101 modi per far soffrire gli uomini

Finalmente è uscito. Lo trovate nelle migliori o peggiori librerie, oppure potete ordinarlo online o acquistarlo in e-book.

Daniela Farnese (sono io, eh!) “101 modi per far soffrire gli uomini“, ed. Newton Compton, prefazione di Luca Bizzarri.

Un libro per donne che amano troppo e che devono imparare e difendersi e per uomini che vogliono capire come ragionano le femmine. Un libro per ridere e sorridere delle relazioni di coppia.

Qui la premessa: 

Grazie a Piera e Vinx per le foto

Chi l’avrebbe mai detto

Martedì dormirò per la prima volta nella nuova casa milanese.

Giovedì, 27 ottobre, uscirà il mio libro “101 modi per far soffrire gli uomini“, edito da Newton Compton, con la prefazione di Luca Bizzarri. Un manuale di sopravvivenza, ironico ma non troppo, per donne che amano troppo e non hanno ancora imparato a difendersi. Un libro anche per gli uomini, che sottovalutano spesso le loro compagne. Se non lo comprate, potrebbe esplodervi il naso.

Ho scoperto che si impara a essere felici, ma ci vuole pazienza.

Mi sono accorta che la fortuna è qualcosa che arriva e poi passa, che nessuno la merita davvero, che si può fare a meno di tante cose, ma non della serenità.

Ho ripreso a mangiare come una scrofa incinta.

Sto per cambiare montatura degli occhiali.

Vorrei dire a tutti quelli sulle cui spalle ho pianto per mesi che voglio loro un gran bene.

 

La nuova prospettiva

Stamattina guardavo un quadro e mi è tornato in mente questo amico. Non era un amico di quelli che dai, stasera usciamo!, di quelli proprio che vedi spesso, che non li chiami più perché vi scrivete con whatzapp. Era uno che conoscevo, da anni, con cui avevo passato il capodanno insieme, che era amico di mio fratello, che incontravo spesso sul treno per Venezia, che avevo visto, qualche volta, in piazza a bere spritz.

Guardavo questo quadro e pensavo che lui, cazzo, era bravo, che i suoi quadri mi piacevano, che era un tipo originale, di quelli che quando gli parli ti trattano con intimità, che non è da tutti, non da me che sono sempre riservata, all’inizio, e che nascondo la timidezza dietro l’aggressività. Pensavo che era uno entusiasta e triste, che l’ultima volta che l’ho visto mi ha detto che gli mancava un sacco lei, una lei che credo di non aver mai visto, però lui, con quella intimità lì, mi ha detto che lui voleva essere innamorato e io mica l’ho capito quella sera lì, mica ho capito davvero quello che mi raccontava dell’amore che massacra, mi sembrava solo uno che aveva bevuto troppo.

Qualche mese fa è caduto dal balcone e dicono che si è buttato e altri dicono che è inciampato.

È caduto e ce l’hanno detto e noi siamo rimasti tutti senza parole, perché lui era uno bravo, uno col talento, ma era troppo entusiasta e troppo triste. Forse. O forse no, forse cadiamo tutti senza un motivo, forse succede a chiunque di inciampare. Forse solo alcuni di noi, quelli col talento, vogliono così tanto essere innamorati da raccontarlo a una ragazza timida e aggressiva che vedi solo ogni tanto.

Si è buttato dicono. Oppure, dicono, è caduto.

Forse stava solo cercando una nuova prospettiva, per dipingere meglio quella cosa che esplode dentro e noi non vediamo e poi la capiamo tardi e ci sentiamo impotenti e fragili.

La Panda scassata

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, Elena mi ha scritto oh, dai, vieni a bere uno spritz, ché c’è un’amica che era con me in Erasmus e forse te la ricordi, dai, vieni.

E io figurati se mi ricordo le amiche sue che erano in Erasmus con lei, che ci sono stata una settimana a trovarla, a Lisbona, ed era il 2004 e non ricordo nemmeno quelli che erano in Erasmus con me, cioè, alcuni li ricordo, ma mica tutti, e comunque vado.

L’altra sera, quando è arrivato il freddo, ci siamo sedute in piazza, perché a Padova, nel Veneto, si sta in piazza, anche se fa freddo, le osterie sono piccole, non sono i bar o i locali di Milano, sono posti stretti e pieni di vino e la gente prende il bicchiere e sta in piedi o si siede ai tavolini, ed è arrivato il freddo, ma in piazza c’erano ancora i tavolini e noi ci siamo sedute a bere, io lo spritz e loro il prosecco.

Allora, l’amica di Elena che era in Erasmus con lei, che non ricordavo, come non ricordo tante persone, a volte anche quelle a cui ho voluto bene e che forse rivedrei volentieri, l’amica di Elena inizia a raccontare cos’è successo a quello e cos’è successo all’altro.

E poi parlano di questo svedese, con un nome tipo Oiken, Oirken, Orkien, che avevo anche memorizzato e poi ho dimenticato, ché il cervello registra e dimentica, è la miserabile vita e non possiamo farci nulla.

Oiken era una montagna bionda, proprio svedese svedese, e lui a Lisbona era come un pinguino al Cairo, spiccava, era fuori contesto, era diverso. Allora lo scippavano sempre, lo truffavano, gli facevano scherzi, perché i portoghesi sono così, gente spiritosa, sono come i napoletani, ma con meno sole, più vento in testa e più fado nel cuore.

Un giorno un amico siciliano presta la sua Panda scassatissima a Oiken, la Panda con cui era arrivato dall’Italia, ed era un catorcio, ma voi lo ricordate il valore inestimabile di una Panda scassata in Erasmus, a vent’anni? E Oiken poi torna a casa, la mattina dopo, disperato, perché gli hanno rubato la Panda. A lui rubavano tutto.

E poi il siciliano rientra con tutti i suoi bagagli, senza Panda, e l’Erasmus finisce e si salutano tutti e Oiken, Orkien se ne torna al suo paese.

E poi l’amica dice, mentre faceva freddo ed eravamo al secondo spritz io e al secondo prosecco loro, che due anni dopo, il siciliano riceve una chiamata, a casa dei suoi, dalla polizia portoghese e sembra che avessero trovato la sua auto, che era rimasta parcheggiata due anni dove l’aveva lasciata quella sera Oiken, che era svedese e, oltre a essere una montagna bionda, beveva come una spugna e quella sera non era stato derubato, non aveva ritrovato l’auto perché era così sbronzo da non ricordare dove l’aveva parcheggiata. E la Panda era lì e la polizia comunicava che stava per essere demolita, dopo due anni.

Penso che, passata l’incazzatura, il siciliano abbia riso molto della cosa, come abbiamo riso noi, come ho riso io, anche se faceva freddo in piazza.

Perché le cose succedono e a volte non sono come sembrano, sono più stupide, più semplici e più divertenti e, con il senno di poi, vale la pena di averle vissute per raccontarcele.

Io non vedo da tempo i miei compagni dell’Erasmus, a volte mi dico che non li rivedrò mai, ma tutti i vent’anni mi sembrano la stessa storia, meravigliosa e facile, soprattutto quando te la raccontano con un finale diverso, più allegro e più leggero, al secondo spritz.

Come quando

Ci sono gesti che fai per necessità e altri per abitudine. E quando la necessità diventa abitudine il tuo corpo ripete movimenti senza un vero perché.

Allora compi gesti strani e fuori luogo, perché l’istinto non segue la ragione.

Come quando ti aggiusti gli occhiali sul naso anche se stai indossando le lenti a contatto.

Come quando ti lavi le mani dopo averle appena lavate.

Come quando cerchi ovunque le chiavi e le hai già in mano.

Come quando provi a legarti i capelli e poi ricordi di averli tagliati.

Come quando riempio due tazzine di caffè e tu non ci sei più.

Succede

Non sono mai stata ottimista.

Sono fatalista come tutti i napoletani, melodrammatica, passionale, scassacazzi, permalosa. Parlo troppo, racconto tutto ad alta voce, sono teatrale, sarcastica, lamentosa. Ho slanci di smodata generosità e non me ne pento, ma a volte, di nascosto, faccio la somma degli abbracci dati e ricevuti e vorrei avere di più di quello che do. Sono malinconica, nostalgica, severa. Sono possessiva, ma non gelosa. E non sono mai stata ottimista. Noi napoletani ci arrangiamo, tiriamo a campare e cantiamo, mangiamo e ridiamo solo perché non abbiamo fiducia nel futuro.

Però, questa volta, voglio pensare che andrà tutto bene, che le cose schifose andranno via e resteranno quelle belle, che non dimenticherò le volte in cui sono stata felice, in cui siamo stati felici, che ricomincio dal mio tre.

Stamattina non mi sento pessimista.

Succede a noi napoletani dopo una lunga serata passata a bere cabernet veneto.

Piccole, piccolissime grandi donne

Non ricordo se avevo davvero tutta questa voglia di diventare grande.

Ricordo che i grandi avevano problemi noiosi e insormontabili, che dormivano sempre poco, che passavano il tempo libero a fare le pulizie, il bucato, la spesa, i conti, la fila in posta, le melanzane alla parmigiana, il gattò di patate, che parlavano sottovoce se entravamo in cucina all’improvviso, che si addormentavano, stanchi morti, davanti alla televisione.

Ricordo che nei pranzi a casa di nonno avevamo i tavoloni in due camere diverse, quello per gli adulti e quello per i bambini, e vedersi era sempre una festa e poi litigavamo per la cocacola e per le barbie e poi crescendo, ogni nuova pasqua e nuovo natale, ci scambiavamo i vestiti e i consigli su come truccarci e, forse, sì, avevamo voglia di diventare grandi, ma solo per stare più tempo fuori, per sentirci libere. E spesso litigavamo e poi ci criticavamo, ed eravamo amiche, oltre che cugine.

Io vi ho sempre amate tutte e non volevo crescere, forse volevo solo poter viaggiare quando volevo, potermi sentire meno diversa, meno a disagio. Vi trovavo tutte belle, anche quando l’adolescenza ci rendeva odiose, anche quando il tempo ci allontanava e quando nonno è morto e non ci sono più stati i pranzi belli, con tutta la famiglia numerosa riunita e i carciofi fritti e il caffè che finalmente potevamo bere anche noi.

Ieri vi guardavo, in quella chiesa piccola e piena, e mi chiedevo quando è successo che siamo diventate grandi, che abbiamo iniziato a dormire sempre poco, ad avere problemi noiosi e insormontabili, ad addormentarci, stanche morte, davanti alla televisione. Quand’è successo che siamo diventate donne e abbiamo iniziato ad accudire, invece di essere accudite, a pagare per gli sbagli, a incassare i piccoli traguardi.

Ieri ho capito cosa c’era in quelle parole dette sottovoce in cucina e se solo avessimo potuto capire, se solo ci avessero detto che avremmo pianto tanto, riso tanto, che avremmo affrontato le malattie, la disperazione, la disoccupazione, le separazioni, i traslochi infiniti, se solo ci avessero detto che saremmo sopravvissute ai nostri figli.

È ottobre e sembra ancora estate. Mi sono accorta che ormai entro in chiesa solo per i funerali. Eravate tutte bellissime. Non sono riuscita a dirvelo, nemmeno sottovoce.