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Centottantuno giorni dall’inizio del mondo

6 mesi di Alessandro Ghigo

Oggi Alessandro Ghigo compie sei mesi. Lunghi e brevissimi, faticosi e bellissimi.
Sono mamma da mezzo anno, ho cambiato ritmi, abitudini, gusti, qualche idea, qualche amico, progetti e sogni, eppure, abbandonato ogni altro impegno, a causa di una (spero) temporanea inoccupazione, ho scoperto di essere piuttosto portata per questa faccenda della maternità.
Sono stati mesi di grande scuola, quella proprio “della vita”, in cui umilmente ho ascoltato, osservato, visto, sentito e annusato per apprendere.

Ho imparato che i figli spaventano appena nati, non comunicano, sono troppo fragili, piangono che ogni volta ti si strappa il cuore e ti chiedi “ma ce la farò mai?”. Poi diventano ogni giorno più facili da capire, e cicciottelli, e forti e sorridono guardandoti e ti sembra di aver trovato la risposta a tutto e capisci che ce la puoi fare, anche se è una fatica.

Ho imparato che, anche se come me sei sempre stata un drago che dà fuoco a tutto e che da sola è riuscita a cavarsela sempre, devi chiedere aiuto. Chiedilo prima di essere troppo stanca, troppo terrorizzata, troppo nervosa. Chiedilo senza sentirti debole. Farà bene a te e soprattutto ai piccoli.

Ho imparato che se è vero che il corpo di una donna non è mai solo suo, è tanto più vero quando la donna diventa madre: tutti si sentono in dovere di dirti come, quanto e cosa mangiare, come, dove e se allattare, come dormire, come vestirti, come parlare, quanti chili perdere, se e quando tornare a lavorare, come curarti e non lasciarti andare che sei comunque una donna, ma allo stesso tempo non pensare all’aspetto fisico perché ormai sei una mamma. Tutti, ma proprio tutti, sapranno perfettamente in cosa sbagli e su cosa hai ragione, mentre tu osserverai lo stravolgersi del tuo mondo e della tua autonomia (non sei più una, ma due) navigando a vista.
I consigli non richiesti sono la vera piaga per le neomamme e il solo modo per evitarli è smettere di frequentare persone. O selezionarle con molta cura. Oppure rispondere: “grazie per i suggerimenti, ma seguirò l’istinto e farò a modo mio”. E sorridere sempre, soprattutto di fronte ai pargoli.

Ho imparato che internet può essere utile quando hai dubbi e paure (meglio, però, se chiedi al pediatra o a un’ostetrica!), ma diventa una gabbia di matti per qualsiasi altro confronto. Sono stata alla larga da forum, gruppi, chat, mailing list di mammine e papini e sono una persona felice.

Ho imparato che il puerperio scatena i più grandi sensi di colpa, soprattutto se hai sempre lavorato e di colpo ti ritrovi a non fatturare, ma solo a cambiare pannolini e usare la tetta come Masterchef. Sei consapevole che questi mesi intimi e belli non torneranno più e che stare con tuo figlio e usare i tuoi risparmi per accudirlo, finché almeno non riesce a stare seduto, è la cosa più giusta per te e per lui, ma ti senti anche sbagliata perché una mamma che non lavora per dedicarsi a un neonato viene spesso considerata una perditempo. E magari, in passato, l’hai pensato anche tu di amiche e colleghe.

Ho imparato che in Italia i figli sono una faccenda privata e che se non ci sono servizi, assistenza, aiuti per tutte le famiglie, fatti tuoi che li hai voluti ‘sti mocciosi. Sono tuoi, ci dovevi pensare prima. Non c’è una cultura evoluta dell’infanzia, della maternità e della paternità e figliare è spesso considerato un vezzo, come prendere un cane. Lo stesso Paese che non vuole dare la cittadinanza ai figli di immigrati, che inneggia all’italianità, che resta immobile in un immaginario anni ’50, mamme sante a casa e papà padroni a faticare, lo stesso paese (ché nemmeno merita la maiuscola) ti dice che mettere al mondo nuovi cittadini è un tuo problema. Un problema privato.

Ho imparato che la vita è piena di nuovi inizi e vale la pena affrontarli tutti di petto e con coraggio, e che noi donne abbiamo davvero risorse inesplorate e una forza che non sapevamo di possedere, e che, sia che tu voglia essere madre o meno, non devi mai lasciare a nessuno il diritto di decidere per te.

Ho imparato davvero tanto in centottantuno giorni, ma la cosa più bella e tenera che mi ha insegnato Alessandro è la gioia incontenibile e profonda di vivere ogni momento come un divertentissimo gioco.
E alla mia età, ve lo garantisco, è un insegnamento davvero importante.

*Ieri questo blog ha compiuto 14 anni. A volte mi dispiace averlo abbandonato, perché racchiude più di un terzo della mia vita. Forse, per tenerlo vivo, avrei dovuto trasformarlo in un lavoro, ma ho iniziato troppo presto e, quando -anni dopo- bloggare è diventata una professione, mi sono accorta di non esserne capace.
Auguri, Malafemmena, ti voglio bene!

La (più) grande avventura

cicogna

Questo doveva essere l’anno del mio lungo viaggio in Messico. Invece l’unica a partire è stata la cicogna.
Lo so, lo so cosa state pensando: nemmeno io me lo sarei aspettata da me, mai mai mai nella vita.
Eppure, sono incinta.
E in barba ai burocrati che vogliono farci credere che a una certa età è sbagliato essere incoscienti, il papà (autore del bellissimo disegno) e io siamo felicissimi perché non poteva capitarci in un periodo migliore. Doveva succedere adesso, mo’, ora. Giusto in tempo per dare un alibi al mio fallimento della prova costume.

Lo sbarco sulla Terra è previsto a metà febbraio. Ed è un maschietto (poteva essere altrimenti, il figlio di Malafemmena?).

Ci stiamo preparando.
Sarà davvero la più grande avventura.

Non fermarti fino alla fine

È il momento dei bilanci e scrivo questo post, come ogni anno, con la speranza di ritrovarci un giorno, rileggendolo, una traccia di quello che mi ha portato a essere quello che sono.

È stato un anno intenso, quello appena trascorso, e bello, in ogni sua sfumatura, anche quella più dolorosa e difficile. Un anno in cui sono riuscita a ottenere quello che cercavo da una vita intera, la serenità, la fiducia in me stessa, e a perdere quello che mi trascinavo da molti anni dietro come un macigno legato al collo, la paura del futuro.

Butto giù queste righe come appunto, per chiunque abbia voglia di leggerle o di rileggerle, per condividere quello che ho imparato, a volte mio malgrado, in questi mesi veloci e insaziabili.

Per ottenere qualcosa che desideri tanto devi saper rinunciare a qualcos’altro di altrettanto prezioso. È così che ho rinunciato a qualche guadagno in più in cambio del tempo. Non è stata una scelta molto difficile, data la mia incapacità perenne di arricchirmi, ma è comunque stata faticosa, perché mi ha costretta a molte rinunce. Lavoro e soldi in meno in cambio di ore, di giorni, settimane libere, per poter leggere, viaggiare, stare insieme a persone che amo, guardare film e serie TV fino ad avere male agli occhi, prendere appunti su nuove storie, andare a parlare con nuovi editori, scoprire nuovi angoli di mondo da raccontare, scrivere.
Ho dato fondo a quasi tutti i miei risparmi, ma non mi pento di nulla. Il tempo che mi sono concessa è stato il più grande tesoro che potessi mai desiderare.

Per riuscire a spiccare il volo devi sbarazzarti delle persone che continuano  a trattenerti a terra. Ed è così che, con la testa piena di storie, sono andata a cercare qualcuno che potesse capirle e capirmi e che potesse aiutarmi a scrivere, finalmente, le pagine che desidero.

Non sono sempre gli altri a essere sbagliati, a volte sei tu che hai bisogno di guardarti da fuori e imparare a cambiare e chiedere scusa.

Il successo può durare pochissimo, i sogni sono eterni.

La libertà, soprattutto quella di essere controcorrente e fuori dagli schemi, è un fardello difficile da trasportare.

Non devi mai permettere a nessuno di dirti che non puoi farcela, se tu sai di essere all’altezza.

L’amore è faticoso, ma vale tutte le lacrime che ti ruba. Anche quando finisce e ti lascia pieno di cicatrici. Ne vale sempre la pena.

Il futuro non deve farti paura. Hai almeno il 50% di probabilità di essere felice. Quindi provaci.

Il prossimo anno passerà più veloce di quanto tu creda, quindi prendi la rincorsa e non fermarti fino alla fine.

La felicità è un esercizio di sottrazione

Ieri era il tuo compleanno, a due giorni dal Natale, e mi è tornata in mente quella sera di cinque anni fa, quando ho deciso di chiudere il capitolo della mia vita che non funzionava più e tu eri lì. Poi ci sono stati terremoti e lacrime, fughe e viaggi in treno, abbracci e sospiri, camere in affitto e tentativi, parole che non hanno funzionato e silenzi troppo efficaci, scelte che hanno fatto male e non scelte che sono state ancora peggio.
Quella sera di cinque anni fa sono corsa via senza una spiegazione ed è uno dei più grandi rimpianti di sempre, perché ora che non ci sei più vorrei tanto ordinare un altro bicchiere di rosso e raccontarti tutto, tutto quello che ti sei persa, tutto quello che ancora resta.
Vorrei dirti che ho imparato a stare a galla, che non sono più in guerra col mondo. Che ho imparato a dire no e a tenere lontane le persone che non vanno, a prendere le decisione giuste, a firmare i contratti senza clausole scritte troppo in piccolo. Ho capito come farla funzionare, la vita che tu amavi più di me, e adesso è tutto chiaro, tutto quasi perfetto. Adesso che ho tolto la rabbia, l’ansia da prestazione, la paura di fallire, la sensazione di non essere all’altezza. Adesso che ho tolto le ipocrisie dalle amicizie, le insoddisfazioni dal lavoro, i tentennamenti dall’amore, adesso è tutto più facile.

La felicità è un esercizio di sottrazione.

E quando tutto diventa più semplice, quando ti spogli dalle corazze, quando ti svuoti da tutti i pensieri che tieni dentro e non vuoi esprimere mai, quando spieghi le tue ragioni fino all’ultima sillaba, quando provi fino all’ultimo alito di fiato, allora tutto va come deve andare. Ed è bello. E si sta bene.

Quella sera del tuo compleanno di cinque anni fa non potevo saperlo, che un giorno sarei stata felice. Vorrei potertelo dire adesso. Vorrei che potessimo riderne insieme. Vorrei poterti abbracciare e confessare “Axi, avevi ragione”.

Tu non ci sei più, ma molto resta ancora ed è stato un anno bello, il primo di sempre senza aver paura, e so che molti altri verranno e io non fuggirò più via e li affronterò ridendo, come avresti fatto tu.

La prova costume emozionale

Ho sempre peccato di scarsa autostima, anche nei momenti in cui riscuotevo maggiori apprezzamenti e successi. Sono sicura che indagando nella mia infanzia, negli anni torturanti della scuola o nelle mie prime e imbarazzanti relazioni affettive con l’altro sesso, potrei trovare risposte alle origini questa mia forte carenza di fiducia. Ma credo che il tempo dell’analisi tolga tempo al migliorarsi. Credo sia più importante capire come superarmi e credere in me stessa che continuare a dare la colpa di ogni mia debolezza a qualcuno e qualcosa che forse – mi auguro – non tornerà più.
Ho iniziato, quindi, un estenuante corteggiamento per sedurmi, per riuscire ad amarmi di più. Che prevede farmi complimenti davanti allo specchio, dedicarmi cure e attenzioni, non fare quello che non mi va di fare (se non necessario), evitare persone e situazioni sgradevoli, indossare soltanto abiti con cui mi sento a mio agio, mangiare una cosa buona se mi va e non sentirmi sbagliata per una frittura di pesce. E poi, vivere la palestra come uno sfogo e un divertimento e non come un obbligo, non rispondere al telefono, se non ho voglia di parlare, scrivere quello che vorrei leggere e non quello che mi aspetto gli altri vogliano leggere, cantare ad alta voce ogni volta che posso, portare i tacchi solo se lo desidero, smettere di accettare qualsiasi collaborazione per paura che un giorno non ci sia più lavoro, essere risoluta di fronte alle ingiustizie, mandare al diavolo i cafoni, rifiutare lavori al di sotto delle mie possibilità, circondarmi di amici senza doppi fini, provare a dire alle persone a cui tengo di più che vogliono loro bene.

L’ultimo punto è il più difficile di tutti e portarlo a termine, per un orso come me, è un po’ come superare la prova costume il primo di giugno.

Sono una persona migliore di quello che credo e posso riuscire a fare qualsiasi cosa. Lo so.
Quello che, forse, mi frega è che sono anche pigrissima. Ma su questa sfumatura lavorerò nei prossimi anni.

Sesso, amore e vino in ordine sparso

***ATTENZIONE! POST AD ALTO CONTENUTO AUTOCELEBRATIVO***

Se non hai letto ancora A noi donne piace il rosso – diciamocelo – sei una brutta persona, ma per stimolarti a sfogliare il libro dal sapore di Valpolicella, forse può aiutarti questa spassosa intervista su Gioia in cui do anche qualche consiglio utile per bere bene, sia ai maschietti che alle femminucce.

E poi, stasera, ricordati di guardare Italia 1 alle 19.30, perché su Notorious c’è un servizio su di me in cui racconto come una (finta) blogger erotica precaria e sarcastica è riuscita a diventare un’autrice di best seller super romantici.
Che tu dici “culo”. E io rispondo “quasi”.

Buona visione.

Il DNA della procrastinazione

Sono un’amante della procrastinazione.
Credo che tutto quello che può essere fatto domani, senza o con poco danno, non meriti di essere sbrigato oggi. Mi piace passare il tempo a sentirmi in colpa per le iniziative che non prendo, per i lavori che non finisco, per le pagine che non scrivo. Salvo poi recuperare tutto sotto scadenza, ridurmi all’ultimo minuto, cuore in gola, per accorciare le distanze.
Si nasce procrastinatori, è nel nostro DNA.
Quelli come me, che spostano sempre un po’ più in là la fine temporale di qualsiasi evento, non potrebbero mai vivere iniziando subito, adesso, in fretta, quello che necessita di lunga, inutile e pigra pianificazione.

L’altro ieri, dopo aver – appunto – procrastinato per quasi due mesi, ho deciso di portare il mio vecchio e fidato iPhone 4S in un centro di riparazioni cinesi, per risolvere un paio di problemi che cominciavano a renderlo utile come una piastrella del bagno. E visto che avevo rimandato di ora in ora il mio rituale appuntamento con la palestra, mi sono detta che avrei potuto unire l’utile al dilettevole, arrivando a piedi in Via Paolo Sarpi.
C’era il sole, l’aria fresca e Milano era bella, quella bellezza intima, che vedi perché ami questa città, te la sei scelta, hai capito che è più tollerante di tutte le città italiane in cui hai vissuto, compresa quella in cui sei nata.
Ho camminato per cinque chilometri, con la testa al contacalorie bastardo che da una settimana mi ricorda che i vizi di gola si pagano, come quelli di gioco. Ho camminato tanto, ascoltando la musica, scoprendo luoghi e locali che non avevo mai visto, annotandoli nella mia mappa interiore e poi sono entrata nel bugigattolo che amo, quello in cui risolvono i tuoi problemi in fretta e a poco prezzo, gli ho lasciato il telefono e il nome e mi hanno chiesto di passare a ritirare tutto dopo un’ora. E io ho pensato “che bello, un’ora intera di passeggio per la splendida Chinatown. Un’ora per guardare vetrine, osservare la gente, rilassarmi”.
Dopo essermi allontanata di pochi passi dal negozio, ho istintivamente toccato la tasca del parka in cui tengo sempre il telefono e ho avuto un sussulto.
Era vuota.
Era ovviamente vuota perché avevo appena lasciato l’iCoso in assistenza, ma era incredibilmente vuota di senso. Che ore erano? Come facevo a sapere quando sarebbero passati sessanta minuti, se l’unico orologio è sul telefono? Cosa avrei fatto in quel frammento improvvisamente lungo senza Twitter, Facebook, Whatsapp? Che scopo aveva passeggiare in una Milano benedetta dal sole se non potevo fotografarla e postarla su Instagram?
Mi capita spesso di spegnere il telefono, soprattutto quando scrivo, perché i social network sono i nemici della scrittura, ti rubano il tempo, ti fregano l’attenzione. Spengo il telefono quando sono in viaggio, quando sono in palestra, quando sono triste e non voglio parlare. Ma l’ho sempre con me. Ho sempre la sua rassicurante presenza fisica, come se fosse un organo che posso non usare per lungo tempo, ma che devo avere vicino perché mi serve per vivere. Un po’ come il cuore.
Ero nuda, senza il mio mondo amplificato, in un posto che amo e che mi è sembrato improvvisamente misterioso, difficile, sconosciuto.
Per un paio di minuti mi sono sentita frastornata. Poi ho continuato a passeggiare, ho notato un orologio su un palo e ho annotato mentalmente l’ora, ho cominciato a muovermi con passo inspiegabilmente veloce, ho sbirciato le scarpe esposte in un paio di negozi, comprato della frutta, guardato la gente indaffarata che sembrava sapere esattamente cosa fare e non dover aspettare, come me, un’ora incredibilmente lunga, seppur breve, per riavere in mano il mio piccolo mondo.
Siccome il tempo che ogni giorno corre, mi sfugge via, si esaurisce troppo in fretta, quel pomeriggio sembrava non scorrere mai, per ingannare l’attesa mi sono seduta al tavolino di un bar, ho preso uno, poi due caffè, ho tirato fuori dalla borsa un libro, ho iniziato a leggere. E allora tutto è tornato al proprio posto, l’ansia dell’irreperibilità svanita, la stanchezza per la camminata alleviata, il terrore delle scadenze evaporato, il fastidio di non poter scrivere a tutto il mondo “sono seduta a un bar a leggere” dissolto.

Le storie belle, che leggi, che guardi, che ascolti sono lo strumento più potente per superare la paura del tempo, la paura della solitudine, la paura del vuoto di senso. E non c’è nulla di sbagliato o spaventoso nello scendere qualche istante dalla giostra del mondo che gira troppo velocemente e prendersi una pausa, facendo qualcosa che ti fa stare bene.

La luce è calata quasi di colpo. Ero seduta al tavolino da forse troppo tempo. Quando sono tornata nel negozio c’era molta coda al bancone. Il telefono era stato riparato. Ha anche una batteria nuova, che dura più delle due ore della precedente. L’ho preso e l’ho rimesso in tasca, cercando di dimenticarmene mentre andavo verso la fermata del tram. Ma quando sono entrata nel mezzo e mi sono seduta, l’ho tirato fuori e, con una sottile punta di delusione, ho capito che il mondo aveva girato lo stesso senza che io partecipassi a tutto, senza che fossi connessa per un paio di ore.
Sono arrivata a casa, mi sono accorta di aver passato tutta la giornata, un’altra, senza scrivere nulla, ho segnato in agenda un’altra virtuale scadenza nella scadenza per rimettermi in riga, ho nutrito il gatto, guardato fuori dalla finestra la notte che arriva sempre un po’ più tardi, ho ritirato il libro fuori dalla borsa, tolto la suoneria e ho continuato a leggere fino all’ultima pagina.

Il prossimo anno ci salveremo da soli

Gli ultimi giorni dell’anno a letto con l’influenza mi hanno obbligata alla solita resa dei conti, che – per una volta -avrei voluto evitare. Nei deliri da febbre alta, cocktail di paracetamolo e brodo fatto con il dado, sudore, gatto che mi rubava il letto e telefilm in streaming, ho rivisto il film dei sensi di colpa, delle scelte sbagliate e quelle prese in graziadiddio che mi hanno (forse) cambiato la vita, degli errori, dei traguardi, dei sorrisi e delle lacrime.
Quello appena trascorso è stato, tutto sommato, un buon anno.
Non un anno ricco, non un anno molto produttivo. Un anno buono.
Dodici mesi in cui ho fatto tutte le cose per bene, nel lavoro, in amore, con la scrittura, con la famiglia, con le amicizie. E quando fai le cose per bene, e ti impegni, e sei onesta, soprattutto con te stessa, non puoi avere rimpianti.

Poi, certo, c’è il porcomondoboia che funziona a scatti, che ti mette i bastoni tra le ruote e non dipende da te. Non può sempre dipendere da te. E questo rallenta la crescita, smorza gli entusiasmi, produce fastidio e bestemmie, sconsola, deprime.

La crisi economica ormai è una balla. Non c’è un complotto mondiale per farci diventare dei poveracci. Non c’è più un buco nero in cui sono trascinati tutti e, quindi, anche noi. No. Il problema è che noi sguazziamo in un mare di fango che ci siamo creati da soli. Il problema è che l’Italia è un Paese schifoso e meschino.
Punto.
Corruzione, mafia, sprechi, evasione fiscale, classe politica completamente ignara di come viva davvero la popolazione, tassazione delirante sui meno abbienti, nessuna meritocrazia, nessun rispetto per la cultura, disprezzo per l’onestà e stima per l’ignoranza truffaldina, pressapochismo premiato come intraprendenza, massoneria, demagogia, populismo, razzismo così radicato e così malcelato da essere endemico, omertà, connivenza.
Non credo esistano altri casi al mondo di potenze industriali ridotte a teatrino dei pupi nel giro di qualche decennio.
È sempre più faticoso amare la nostra terra. Come un marito che ti prende a pugni. Come una madre che ti abbandona in un cassonetto.

L’unico grande rimpianto del 2014 è quello di aver capito di non essere in grado di migliorare il Paese e di essermi rassegnata all’idea che non cambierà. La perdita della speranza è il primo segno della fine e non so se è generazionale, se dato dalla stanchezza o da un eccesso di informazione, ma non credo più che ci siano possibilità di redenzione.

Così, il prossimo sarà l’anno in cui a tutti toccherà salvarci da soli.

Sono ottimista per me, perché sono convinta di avere margini di miglioramento: nei prossimi dodici mesi voglio viaggiare a est e a ovest, scrivere finalmente il mio primo romanzo non rosa, voglio bere il vino più buono, voglio guardarmi allo specchio e piacermi sempre e comunque, voglio frequentare persone belle e lasciare andare gli opportunisti, i falsi amici, i passivi aggressivi, i cattivi consiglieri, gli invidiosi, i rancorosi, gli “amici” per cui lavori e non ti pagano. Voglio leggere e guardare mille film e ascoltare musica e ammirare i tramonti. Voglio baciare di più, fare di più l’amore, abbracciare di più, ridere di più, parlare di più e ascoltare di più.
Voglio continuare a essere onesta, a credere che il merito paghi, a investire nel talento e non nei pompini, a fare il mio lavoro al meglio, a studiare, a capire le cose.
Voglio salvarmi.

Ed è il mio augurio per tutti voi.
Fate le cose per bene, salvatevi, non lasciatevi tentare da tutto il marcio che ormai ci circonda. Siate belli e senza rimpianti. Siate coraggiosi. Siate il Paese che amerei alla follia.
Magari tra un anno saremo qui a dirci: hai visto? Avevamo sbagliato! C’era ancora qualcosa per cui valeva la pena lottare: noi.

 

Di film belli e offerte di lavoro

WordPress ha fatto i capricci tutto il giorno e il mio post quotidiano, cancellato, riscritto, ripreso e poi andato in malora, è slittato a stasera. Però (però) in TV danno quel film meraviglioso di Gondry che il mondo chiama The eternal sunshine of the spotless mind e che noi, solo noi, abbiamo ribattezzato con orrore Se mi lasci ti cancello.

E io lo riguarderò per la millesima volta. E piangerò ancora e ancora. E penserò ancora che l’amore è proprio così e preparerò un pezzo strappalacrime per domani.

Promesso.

Ah, quasi dimenticavo: sono alla ricerca di un grafico che voglia studiare insieme a me un nuovo tema per il mio blog che sia più simile alla nuova me stessa. Ne voglio uno bravo e paziente. E se fosse economico, poi, uh, che meraviglia! Per candidature e preventivi, trovate i miei riferimenti nella pagina contatti.

Passo e chiudo.

Ed ecco la vera novità

Le mie vacanze brasiliane sono ormai un ricordo. Un bel ricordo, così lontano che quasi non sembrano essere passate solo due settimane.

Il nuovo libro, A noi donne piace il rosso, è uscito (potete comprarlo qui in ebook e qui in cartaceo). È un libro bello. Fossi in voi lo leggerei e poi lo regalerei a chiunque.

Milano è grigia come solo Milano sa essere. E a me piace. Mi piacciono le strade bagnate dall’umidità e dalla pioggia, i bar riscaldati pieni di gente, le enoteche con la musica bassa, in cui riesci a parlare senza urlare, i supermercati colmi di panettoni, i negozi del centro con le vetrine natalizie, le bancarelle in Duomo.

L’amore sta bene, mai stazionario, perché se lo fosse non sarebbe più amore, ché quel sentimento è una montagna russa, un altalena, una corsa a perdifiato, un giro di rock&roll.

La dieta non sta funzionando, i jeans non mi stanno più entrando e rinunciare ai carboidrati sta diventando una prova di forza.

E fin qui, tutto bene.

Ma la vera notizia, quella che wow, la decisione che cambierà il corso dei miei prossimi giorni, mesi, anni, che modificherà l’asse terrestre e l’attrazione lunare e gli orari dei treni, è che ho deciso di tornare a scrivere sul blog.
Nel senso di spesso, non come adesso. Di farlo tutti i giorni. Come undici anni fa. Come ai tempi in cui non c’era mondo senza blog, non c’era il mio mondo senza blog.
E non lo faccio per motivi commerciali, non divento una fashion/beauty/food/cosa/salcazzo blogger, non metto banner, non vi scrivo quanto è buono lo stracchino con un paio di anfibi griffati e il rossetto color mattone.
Voglio solo recuperare un rapporto con la scrittura più rilassato, meno – siete pronti per la parolona orrenda? – performante, che non preveda tot visite e clic per essere pagato, tot vendite per diventare un beSSeller, tot pagine per andare in stampa. Una scrittura anarchica, libera, indipendente, personale, non legata per forza alla cronaca, alla televisione, alla moda.
Voglio tornare a scrivere per me. Voglio raccontare le storie che mi passano per la testa, le mie idee, i miei pensieri. Senza linea editoriale, senza briefing del cliente. E ho capito che l’unica cosa che ho sempre scritto senza regole è stata Malafemmena.

Quindi rifarò una cosa che, spero, darà l’inizio al primo fenomeno di vintage blogging mondiale: tornerò ad aggiornare alla maniera 1.0.

Non è facile. Perché la vita è diventata più frenetica, perché ho sempre meno tempo ed energie, perché sono spesso in giro e perché devo e voglio continuare anche a scrivere per mangiare. E non è facile perché questo posto non è più quello di tempo e anche perché i lettori, voi, non siete più quelli di un tempo e adesso si sta su Facebook, si commenta su Twitter, si comunica su WhatsApp. Non voglio dire che siete invecchiati, eh, però… mi capite, vero? Vi ricordate che c’era un mondo, pochi anni fa, che non è più lo stesso?

Non sarà facile, ma una cosa che sento di fare, che mi sembra importante iniziare. Mi sembra bella. Per me. E faccio questo annuncio nella speranza che, se non dovessi mantenere l’impegno, anche solo una persona me lo faccia notare e mi motivi. Dopo avermi cazziato.

Oggi è il 1° dicembre ed è l’inizio del nuovo inizio.

Sono quasi pronta. Spero avrete voglia di fare ancora due chiacchiere con me. Sarete sempre i benvenuti.

I nostri deserti diventeranno spiagge

Forse succede a tutti così, incosciamente, subdolamente.
Tu nasci, vivi, festeggi compleanni, scandisci il tempo, scherzi sulla tua età e compi i tuoi riti di passaggio, belli o brutti, necessari o superflui.
Studi, cerchi un lavoro, a volte lo trovi e riesci a costruire qualcosa di decente, una sopravvivenza dignitosa, ti innamori, poi non ami più, poi soffri, poi ami ancora.
Procedi in avanti, a volte in linea retta, un percorso pianeggiante, altre volte, più spesso, a zigzag, al buio, a tentativi, in salita. Spesso fai un passo indietro e, se sei fortunato, è solo per prendere la rincorsa.
Razionalmente sai che sei diventato un adulto. O quasi. O almeno per le statistiche, anche se cercano di indorarti la pillola e ti lasciano davvero credere che l’adolescenza possa durare fino ai 35 anni e che sia plausibile, giustificabile, normale, non esserti emancipato, non averci nemmeno provato, nonostante l’alibi della crisi.
Lo sai che sei adulto, ma non lo realizzi. Allo specchio noti qualche rotolino, una ruga che – cazzo! – da dove salta fuori?, qualche riga bianca tra i capelli, i primi acciacchi, ma sei sempre un ragazzino, sei qualcuno che ha ancora tanta strada da fare, la vita davanti, l’energia.
Il figlio adolescente dei vicini di casa ti incontra in ascensore e ti dà del lei e tu pensi “dev’essere perché stamattina ho il viso stanco” e magari provi a vestirti come uno studente del liceo, senza che ti sfiori alcun imbarazzo, quarantenni vestiti Desigual senza vergogna.
Non ti rendi conto di essere diventato quello che un tempo erano i tuoi genitori, non capisci che sei passato dalla parte dei grandi.
Apri gli occhi bruscamente solo quando riesci a permettertelo e fai un figlio. O quando perdi un amico della tua età, all’improvviso e non per incidente. Quando una persona che ami si ammala e conta su di te. Quando perdi il posto e hai debiti e non ci sono genitori come rifugio sicuro. Quando devi sbrigartela da solo e non puoi fallire.

Io ho realizzato di essere diventata adulta in un viaggio, lungo, lontano, come tanti fatti e altri ancora da fare, e per la prima volta non ho avuto il desiderio di fuggire, perché non è più il momento di ricominciare, perché finalmente ho trovato una casa, una strada, una professione.
E quando fa tutto schifo, mi metto lì e lo restauro, invece di distruggerlo e ricostruirlo.

Ho capito che sono grande perché dimentico le cose e devo appuntarmi tante note sul telefono, perché anche se faccio tardi la notte, mi sveglio presto la mattina, perché non digerisco più la cipolla, perché bevo responsabilmente, perché mi viene istintivo controllare con la coda dell’occhio il nipotino che gioca, perché non si faccia male, perché sono io a chiedere a mia madre se ha bisogno di qualcosa e a preoccuparmi che stia bene, perché devo parlare con la banca per il mutuo, con l’amministratore del condominio per i lavori al tetto, con lo Stato per le tasse.

Ho sempre avuto paura che gli anni in più sarebbero stati chili aggiunti al mio bagaglio esistenziale, che avrebbero reso più faticoso ogni viaggio. Invece l’età adulta mi ha reso più leggera.
Una leggerezza diversa dall’inconsapevolezza dei ventenni. La leggerezza di chi ha capito come funzionano le cose e non ha più bisogno di troppi strumenti per procedere. Può finalmente viaggiare leggero.
Gli anni passati non mi spaventano più, anche se ho spesso il terrore di quelli che verranno. Non mi disturbano le distanze da compiere per realizzare sogni, ma le distanze fisiche dalle persone che amo. Non ho paura delle rughe, ma di perdere le idee, di non avere più parole belle da raccontare. Non mi interessano successo e soldi, ma la speranza di scrivere il romanzo della vita.

Sono ancora in uno di quei viaggi, lunghi, lontani, in cui realizzo di essere seduta al tavolo dei grandi.
Fa caldo, c’è un bel venticello e questa parte di mondo non sembra l’altro lato del pianeta. Anche se lo è. E quando mio fratello va a letto, io in Italia mi sveglio per andare a lavoro.
Non conta niente altro che abbracciarsi e ridere e bere il caffè insieme, prima che io riparta. Niente altro.
Perché la vera avventura degli anni a venire non sarà la fuga, ma il ritrovarsi. Perché i deserti si trasformeranno in spiagge e le difficoltà in sfide. Perché adesso siamo grandi e sappiamo fare le cose e non importa farle bene o male, correggerle, sbagliare e riprovare, purché si faccia tutto insieme, purché ci siamo sempre, l’uno per l’altra.
Lontani, vicini, che importa?
Io ci sono. Conta pure su di me. Sono diventata grande.