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Cronaca di un addio

Mentre eravamo intenti ad iniziare la nostra ennesima nuova vita, è arrivata la telefonata. Lunedì. Tu eri in treno, verso casa. Rientravi dalla nostra bella notte veneziana. Io ero in ufficio, con gli occhi gonfi dal poco sonno e con i capelli ancora pieni di lacca. Mi hai mandato un sms e tutto è diventato triste. Sei salito in macchina e sei corso a Udine. Io, tra le lacrime, ho iniziato ad avvisare chi potevo.

Lui stava leggendo il giornale, seduto in cucina. Si era preparato il caffè da solo. Lei lo ha visto reclinare il capo, occupata nelle sue numerose faccende, e ha pensato beato lui che riposa quando vuole.
E quel caffè e quel giornale non li ha più finiti.

Poi sono iniziate le lacrime, le grida, i tentativi disperati, i morsi allo stomaco, la confusione. E dopo è stato il tuo momento di essere completamente adulto, di organizzare i riti, di compilare le carte, di chiamare i professionisti, di aiutare a vestire, di scegliere dove posizionarlo, di accogliere la processione di amici, parenti, concittadini, cari.

Poco alla volta siamo arrivati tutti, accantonando come potevamo l’incombenza del quotidiano guadagnarci il pane. E tu eri composto, bello, con gli occhi lucidi e con la camicia scura.

Ho visto tuo padre lì, nella sua bara lunga, e mi è salito un groppo in gola ed ho pianto. E un po’ mi sono vergognata di aver pianto, perché guardavo te serio e mi chiedevo se non sarebbe stato più giusto rispettare una priorità di dolore, in base alla parentela. Perché, di fronte alla morte, abbiamo tutti pensieri stupidi, stupidamente naturali, e il mio era quello di soffrire senza offendere.

Aveva le mani lunghe e bianche, mani affusolate che non avresti detto di un muratore. Mani da musicista, quello che in fondo è sempre stato e quello per cui avrebbe voluto essere ricordato.  Lui, che rubava il lardo dalla cantina dei suoi genitori di fine ottocento per pagare il parroco che gli insegnava la melodia, a Udine. Lui, che raccontava con naturalezza di essersi venduto il cappotto nuovo, da ragazzo, per pagarsi un pianoforte a mezza coda. Lui, che era stato diseredato dalla famiglia per questo, ma che non si era mai pentito, perché nessun fazzoletto di terra gli avrebbe dato la libertà enorme che gli hanno dato le note.

E quando ci raccontava della guerra, della sua esperienza partigiana a soli 17 anni, della povertà, dell’emigrazione in Svizzera, dei cantieri dove gli ordini venivano gridati in tedesco e spaventavano tutti quei friulani che per tanto tempo avevano associato il tedesco al terrore. Poi quel coro creato laggiù e ancora esistente, il rientro in Italia, il terremoto, i lavori persi e i lavori trovati.

Noi dicevamo Che vita! Che avventure! Chissà quant’è stata dura! e lui ci rispondeva pacato che è solo vita ed ognuno di noi non può far altro che prendere quello che gli viene dato.

Tutti dicevano è morto sereno, sembra che dorma, è morto come è vissuto e tu ti preoccupavi dei particolari, ti chiedevi se avevi scelto una bella bara, se per lui avrebbe fatto la differenza, come se nel morire si potesse scegliere di prendere altro da quello che ci viene dato.

La notte stessa è morto tuo cugino, che abitava accanto, dopo una lunga malattia. Nell’accumularsi amaro e ironico del dolore, tutto il paese si è trasformato in una terribile festa di famiglia. Si sono incastrati i necrologi, le condoglianze, le lacrime.

È arrivato il momento del funerale, dopo tante telefonate, burocrazia, abbracci e caffè.

La banda del paese è venuta vestita a lutto per commemorare uno dei suoi fondatori. Il tenore in chiesa ha cantato l’Ave Maria composta da lui e noi abbiamo pensato che l’ha cantata proprio male e chissà quanto avrebbe protestato lui se non avesse deciso di riposare eternamente. E la lunga processione a piedi fino al cimitero, con la vista sulle montagne, tante tombe di persone a te care e il suo loculo aperto, fino alla catarsi finale della tumulazione.

E siamo rimasti a salutare tanti amici, venuti dalle città vicine e abbiamo fatto due passi verso casa. Le giornate si stanno accorciando, vero?, e fa già fresco. Forse non è così male morire alla fine dell’estate.

Abbiamo cenato tutti insieme e tua madre ha detto che avrebbe sperato che lui rimanesse ancora un po’ con lei. Dopo cinquantadue anni di matrimonio. Poi abbiamo ricordato e riso, fino a quando non siamo rimasti tutti in silenzio e, in quel momento, ho pensato che avrei dovuto amarti io un po’ di più per colmare questo vuoto improvviso.

Poco alla volta tutto ci sembrerà naturale, lo so. Quando, quasi dieci anni fa, mi ha lasciata quel padre così diverso dal tuo è stato solo il tempo a rimettere tutto in ordine.

Fa davvero più fresco e sei rientrato ieri a lavoro con la camicia nuova. Gli amici continuano a chiamare e a chiedere se stiamo bene. La sera parliamo a lungo e mi racconti tante cose del tuo passato che non sapevo. Ogni giorno parli al telefono con tua madre.

Nei lunghi tuoi silenzi, a volte, mi sembra di sentire chiaramente il rumore dei tuoi ricordi.

E non ci resta altro da fare che continuare a vivere.