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Dodici sigarette e smetto

Non fumo, non ho mai fumato.

Vengo da una famiglia di non fumatori incalliti.

Di mio padre, che non viveva con noi, ricordo le lunghe onnipresenti stecche di Winston rosse. È morto prima dei 50 anni.

Non ho mai fumato a scuola, all’università, la sera in discoteca (perché un tempo, che noi ricordiamo bene, si fumava dentro le discoteche con buona pace dei capelli appena lavati), dopo il sesso, durante gli aperitivi, dopo cena, prima di cena. Mai.

L’altro giorno ho ricevuto una bella notizia e volevo fare qualcosa di particolare per festeggiare da sola.

Ho comprato un pacchetto di sigarette. Un pacchetto da dieci, le prime che ho visto dietro il bancone del tabaccaio, per darmi arie da fumatrice decisa, come se conoscessi la differenza tra un tabacco e l’altro.

La prima l’ho fumata per strada, mentre aspettavo l’autobus e mi sono sentita molto metropolitana, una me stessa che non guarda lo smartphone mentre aspetta, ma fuma, col terrore che mi puzzassero le mani di fumo, dopo, e le salviettine per lavare le mani pronte in borsa. È stata lenta e goduta. Mi ha fatto un po’ girare la testa.

Le due successive le ho fumate in casa, in due momenti di noia. Non so gestire la noia, mi sento in colpa, inizio a pensare a tutto quello che dovrei fare, che avrei dovuto fare, al lavoro, le pulizie, la spesa, la manicure, la depilazione. Fumare mi ha alleviato la noia per qualche minuto. Poi avevo sete, una sete tremenda. Un po’ ho tossito. Poi sono corsa a lavarmi i denti.

Tre ne ho fumate in compagnia di amici, aveva già più senso fare quello che facevano anche loro, riuscire, per una volta, a non perdermi i discorsi che si fanno mentre si fuma, i pettegolezzi, non su di me, però, che di solito resto dentro, nel locale, ad aspettare. Per uscire dall’osteria ho dovuto infilare il cappotto e la sciarpa e fumare senza guanti. Faceva freddissimo. Tutti aspiravamo in fretta e buttavamo via la cicca consumata solo per due terzi. Il freddo mi ha attaccato addosso l’odore. Dopo mi sono sentita un po’ a disagio.

Due volte ho accettato sigarette offerte dagli altri, oltre a quelle del mio pacchetto. Mi è sembrato un rituale di iniziazione. Nessuno si è accorto che fingevo soltanto di essere un fumatore.

Poi le altre non ricordo dove le ho fumate, le avevo, avevo del tempo libero, ho tolto il pacchetto dal cassetto, perché il non fumatore mette il pacchetto nel cassetto e poi se ne dimentica, e le ho fumate, non ricordando più nemmeno perché le avevo comprate.

Dopo dodici sigarette ho smesso. Non è un vizio che potrei coltivare. Costa meno che comprare scarpe, ma mi lascia un cattivo odore sulle mani, mi fa sembrare i cibi meno buoni, a volte mi fa bruciacchiare la lingua (per mancanza d’esperienza). È stato bello essere un fumatore. Mi sono sentita parte del gruppo. E poi al fumo ci si abitua e inizia anche a piacerti. Però ho smesso.

Un giorno, potrò convincere i miei figli a non fumare, perché io ho smesso. Sono stata forte. Potrei vantarmene con gli amici.

Dodici sigarette e smetto.

Col vino mi sembra molto, molto più dura.

 

Craving

Mi succede, a volte, di passare del tempo con gli amici, quelli che ti hanno capito e che tu hai capito, e parliamo di cose  frivole che diventano cose importantissime e di cose serie che non ci pensare, poi passa, senti com’è buono questo vino, guarda come stiamo bene stasera.

Dopo quei momenti con gli amici, quelli che sanno senza dover spiegare ogni volta, quando sono da sola a vivere il resto della mia giornata, mi succede, a volte, che mi senta quasi vuota dopo essere stata troppo piena, che si fermi il normale flusso di coscienza, si interrompa per un momento la colonna sonora interiore e mi ritrovi senza voglia.

Quegli amici sono diventati una sbronza, una di quelle che smaltisco a fatica, e non c’è mai un’aspirina morale che funzioni davvero, un canarino al cervello che me la faccia passare.

Allora succede che ho bisogno di sbronzarmi di nuovo di amici, quegli amici lì, e poi ancora e ancora e mi ritrovo, proprio io che figuriamoci non mi succederà mai, a prendere il vizio.

E mi accorgo che è un vizio che coltivo con passione, di cui non mi vergogno e che mi tengo stretto.

In fondo, è l’unico vizio che ho a non essere condannato dalla Chiesa.