decidono che la vergogna e il senso di colpa non sono prezzi così alti da pagare per essere diverse e, forse, libere.

Non rivelo troppo della trama, perché ritengo che vada scoperta in solitudine e, anche se le prime pagine richiederanno per alcuni un atto di fede, la lettura vi lascerà come mi sento io in questa piovosa e fredda giornata: pieni, sazi, soddisfatti, appagati nell’attesa e vittime di una non meglio definita nostalgia.

Buona lettura.

Se mio figlio potesse capire

Se mio figlio potesse capire, se riuscisse a comprendere, gli direi che quei bambini vestiti di rosso, quelli che avevano la sua età, che saranno stati lunghi poco più di ottanta centimetri, che forse non arrivavano a dieci, undici chili, gli direi che quei bambini erano in mare per un caso.
Perché per caso, figlio mio, tu sei nato qua e loro là, per caso tu hai il triciclo, i pupazzi, il seggiolone che si reclina e loro, sempre per caso, hanno la fame, hanno paura.
Tu non hai meriti, e non ne ho io, che ho potuto vivere, scegliere, viaggiare, lavorare all’estero e tornare, mostrare il mio passaporto a ogni frontiera e sentirmi dire sempre va bene, puoi passare. Non abbiamo meriti a stare in pace, a non avere bombe sulle testa, a non avere mortammazzati intorno, a non subire abusi, torture, vessazioni, violenza, a non avere freddo, a non avere fame. Non abbiamo nessun merito ad avere la nostra cittadinanza, non l’abbiamo vinta, non l’abbiamo guadagnata, non l’abbiamo conquistata. Siamo nati per caso in un posto in cui ci sentiamo uomini, più uomini di tutti gli altri uomini, e per caso, per sfortuna, per sorte loro sono là, dove l’umanità, a noi che la guardiamo con le nostre lenti da sole da qui, sembra più sfumata.

Gli direi che erano in mare per un sogno, quei bambini, non un sogno loro, troppo piccoli, troppo fragili, ma un sogno dei loro genitori che chissà quanto li avranno amati, quanto io amo te che certi giorni sembra quasi intollerabile, faticoso, tutto questo amore, tutta questa necessità che tu stia bene, sempre bene, e non sappiamo, non lo sapremo mai, quanto dolore e disperazione e quanta speranza hanno portato quelle madri a salire su un gommone troppo piccolo, troppo stretto e malmesso per tutta quella gente, a tenerli stretti in petto, con i giubbotti di salvataggio, a pregare che arrivi qualcuno, qualcuno a salvarci, ma qualcuno non arriva perché non c’era abbastanza carburante e gli hanno impedito i rifornimenti a Malta e magari sarebbero arrivati in tempo se quell’umanità, magari vista da più vicino, sarebbe sembrata proprio uguale alla nostra.

Gli direi di non sentirsi mai migliore, di non sentirsi più giusto, di non credere di meritare più diritti.
Quei bambini vestiti di rosso, perché il rosso si vede prima in mare, con le scarpe strette, con i corpi rigidi, quei bambini che hanno avuto paura, quanta paura, che avranno pensato perché mamma non mi salva, perché papà non fa niente, c’è tanto freddo, tanta acqua, quei bambini erano come lui.
Uguali a lui.
Ma mentre io spingevo e spingevo e lui nasceva in un ospedale del centro di Milano, in Italia, in Europa, loro stavano nascendo dall’altro lato del mare, in Egitto, in Marocco, in Siria, altrove, in un lato del mare in cui sei meno fortunato e non l’hai scelto.

Se potesse capire gli spiegherei che non abbiamo virtù, non abbiamo pregi, non siamo più degli altri, ma che abbiamo costruito muri, confini, divieti, abbiamo deciso che da una parte sì e dall’altra no, di qua bene e dall’altra parte non è un nostro problema.

Per fortuna non capisci figlio mio, non capisci ancora, che a crescere, a diventare uomini si perde umanità e un giorno il mare si porta via centinaia di persone, si porta via i bambini come te che volevano soltanto vivere e noi restiamo qui a non fare niente, non facciamo niente, restiamo a guardare a indignarci, a cambiare canale e quello che valiamo, come uomini, donne, madri, padri, figlie e figli, è meno di niente.

Club sandwich d’autore

Durante la lunga estate calda in cui ho scritto la tesi di laurea, sono tornata a vivere da mia madre.
Avevo bisogno di un posto che non mi concedesse distrazioni, in cui non ci fossero coinquilini con la musica a tutto volume a qualsiasi ora del giorno, il cui livello di pulizia fosse sempre perfetto e, soprattutto, in cui ci fosse un frigo pienissimo, perché da sempre il mio appetito triplica quando devo studiare o scrivere.

A casa da mammà, in quel periodo, viveva ancora mio fratello, alle prese con i suoi faticosi esami di ingegneria. Ci controllavamo a vicenda, stando attenti che l’altro non perdesse tempo in sciocchezze (non esistevano né i social network né le serie tv in streaming all’epoca: per perdere tempo dovevi leggere un libro o guardare qualche televendita con Mike Bongiorno) e, con una disciplina che non ho più avuto nel lavoro, riuscivamo a concederci poche pause calcolate per riprendere le energie.

C’era la pausa in cui facevamo partite a Bubble Bobble con il Nintendo, quella in cui Paolo vinceva sempre e io uscivo sistematicamente dai gangheri. Quindi lui diceva che non voleva più giocare con me perché non sapevo perdere e io gli promettevo che non sarebbe più accaduto fino alla pausa successiva, in cui cercavo di lanciare la vecchia pesantissima tv a tubo catodico giù dalla finestra.

E poi c’era la pausa per il pranzo, rigorosamente fatta all’ora in cui trasmettevano i Simpson, per unire l’utile al dilettevole.

Siamo sempre stati creativi in cucina, mio fratello e io, ma in quel periodo abbiamo dato vita alle nostre migliori ricette. Su una cosa eravamo imbattibili: le giuste formule per i sandwich. Perché per noi era importante riuscire a combinare il maggior numero di ingredienti possibili, nel minor tempo, senza rinunciare alla maneggiabilità del panino, al gusto e all’equilibrio.

Il panino a strati diventava un momento di condivisione e creatività davvero rilassante, senza contare che riuscivamo a infilare tra le fette di pane dei pasti completi. E che c’erano poche pentole da pulire!

Mi sono laureata in autunno con il massimo dei voti e poi la vita ha preso strade inaspettate. Mio fratello è partito per il Brasile e ci è rimasto dieci anni. Ogni volta che ci incrociavamo in giro per il mondo, come adesso che è tornato “a casa”, la cosa più bella e rilassante è sempre cucinare insieme.
Siamo ancora Masterchef di panini.
Speriamo un giorno che possano piacere ai nostri figli quanto piacciono a noi.

Una delle mie ricette preferite è il family club sandwich.

Per prepararlo occorrono

4 fette di pancarré senza crosta
4 fette di Edam Bayernland*
1 fetta di petto di pollo
1 uovo sodo
1 foglia di lattuga
1 pomodoro
senape o maionese (ma meglio la senape!)

Ingredienti Club Sandwich

Tostate il pane separatamente, facendo attenzione a non farlo seccare troppo. Intanto, rosolate in padella il petto di pollo, affettate l’uovo sodo e il pomodoro a rondelle e lavate e asciugate con cura la foglia di lattuga. Spalmate la senape su un solo lato delle due fette di pane esterne al panino e su entrambi i lati di quelle che resteranno all’interno poi disponete gli ingredienti come preferite, ricordando di creare tre strati di sandwich. Il mio consiglio per una consistenza perfetta? Pane, lattuga, petto di pollo, pane, edam, uovo, edam, pane, edam, pomodoro, edam e pane.

Et voilà!

Club Sandwich

Dividete con cura il club sandwich in due metà, dopo averle infilzate con due stecchini e servite.
Il contorno perfetto? Patatine fritte.
E alla prova costume penserete domani…

*Post in collaborazione con Bayernland

Le déjeuner sur l’herbe (avec le fromage)

A vent’anni abitavo a Parigi.
Ci ero finita per fare un Erasmus di nove mesi e mi sono fermata due anni.
È stato un periodo bellissimo e intenso, tra quelli che ricordo con più nostalgia, non solo perché avevo l’età delle possibilità e dell’entusiasmo, l’incoscienza e la leggerezza della gioventù, ma anche perché ho sempre trovato quella città magica, forse la prima in cui mi sia sentita davvero a casa.
Parigi mi somiglia, perché è riservata, ma socievole, perché sa essere austera, ma anche molto festaiola, perché può essere elegantissima, ma anche sciattissima, senza perdere fascino, perché dà sempre il buongiorno, ma non è obbligata a fare due chiacchiere, perché è normale andare al cinema da soli, magari a una matinée, bere un bicchiere di vino ai tavolini tondi dei bistrot in compagnia soltanto di un libro, perché è fatta di mille etnie, odori, sapori eppure ha una sua fortissima identità.

Una delle cose che amavo di più, era l’abitudine francese di correre a fare pic-nic ogni volta che usciva un raggio di sole. I parchi, i boschi e gli spazi verdi sono presi d’assalto, nelle belle giornate, anche in quelle ancora poco tiepide, da famiglie, gruppi di studenti, lavoratori in pausa pranzo, turisti, tutti con la baguette sotto il braccio, i fiaschi di vino, i cestini di vimini pieni di cibo e i plaid a quadroni per potersi stendere sull’erba.

L’amica che veniva più spesso con me a pique-niquer era esperta di “dadolamento” della frutta. Preparava delle porzioni di frutta tagliata e pezzi e spesso si limitava a mangiare solo quella, lasciando il resto. Quando le ho suggerito di aggiungere alle sue macedonie anche dei cubetti di formaggio c’è stata la svolta nei nostri pranzi all’aperto. Perché lei ha iniziato a preparare delle grandi insalate di formaggio e frutta e null’altro.
Insomma, al parigino non far sapere quanto è buono il cacio con le pere.

Ancora oggi, per rinfreschi veloci, pranzi in spiaggia e scampagnate, io preparo gli spiedini colorati, con frutta fresca o secca e pezzi di formaggio.

Per una porzione per una persona (circa tre spiedini) occorrono:

1 fetta di formaggio stagionato Pamigo Bayernland*
1 kiwi
1 mela farinosa
3 rondelle di ananas fresco
4 prugne secche
4-5 fragole
3 bastoncini di legno per spiedini

ingredienti spiedini

Tagliate a dadi grandi il formaggio e a spicchi la mela, l’ananas e il kiwi (io lascio le fragole intere e scelgo prugne denocciolate), poi infilzate tutto sugli spiedini alternando a piacere la frutta e il formaggio. È importante fare attenzione a non rompere gli ingredienti, per un risultato migliore. Conservate gli spiedini in frigo, fino a mezz’ora prima di consumarli, e serviteli lisci o con del miele.
Veloci e freschi.

Non vi fanno venire voglia di una gita?

spiedini al pamigo

Potete mangiarli anche al sole del balcone e sentirvi comunque a Parigi.

Bon appétit!

*Post in collaborazione con Bayernland.

La fatica dei sogni

Non mi sono mai pentita di aver scelto la libera professione.
Avevo un posto da dipendente, facevo un bel lavoro, guadagnavo pochissimo, ero pendolare (Padova-Venezia, 42 km all’andata, 42 km al ritorno), la mia era una piccola azienda con delle colleghe carinissime e con proprietario “paròn”, che ci considerava figli quando tutto andava bene e mangiapane quando le cose si mettevano male.
 
Ho lasciato tutto senza avere un progetto, sono venuta a Milano, sono stata fortunata perché cambiare le cose ha smosso le acque, ha cambiato l’energia intorno a me e sono arrivati contatti, progetti, proposte, novità.
 
Adesso faccio il lavoro che ho sempre sognato, guadagno di più di quando avevo il posto fisso (ma ho avuto anche periodi di pane e cipolla), gestisco il tempo in maniera più razionale, riesco a stare più ore con mio figlio di quante ne passerei se fossi in ufficio.
Non ho nessuna certezza.
I miei progetti non vanno mai oltre i 4-5 mesi. Otto mesi, quando va bene.
Ho barattato la tranquillità per il tempo, la sicurezza per la scrittura, il contratto per il contrattare.
Mi ripeto sempre che avrei dovuto farlo molto prima, perché questa vita mi calza a pennello.
Ma ritengo che ognuno debba poter scegliere qual è la sua strada, condizioni permettendo.
Ripeto: se le condizioni lo permettono.
Perché ambizioni, progetti e sogni devono pur coincidere con la realtà.
 
Nel nostro piccolo dovremmo avere il coraggio di scegliere sempre l’opzione che ci somiglia di più, anche se richiede più sforzo. Ma nel caso non avessimo alternative, dovremmo cercare di non maledire la sorte e provare a cambiare il poco che possiamo.
 
Realizzare sogni, grandi o piccoli, presuppone fatica. Anche se nessuno te lo racconta mai, perché è più poetico raccontare che tutto accade per destino. Il destino (anche detto botta di cu*o) conta in minima parte. Servono volontà, determinazione, fame e ottimismo.
Io l’ottimismo non l’ho mai avuto, però ho fame per un esercito.
Buona fortuna.

Una farfalla non fa primavera

Sono una tipa da mezze stagioni.
Non mi piace l’inverno, troppo buio, con le giornate corte, i vestiti pesanti, la pelle grigia e il freddo che ti aspetta fuori dal letto, quando sei costretto a lasciare il tepore del piumone la mattina. Non amo nemmeno troppo l’estate, con il caldo insopportabile, le spiagge affollate, il divertimento a tutti i costi, le code interminabili in autostrada per meritarsi qualche giorno di ferie e le stupide zanzare.

Mi piacciono le stagioni tiepide, in cui non sudi e non hai i brividi, quelle in cui puoi uscire indossando soltanto il golfino, puoi pranzare all’aperto, puoi muoverti in bicicletta, puoi andare a correre al parco (o puoi anche solo immaginare di farlo, perché per certe cose basta il pensiero).

La primavera è la stagione perfetta: c’è luce fino a tardi, puoi lasciare sciarpe e guanti nell’armadio, è il momento giusto per pianificare lunghi viaggi, quello per iniziare nuovi lavori, per vivere qualche avventura, per flirtare.
Avete mai provato a innamorarvi a febbraio, quando la temperatura va sotto zero e la cosa più romantica che può accadervi è infilarvi a letto con la borsa dell’acqua calda?
Aprile è il mese giusto per far scattare le scintille, per conoscere, per emozionarsi, per sognare, per fare progetti (anche quelli che non realizzeremo mai).

Ed è il momento giusto per iniziare a prenderci cura di noi, a mangiare bene, a sgonfiarci un po’, per sentirci più leggeri e per superare, senza angosce, la prova costume.

Quando arrivano le belle stagioni, io divento salutista e fanatica delle insalate… quelle di pasta, però, i piatti unici che preferisco in assoluto.
Potrei mangiarle anche tutti i giorni (e durante la gravidanza credo di averlo fatto). Sono facili da preparare, ottime da conservare e puoi variare sempre gli ingredienti, così non ti annoi mai. Inoltre sono un pasto completo, che sazia e che dà soddisfazione.

Quella che vi suggerisco l’ho chiamata Le farfalle a primavera.

Per prepararne una porzione occorrono:

– 80 grammi di pasta formato farfalle (scrivo 80 perché la mia dietologa mi legge, ma per me butto almeno 150 grammi 😉
– Una fetta di formaggio stagionato Pamigo Bayernland
– Pomodorini secchi sott’olio
– Olive nere alla greca
– Basilico fresco
– Sale qb
– Olio evo qb

Ingredienti pasta

Dopo aver cucinato la pasta e averne stemperato la temperatura aggiungendo un po’ di olio crudo, unisci le olive, i pomodorini a pezzetti e il formaggio tagliato a dadini. Mescola tutto e decora con il basilico e con altri pezzetti di formaggio.

Farfalle a primavera

Veloce e buonissima.

E a stomaco pieno è ancora più facile essere felici.

*Post in collaborazione con Bayernland

La verità che non ti hanno detto sulla libertà

Ti hanno mentito.
Ti hanno mentito quando ti hanno detto che la libertà è facile, che tutto quello a cui devi ambire è fare quello che ti far star bene, che volere è potere, che puoi decidere cosa diventare nella vita perché il mondo è tuo e basta allungare le mani per prenderlo.

Ti hanno mentito quando ti hanno detto che le scelte vanno prese d’istinto, che basta chiudere gli occhi e fare la conta amabararàciccìcocò, che non devi ascoltare nessuno e seguire la tua strada, che sei migliore degli altri, che puoi arraffare quello che vuoi perché nessuno ti chiederà mai il conto.

La libertà ha un prezzo carissimo, il costo più alto; la libertà di decidere come vivere, dove vivere, chi amare, chi sposare o chi non sposare, come vestirti, come svestirti, cosa dire e quando dirlo, cosa leggere, cosa non leggere, quanti soldi guadagnare e quanti dover spendere, quante ore stare seduto alla scrivania, quante accovacciato a giocare accanto ai tuoi figli. La libertà di avere dei figli o di non averne, di decidere se ti senti donna o uomo, di non avere fede o di averne troppa, di gridare, di denunciare, di tacere, di disapprovare o approvare. La libertà di viaggiare per conoscere e per divertirti o di viaggiare per sopravvivere, la libertà di abbuffarti o essere a dieta e la libertà di poter mangiare almeno un pasto al giorno, la libertà di poter camminare per strada, di guardare la tv, di commentare sui social, di condividere foto, di guidare, di bere, di fumare, di scopare, di ballare, di dormire.

La libertà è costosa perché è la cosa che vale di più e ti hanno mentito se ti hanno fatto credere che ti spetta senza sforzo.

La libertà è uno dei pochi diritti che appartiene a tutti, ma per cui bisogna lottare ogni giorno. E se ti dimentichi di farlo, per gli altri e per te, domani potresti non averne più.

Perché se sei libero perché lo sei nato, è solo fortuna, non merito. Una fortuna che qualcuno prima di te ti ha concesso e di cui devi essere grato.

Per questo ti hanno mentito e non hai mai saputo la verità. Adesso che lo sai, sei ancora più fortunato.
Perché la libertà più grande è la conoscenza.

In bocca al lupo per tutto!

La torta salata più veloce del west

Ogni mattina (quasi sempre all’alba) una neomamma si sveglia e sa che deve iniziare a correre per riuscire a fare tutto.
Perché quando inizi a vivere la vita del tuo cucciolo, il tempo sembra scorrere più velocemente.
Molto più velocemente.
Troppo.
E sei in ritardo per il nido, in ritardo per il lavoro, in ritardo per le bollette, in ritardo per qualsiasi appuntamento tu abbia preso con chiunque (il medico, la parrucchiera, la Regina d’Inghilterra) e non riesci a pulire/stirare/fare la spesa e appena credi di avere cinque minuti di tregua, pochi attimi tutti per te, per fare qualcosa che ti piace, anche solo bere un caffè, guardare video di gatti grassi su Instagram o depilarti le sopracciglia perché ormai sembri Frida Kahlo, ecco che arriva la telefonata che rovina i tuoi sogni: “il bambino ha la febbre, puo passare a prenderlo prima?”.
Ogni mattina una neomamma si sveglia e sa che deve iniziare a correre per fare tutto. Quindi ogni azione deve diventare più efficiente, più efficace, più veloce.
In cucina, per esempio, non puoi più dilettarti in piatti laboriosi e complicati che nemmeno nella puntata finale di Masterchef, ma devi riuscire a essere rapida, scaltra e abile.
Il segreto per continuare a nutrirsi in modo sano senza ridursi a mangiare solo insalate in busta è sempre lo stesso: la torta salata.
È un piatto caldo, piace a tutti e puoi guarnirla anche in modo semplice, ottenendo sempre un buon risultato.

La ricetta per la torta salata più veloce del West?

• 1 rotolo di pasta sfoglia tonda (sei sicura che vuoi prepararla in casa? Perché se la prendi al supermercato come faccio io, prometto di mantenere il segreto)
• 8 fette di Tilsiter Bayernland
• 2 zucchine piccole tagliate e rondelle sottili
• Sale e pepe q.b.

Ingredienti torta salata

Stendete la pasta sfoglia in una teglia da forno, bucherellando con la forchetta. Adagiate sul fondo 4 fette di Tilsiter, coprendo tutta la superficie, disponete le rondelle di zucchine, ricoprite il tutto con le fette rimanenti di formaggio e richiudete i bordi con la pasta. È fatta!
Mettete tutto in forno preriscaldato a 180° per circa 25 minuti (durante i quali potreste lavare i piatti, passare l’aspirapolvere, lavarvi finalmente i capelli o magari lasciare perdere tutto e giocare con il vostro piccolo) ed è pronta.

Torta salata velocissima

Vi assicuro che è buonissima. Anzi, di più: è a prova di suocera!

*Post in collaborazione con Bayernland

La mia storia con internet

Mi hanno chiesto di raccontare “la mia storia con internet” in un’intervista video e mi sono resa conto che, per moltissimi anni, è girata tutta intorno a questo blog.

Da quando nel 2003 ho aperto Malafemmena, prima su Splinder e poi su questo dominio, la mia vita è cambiata del tutto. Non è stato rapido, non è stato indolore, ma è stato un percorso emozionante, pieno di persone, di posti visitati, di parole scritte e di parole lette.

La mia storia con internet è una storia di passione e lacrime, come tutte le più grandi storie d’amore, con alti e bassi, fatica, fallimenti e soddisfazioni.

Non è più il mio tempo. Me ne rendo conto sempre più, perché questi sono gli anni degli influencer, degli youtuber, delle star vere con un seguito enorme, che nascono e restano online e non si limitano a trovare, come facevamo noi, una professione, ma diventano loro stessi un lavoro.
Eppure, nonostante sia una cariatide che ha assistito (e contribuito in minuscola parte) alla nascita del web in Italia, sento di avere ancora cose da fare. In piccolo, con il solito entusiasmo di sempre, con i miei tempi dilatati e il mio ristretto pubblico amatissimo.

Abbiamo un futuro pieno di possibilità e io voglio essere ottimista. La rete imparerà ad autoregolarsi e smetterà di essere lo sfogatoio di ogni frustrazione.
Resteremo chiusi nelle nostre bolle, ma riusciremo a renderle più variegate.
Smetteremo di cercare consenso a tutti i costi e torneremo a cercare relazioni.
Daremo un valore diverso al tempo passato a navigare, senza FOMO o dipendenze.
Inventeremo nuovi mestieri che ci daranno il pane.
E soprattutto smetteremo di aggiungere la gente ai gruppi di Facebook, senza chiedere il permesso, perché davvero non se ne può più.

P.S. Lo so, nel video sembro stanca e trascurata. È che in realtà lo sono davvero. Ma sono felice, non vi preoccupate.
P.P.S. potete raccontare anche voi la vostra storia, usando l’hashtag #lamiastoriaconinternet

Vieni a fare merenda da me

Ai tempi del liceo Chiara, la mia compagna di banco, passava spesso i pomeriggi da me per fare i compiti. Erano ore divertentissime, perché piene di chiacchiere su maschi (che non si sarebbero mai fidanzati con noi), pettegolezzi su VIP (che non avremmo incontrato mai di persona) e progetti su viaggi e avventure (che forse non avremmo mai fatto).
Il venerdì era il giorno della settimana che aspettavamo con più trepidazione, e non perché l’indomani ci fossero soltanto quattro ore di lezione, ma perché il giovedì sera, su Italia1 andavano in onda le puntate di Beverly Hills 90210.
Per noi ragazzini degli anni ’90, Beverly Hills era LA SERIE TV (quasi quanto Non è la Rai era LA TRASMISSIONE) e poteva resistere come argomento di conversazione nell’intervallo per giorni e giorni.
A casa di Chiara il giovedì sera la televisione era sintonizzata su un altro canale, quindi io registravo le due puntate su un VHS* per lei e le riguardavamo insieme prima di metterci a lavoro. Magari la mattina a scuola le avevano già raccontato la trama, perché ai quei tempi lì lo spoiler non era ancora reato, ma lei era felice lo stesso di controllare in prima persona se Dylan** sarebbe tornato con Brenda e avrebbe lasciato Kelly o viceversa.
Ce ne restavamo due ore sul divano a guardare gli episodi e a mangiucchiare dolci o snack e poi facevamo i salti mortali per finire i compiti in fretta, prima del tramonto, l’ora in cui lei aveva il coprifuoco.

Quelle merende sono uno dei più bei ricordi che ho del liceo, di quegli anni inquieti e faticosi che chiamano adolescenza, ed è forse per questo motivo che ancora oggi, quando posso, cerco di trovare un momento durante il pomeriggio per rilassarmi mangiando dolci e guardando serie TV (avreste mai immaginato di vivere in un futuro in cui esiste Netflix?), magari insieme a un amico o al mio compagno.

Un’idea per uno spuntino delizioso? Il budino con le lingue di gatto!

Per prepararlo occorrono:

• 2 Budini cacao con panna Bayernland
• 100 Grammi di burro a temperatura ambiente
• 100 Grammi di farina
• 100 Grammi di zucchero a vela vanigliato
• 3 Albumi d’uova grandi
• Zuccherini colorati per guarnire

Budino Bayernland

Tenete i due budini in frigo mentre preparate le lingue di gatto.
Con le fruste amalgamate il burro e lo zucchero fino a ottenere un impasto cremoso, aggiungete un po’ alla volta gli albumi, continuando a frustare, e infine la farina setacciata. La crema ottenuta va lasciata riposare un quarto d’ora in frigo. Una volta raffreddato, infilate l’impasto in un sac à poche con un beccuccio tondo e create delle strisce di crema (larghe almeno 1,5 centimetri e lunghe 6) su una leccarda rivestita di carta da forno, facendo attenzione a distanziarle bene una dall’altra. Durante la cottura, la crema tende ad allargarsi e a prendere la classica forma “a lingua”. Infornate, in un forno preriscaldato a 180°, e i biscotti saranno pronti in circa 8 minuti. Tirateli fuori, staccateli dalla carta e lasciateli raffreddare su un piatto. Una volta freddi e croccanti, inseritene uno o due nel budino, decorando la panna in superficie con gli zuccherini.
Golosi, vero?

Budino goloso

Buona merenda!

*Lo so, sono un dinosauro
**Io sono sempre stata del team Brandon Walsh.

Post in collaborazione con Bayernland.

Le piccole cose piacevoli

Diventa sempre più difficile godere delle piccole cose, un caffè con un amico, l’ultimo capitolo di un libro amato, il ritornello della canzone preferita cantata ad alta voce, un complimento sul lavoro, un chilo perso o preso, il rossetto nuovo dal colore allegro, l’abbraccio di un genitore anziano, i progetti fatti ad alta voce con la persona che ami, un morso al panino più buono dell’anno. Difficile goderle e basta, senza doverle immortalare, raccontare in diretta, condividere. Guardare tuo figlio che sorride e non twittarlo, ricevere un fiore che vuol dire ti amo senza instagrammarlo, avere un’opinione e non postarla, provare un dolore e non farlo sapere a tutti gli estranei con cui sei in contatto.

È bello far sapere che si è felici solo se non si ricerca la felicità nell’approvazione, solo se la gioia resta a prescindere dall’esistenza di un pubblico.

Amo tutto di internet, perché mi ha resa la persona che sono più di tanti altri strumenti usati nella vita e tante altre avventure vissute, eppure sto facendo qualche passo indietro per recuperare il piacere effimero e personale delle piccole cose.

Cerco di liberarmi dall’ansia della cronaca continua della vita. Non è facile. Perché in maniera stupida vivo anch’io la sensazione di perdere delle occasioni, occasioni di popolarità che mi cambieranno la vita. Pur sapendo che non modificheranno davvero nulla. Perché alla fine, la vita è proprio l’insieme delle piccole cose che succedono quando non c’è nessun pubblico a guardarti. E spesso sono cose davvero belle.

La pausa (gustosa) del raccontastorie

Raccontare storie è un mestiere bellissimo, forse uno dei più belli, perché ti permette di inventare mondi, di cambiare i finali, di mettere in bocca ai personaggi le parole sempre giuste.
Per riuscire a raccontare delle belle storie devi aver vissuto tanta vita, tante vite. Non necessariamente in prima persona, ma attraverso i libri letti, i viaggi fatti, i racconti ascoltati, i film visti al cinema.
Uno dei lussi più grandi della professione di scrittore è quello di poter passare pomeriggi interi a leggere o a guardare serie TV con la scusa che lo stai facendo “per lavoro”.
Prima di iniziare a scrivere un libro nuovo, mi chiudevo in casa e mi tuffavo in un episodio dopo l’altro, una stagione dopo l’altra, con così poche tregue che a volte sognavo zombie, draghi, corti di giustizia americane, tutto insieme, tutto vivido come se io fossi stata lì. Poi passavo un mese o due in ritiro, a scrivere scrivere scrivere, quasi sempre di notte, senza mettere piede fuori casa, parlare con essere umano, pettinarmi i capelli.
Da quando c’è il piccolo in casa, i telefilm e i libri rubano preziose ore al sonno e, non potendo più dedicare le ore della notte a produrre, ritaglio momenti preziosi per scribacchiare ovunque, a qualsiasi ora, non appena ne ho la possibilità.
Prendo note e appunti dove posso, per non rischiare di perdere qualche idea preziosa, faccio scalette, griglie, riassunti. Segno sul calendario quante pagine al giorno dovrei riuscire a scrivere per rispettare le scadenze.
E come sempre, ogni volta che sono davanti allo schermo mi viene fame. Sgranocchio, spizzico, sbocconcello, mangiucchio.
I pranzi diventano spuntini e gli spuntini pranzi, con il piatto sempre accanto alla tastiera.
Usare il cervello fa consumare un sacco di energia!
Per questo motivo mi sono specializzata in piatti gustosi e veloci che possono essere preparati in non più di cinque minuti.
Uno dei mie grandi classici da lavoro è l’Omelette dello scrittore.

Per prepararla occorrono:

2 uova medie
2 fette di speck
2 fette sottili Bayernland
Parmigiano q.b.
Un pizzico di sale
Erba cipollina
Olio evo

Ingredienti omelette

Bisogna amalgamare insieme le uova, il parmigiano, il sale e l’erba cipollina sminuzzata. Il tutto va disposto in una padella antiaderente in cui è stato fatto scaldare l’olio. Una volta che la frittata è asciutta da un lato, bisogna girarla e poi disporre su una metà le due fette di speck e una fetta sottile di formaggio. Basta poi chiudere l’omelette a panino e lasciare cuocere ancora un po’, decorando con un’altra fetta sottile lasciata fondere.
In pochi minuti è pronta e si può servire con pomodori, insalata o solo con pane.

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Buon appetito!
Con la pancia piena si producono i più grandi capolavori.

*Post in collaborazione con Bayernland Italia