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La fatica dei sogni

Non mi sono mai pentita di aver scelto la libera professione.
Avevo un posto da dipendente, facevo un bel lavoro, guadagnavo pochissimo, ero pendolare (Padova-Venezia, 42 km all’andata, 42 km al ritorno), la mia era una piccola azienda con delle colleghe carinissime e con proprietario “paròn”, che ci considerava figli quando tutto andava bene e mangiapane quando le cose si mettevano male.
 
Ho lasciato tutto senza avere un progetto, sono venuta a Milano, sono stata fortunata perché cambiare le cose ha smosso le acque, ha cambiato l’energia intorno a me e sono arrivati contatti, progetti, proposte, novità.
 
Adesso faccio il lavoro che ho sempre sognato, guadagno di più di quando avevo il posto fisso (ma ho avuto anche periodi di pane e cipolla), gestisco il tempo in maniera più razionale, riesco a stare più ore con mio figlio di quante ne passerei se fossi in ufficio.
Non ho nessuna certezza.
I miei progetti non vanno mai oltre i 4-5 mesi. Otto mesi, quando va bene.
Ho barattato la tranquillità per il tempo, la sicurezza per la scrittura, il contratto per il contrattare.
Mi ripeto sempre che avrei dovuto farlo molto prima, perché questa vita mi calza a pennello.
Ma ritengo che ognuno debba poter scegliere qual è la sua strada, condizioni permettendo.
Ripeto: se le condizioni lo permettono.
Perché ambizioni, progetti e sogni devono pur coincidere con la realtà.
 
Nel nostro piccolo dovremmo avere il coraggio di scegliere sempre l’opzione che ci somiglia di più, anche se richiede più sforzo. Ma nel caso non avessimo alternative, dovremmo cercare di non maledire la sorte e provare a cambiare il poco che possiamo.
 
Realizzare sogni, grandi o piccoli, presuppone fatica. Anche se nessuno te lo racconta mai, perché è più poetico raccontare che tutto accade per destino. Il destino (anche detto botta di cu*o) conta in minima parte. Servono volontà, determinazione, fame e ottimismo.
Io l’ottimismo non l’ho mai avuto, però ho fame per un esercito.
Buona fortuna.

Il tempo quando non fa il galantuomo

È il primo novembre, dal 2011, in cui non uscirà un mio nuovo romanzo in libreria. Stava diventando una piccola tradizione a cui iniziavo a legarmi. Era confortante sapere di avere un appuntamento fisso con i lettori più affezionati.

Quest’anno è stato professionalmente tutto più difficile, perché la maternità è un’esperienza totalizzante, un lavoro 24/7, è vivere la vita di un altro essere umano dall’inizio, nutrirlo (letteralmente) col tuo corpo, essere presente a tutte le sue prime conquiste, restare sveglia per notti intere, e per settimane o per mesi riuscire a riposare poco e male, col rischio di concentrarti pochissimo, avere tempi di recupero eterni, non essere mai disponibile negli orari in cui dovresti.

Sono stata fortunata perché ho comunque lavoricchiato, su progetti belli, per agenzie e riviste serie e professionali, con colleghi pazientissimi, soprattutto considerando che ho la nonna che vive a 250 chilometri di distanza e un budget molto risicato per assistenza specializzata (sante tate, carissime tate!). Ho provato a incastrare tutto tra un riposino, la notte, un giorno libero del mio compagno, qualche mattina di autonomia.

Però un libro no, non ce l’ho fatta. Ho trovato un’agente (e avrei dovuto farlo due anni fa), abbiamo scelto un soggetto da sviluppare tra i tanti che avevo in mente, un editore a cui proporlo, e adesso non mi resta che provare a scrivere uno e due capitoli per capire se è nelle mie corde. Ma il tempo della scrittura è un tempo infame, che non ha rispetto dei programmi, che non sfrutta le ore libere, che ti lascia a marcire giorni interi davanti a una pagina bianca e poi spinge e preme quando non hai in mano nemmeno il cellulare per prendere appunti, figuriamoci un pezzo di carta!

È vero, come mi ripetono in tanti, che quest’anno ho dato alla luce il mio più grande capolavoro, (mio figlio, eh, e non lo trovate sugli scaffali), ma è altrettanto vero che è frustrante rendersi conto di non riuscire a fare tutto, di dover rallentare, mollare la presa, accorgersi che il tempo non sa fare il galantuomo come dicevano, e a volte corre troppo in fretta, quando non riesci a lavorare, e va tanto lento quando sei immersa nelle cose meno piacevoli, come la gastroenterite che il tuo piccolo ha preso dopo nemmeno una settimana di inserimento al nido.

Non sarà sempre così, lo so. Ci saranno altri libri e spero resteranno anche lettori curiosi di leggerli. E ci saranno altri lavori, quando tornerò efficiente al millepercento. Lo so e lo sanno tutte le mamme.
Ma trattateci bene, quando abbiamo paura di non tornare più le stesse di prima, perché forse è vero che non lo torneremo più. Forse saremo migliori. Forse scriveremo dei libri meravigliosi che non sapevamo nemmeno di avere in testa e ci ricorderemo di questi momenti fragili e irripetibili con tenerezza.
Forse.

Io voglio pensare che dopo sia sempre meglio di prima.

(Se non hai mai letto i miei libri e sei curioso o li hai letti e hai nostalgia, li trovi tutti qui).

Di film belli e offerte di lavoro

WordPress ha fatto i capricci tutto il giorno e il mio post quotidiano, cancellato, riscritto, ripreso e poi andato in malora, è slittato a stasera. Però (però) in TV danno quel film meraviglioso di Gondry che il mondo chiama The eternal sunshine of the spotless mind e che noi, solo noi, abbiamo ribattezzato con orrore Se mi lasci ti cancello.

E io lo riguarderò per la millesima volta. E piangerò ancora e ancora. E penserò ancora che l’amore è proprio così e preparerò un pezzo strappalacrime per domani.

Promesso.

Ah, quasi dimenticavo: sono alla ricerca di un grafico che voglia studiare insieme a me un nuovo tema per il mio blog che sia più simile alla nuova me stessa. Ne voglio uno bravo e paziente. E se fosse economico, poi, uh, che meraviglia! Per candidature e preventivi, trovate i miei riferimenti nella pagina contatti.

Passo e chiudo.

Il futuro è un posto meraviglioso

Sono in vacanza.

Non ferie, vacanza, perché noi liberi professionisti ci ritagliamo il riposo quando abbiamo poco o niente da fatturare.

Ho passato nove mesi a lavorare ininterrottamente, anche nei fine settimana, ed è una cosa bella, anche se faticosa, perché oltre a bollette e mutuoaffitto pagato, ho anche avuto l’illusione che la crisi stesse per sparire. D’estate mi sono chiusa in casa a scrivere. Tutto agosto a Milano, da sola, rintanata nel mio appartamento silenzioso insieme al gatto. Ho scritto un romanzo, un racconto e tre proposte per nuovi libri. Ho fatto pace con le parole e adesso mi sembra di averne tantissime da usare e troppe storie da raccontare. Consegnato il libro nuovo, chiuse un paio di collaborazioni, sono in vacanza.

Parto in viaggio, a visitare posti belli, prendere appunti, buttare giù soggetti, abbozzare capitoli, salutare gli amici.
Da grande mi piacerebbe fare questo: viaggiare, scrivere, leggere, fotografare, mangiare, chiacchierare.
Piacerebbe a tutti, certo, ma io ci credo davvero che possa diventare un lavoro. Forse non l’unico, ma – diciamo – il principale. Dopo aver fatto tanto, atteso, sperato, rischiato, perso spesso e raramente vinto, dopo aver faticato, elemosinato il mio dovuto e tenuto la testa bassa per portare a casa la pagnotta, credo che sia giunto il momento di sognare a occhi aperti e voce alta e di puntare il più in alto possibile.
E se non dovessi farcela, posso sempre rimettermi a fare quello che faccio da una vita intera: la simpatica precaria che, nonostante tutto, crede ancora che il futuro sia un posto meraviglioso.

Ci vediamo presto.

Piazzola di sosta

Circa tre anni fa, quando l’amore sembrava un inevitabile supplizio, e non c’erano più respiri, ma solo sospiri, e le attese non avevano mai fine e non c’erano ritorni, ma solo addii, qualcuno mi disse che un giorno avrei rimpianto la devastante sensazione di sofferenza amorosa. Perché certe emozioni ti riempiono fino all’orlo, ti avvolgono stretto, fino quasi a stritolarti, amplificano ogni tua percezione, ti fanno sentire disgraziatamente così vivo che quasi non riesci a sopportarlo.
In quei momenti sei solo amore, sei solo dolore. Non ci sono bollette da pagare, fatture da incassare, colleghi di lavoro fastidiosi, metropolitane in ritardo, offerte al supermercato, lavatrici da fare, parrucchieri da prenotare. Non c’è piccolezza, pragmatismo, quotidianità. Sei un eroe tragico. Sei puro spirito.

Era un periodo in cui scrivevo tanto. Mandavo segnali. Desideravo buttare fuori tutto il disagio che mi riempiva, tutto il nero, tutto. Era il momento in cui ti trasformi e, se ci riesci, di quel te che eri rimane solo l’ombra, che ti segue o ti precede per la strada.

L’estate è arrivata prima che perdessi quei due chili, prima che progettassi lunghe fughe al mare, prima che iniziassi tutti i progetti che avevo in mente, prima che riprendessi in mano il libro su cui stavo lavorando.

Il tempo è veloce e io sono lucida. C’è tanto lavoro, anche se non quello che avevo immaginato. Ci sono persone nuove, anche se non quelle che avevo cercato. Ci sono le parole da scrivere, anche se non hanno più l’urgenza di una volta.

A ripensarci adesso, mi dico che è stato bello sopravvivere. È stato bello e faticoso ricominciare ancora, e cambiare tutto, e arredare una casa nuova, e cambiare molte volte taglio di capelli, e dimagrire tanto e poi tornare a mangiare di gusto, e conoscere nuove persone, e viaggiare, e cambiare mille lavori, e innamorarmi ancora.

Chissà se la serenità è un traguardo o solo una piazzola di sosta.

 

Ce. La. Puoi. Fare.

Per la mia laurea, nel lontano 2002, avevo chiesto in regalo una Reflex. Una Canon EOS analogica, ché il futuribile era di là da venire, con un bell’obiettivo. Una discreta macchinetta, perché dopo anni di viaggi strampalati e di scatti rubacchiati con piccole compatte e metri e metri e metri di pellicola, avevo deciso che da grande avrei potuto fare la fotografa. Che ne sai? Tutti mi dicevano hai occhio, dovresti lavorarci su, poi te ne vai nei paesi arabi con la tua laurea che come ti è venuto in mente di prenderla e ci fai dei bei reportage.

La maneggiavo come se fosse di cristallo.

Un paio di settimane dopo me ne sono andata a Napoli. Ho fatto una sosta di pochi giorni a Roma. E mi sono fatta fregare la macchina. Subito. Un borseggio. Oh, succede. A Roma ti fottono anche se sei napoletano. Ma a me non avevano mai rubato nulla. Allora i sensi di colpa che hai quando ti succede qualcosa di brutto, potevo evitare? è stata colpa mia? potevo essere più scaltra? se avessi fatto? se avessi cambiato strada?

Ho letto questa cosa come un segno. Demotivante. Io sono la regina del pessimismo. Quando mi porgono un bicchiere, io non penso nemmeno se è mezzo vuoto o mezzo pieno, tanto sono sicura che contiene acqua non potabile. Mi farà male al pancino.

Mesi dopo, al mio compleanno, gli amici avevano fatto una colletta per ricomprarmi la reflex. Ma io avevo già abbandonato l’idea di fare la fotografa. Sono fatta così. Mi scoraggio. E lascio perdere.

Sono sempre stata brava, anche molto, molto brava, in tante cose, lo studio, il teatro, il coro, le lingue, la cucina, la matematica, il ragù, ma non credo di essere mai stata eccellente in niente. Se nasci con una voce incredibile, una bellezza incantevole, una presenza scenica sublime, un portentoso orecchio musicale, un quoziente intellettivo da genio, una mano da pittore, i piedi da atleta, lo capisci subito il tuo destino.
E anche se non sei il numero uno, prima o poi arriva il momento in cui scegli cosa fare. E ti impegni. E ci provi.
Non succede a tutti. Anzi, molte persone si lasciano vivere, ragionano per obiettivi minimi: lavoro, casa, famiglia, macchina, vacanza e vivono vite degnissime e soddisfatte, senza l’ansia di un progetto maggiore. Però quasi tutti coltivano sogni, che abbandonano per incapacità, pigrizia, maturità.

Io ho abbandonato molti sogni per paura, altri perché la realtà mi ha presa a schiaffi, altri perché mi stavano stretti e altri ancora me li sono proprio dimenticati.
Certe volte, in passato, mi sono circondata di persone entusiaste e brave. Forse erano i vent’anni. Forse mi avevano conosciuta con un’altra luce negli occhi, non lo so, ma quelle persone lì, alcune, mica tutte, anche se per brevi momenti, avevano creduto in me. E allora io mi ero sentita speciale. E quelle volte avevo pensato davvero che sarei diventata una grande attrice o una grande antropologa o una grande scrittrice o una grande donna.

Poi, certo, c’è stata la vita, i lutti, i debiti, la precarietà, le scelte sbagliate, i problemi in famiglia, le malattie, i traslochi, gli amori finiti. A un certo punto la ricerca di un sogno sembrava una perdita di tempo. Lavorare, guadagnare, sopravvivere. Ho cambiato così tante vite e case e città, che a un certo punto mi sono ritrovata così diversa che non mi riconoscevo nemmeno più.
E quando è diventato tutto un po’ più difficile, superati i 30, con contratti in scadenza, fatture non pagate e mutuaffitto, anche le persone intorno a me sono cambiate.
Così, negli ultimi anni, quando le cose andavano male, in moltissimi mi dicevano che dovevo accontentarmi. Accontentati, riduci le aspettative, lima i sogni. Mi spiegavano dove sbagliavo, così convinti di avercela fatta loro, solo perché, magari, erano riusciti a coprire la loro mediocrità con un accumulo di flebile ricchezza. Quando cresci, i sogni perdono valore se non ti rendono danaroso.

Allora l’Italia andava male, però per le persone negative intorno a me ero io, io, con la mia incapace indolenza, con la mia pigrizia, con la mia chissàcosa, chiticredevidiessere, a non funzionare. Quindi taglia, riduci, togli.

L’insicurezza è un virus letale. Se non lo curi subito, con una bella dose di faccia tosta, diventa cronico. E l’insicurezza ti fa circondare di brutte persone. Che sono tipo vampiri, che ti succhiano energie e forza, ma meno fichi dei vampiri, hanno la pancetta, la cellulite o la forfora. In sintesi, mi sono circondata di stronzi.

Mi hanno fatta sentire di nuovo borseggiata. Hai solo puntato troppo in alto. Solo quello.

E così ho rallentato. Rallentato. Rallentato. Poi mi sono fermata. Scrivere, viaggiare, stringere mani, fare colloqui, inviare progetti, fare brainstorming. Tutto fermo. Solo piccole cose, senza alzare gli occhi, come dicevano loro, riduci, ridimensiona, ti insegniamo noi come si fa. Un’ombra.

Epperò mi ha salvato l’imprevisto. Quello lì, l’uomo che non aspettavi ed entra nella tua vita e ti dice che tu sei di un altro pianeta e chi ti ha detto che non puoi volare ti ha mentito. Quell’uomo che ti insegna la filosofia di Stallone e ti dice ogni volta che cadi devi rialzarti, alzati, combatti anche per 14-15 round, perché non importa se stai prendendo a pugni un campione, tu ce la puoi fare. Anche se perdi, ce la fai. Lui, che quando tu gli dici non sono capace, non l’ho mai fatto, non ci riesco, lui non ti abbraccia e compatisce, ma ti dice fallo e basta, muoviti, sei invincibile.
Funziona. Non da un giorno all’altro. Ma funziona.
Ricostruire l’autostima, allontanare la negatività, riprendere i sogni che non è troppo tardi, ritrovare l’energia.
La procrastinazione, mi fotte, su quello devo lavorare, ma funziona.
A volte i sogni si realizzano solo se c’è qualcuno che ha davvero fiducia in te. Un po’ come Babbo Natale, che se ci credi, esiste. Un po’ come il Punto G.

Sia chiaro, non ho realizzato ancora nulla, però ho capito una cosa importante. Bisogna puntare in alto. Anche bluffando. In alto.

Ce. La. Puoi. Fare.

E vaffanculo le brutte persone!

Oggi è domani

Fallito anche l’ultimo strategico tentativo di risanamento dell’economia familiare (l’estrazione della Lotteria), l’esordio del 2014 sembrava non promettere nulla di buono.
L’ansia di dover pagare la mini-Imu con le relative mini-bestemmie, il recupero crediti dello già scarso guadagno del 2013, i chili di troppo che, anche in momenti di crisi, ti si azzeccano addosso durante le sante festività, la desolante sensazione di essere completamente senza un lavoro, dal momento che col conto alla rovescia della sera del 31 è terminata anche l’ultima collaborazione in essere.
Respira. Sei ancora viva.
Feste con gli amici, tanto vino recuperato nelle cantine di amici di amici e Dio benedica il Veneto!, panettoni già al 50% da metà dicembre e rendiamo grazie alla crisi. L’importante è comportarsi come se non fosse cambiato nulla. Fingere. Fottere la miseria millantando normalità.
L’abbonamento in palestra pagato in anticipo non permette distrazioni: correre, sudare, chiacchierare negli spogliatoi. Le sciure del pilates non sono andate in montagna quest’anno. Restano a casa a fare le nonne e a concedere una vacanza ai figli più precari.
C’è stato anche il mio compleanno.
Ho vinto il record di ingestione di cannoncini della pasticceria Panarello in un pomeriggio. Mi hanno scritto in tantissimi. Da tutti i lati del mondo. Quelli che guarda, dovevi venire anche tu a vivere qui all’estero, ma anni fa. Oh, adesso cominci a essere vecchia e non sai fare niente di cui ci sia bisogno all’estero. Tu fai cose inutili, scrivi, parli, chiacchieri sui social, recensisci, liveblogghi, presenzi.
Sei un chissene su un curriculum vitae.

Il nuovo libro accumula polvere nel mio cervello. Mica è facile. Prendere storie che ti sei tenuta nel cranio per mesi e poi tirarle fuori. Questa volta è quello che vuoi. Ma se non dovesse andare bene? Se alla fine fossi solo brava a fare quello che non ami?

Se non provi non lo saprai mai, è vero, ma forse a volte è meglio non sapere, non conoscere i propri limiti, vivere nell’illusione di poter essere migliore senza dover dimostrare di esserlo.

Al giorno 10 del mese di gennaio ti sale l’ansia. Il cuore galoppa, non chiudi occhio, non riesci a mangiare. La disoccupazione giovanile è al 41%, ma tu tiri un sospiro di sollievo: non sei più una giovane. La tua generazione, quella dei figli della Legge 30, quella dei precari senza vera flessibilità, quella dei camaleonti contrattuali, quella dei disperati a progetto, ha ormai accettato la realtà. Tireremo a campare per sempre. Continuando a versare contributi a una gestione separata dell’INPS che li usa per pagare le pensioni ai lavoratori più fortunati di noi e che non ci restituirà nulla, se non una serie di affettuosi calcinculo. Tireremo a campare ereditando le proprietà dei nostri genitori, se ci sono, o pagando per trent’anni rate di mutui esageramente ridicole, per appartamenti che si stanno svalutando come le mutande di Intimissimi sui culi cellulitici.
Il premier si dichiara ottimista. Bene. Tutti gli altri no. Tu compresa. Nel 2013 ci sono stati 2 milioni di disoccupati in più e questo – ahinoi – significa concorrenza nella disperazione.

Sono iniziati i saldi e ti sei accorta che non ti serve nulla. Non che non desideri nulla, perché tu vorresti tutto, i leggings leopardati, le scarpe con tacchi grossi, le giacche di pelle e borchie, le finte pellicce di finti animali per finte fescion blogghe. Vorresti tutto, ma non ti serve nulla. E risparmi soldi che comunque non avresti.
E leggi di scandali, di gente che ruba i tuoi soldi, di politici che politicano, di giornalisti che giornalano.
Per la prima volta, in tutta la tua vita, ti chiedi come sarebbe stato essere più furba. Come quelli che te l’hanno messa nel sedere in questi anni. Come sarebbe stato rubare, non pagare le tasse, andare a letto con uomini disgustosi per avere un buon posto e una buona rendita. Saresti stata davvero meno felice, perdendo la tua integrità? Quant’è sottile in Italia il confine tra onestà e coglionaggine?

Lunedì 13 gennaio ti scrivono che stanno per pagarti delle fatture in sospeso. Sorridi e apri il frigo e mangi cose a caso per festeggiare. Poi ti propongono un lavoro per cui non sei qualificata, ma ti dici che puoi sempre millantare. È un inizio. Le cose si mettono in moto, c’è di che essere fiduciosi. Dicono che dipenda anche dal karma. Milioni di italiani disperati a causa del karma di merda. Sarà, vuoi crederci. Volere e potere!
L’unica cosa che avresti dovuto fare nei giorni d’immobilità era scrivere.
Eri troppo disperata. L’unica disperazione che sai scrivere è quella sentimentale. Quella professionale non lo sai fare. L’avessi saputo fare saresti stata un’autrice fantastica. Puoi sempre imparare.
Ti sei detta “domani mi ci metto”.
Oggi è domani.
Doppia caffettiera e relativa tachicardia, veloce rassegna stampa, la consolante disperazione di non aver nulla da perdere.
È una condizione mentale. La disoccupazione ti fa perdere fiducia, che ti fa perdere energia, che ti fa perdere entusiasmo, che ti fa perdere carisma, che ti fa perdere occasioni. È tutto nella tua testa. Dicono.

Tanto. Non. Hai. Nulla. Da. Perdere.

Oggi è domani. E mal che vada, sarà dopodomani.

Inizio.
Metto su un altro caffè.
Non lo bevo, lo annuso soltanto.
Promesso.
Vado.

Tu lavori? E io non ti pago

L’ho già scritto molte volte, ovunque, compreso nelle email che mando a mammà, che la crisi è diventata un alibi sfruttato fino all’esasperazione per non pagare.

Riassumo il mio pensiero spicciolo: in Italia c’è lavoro. Non ce n’è come un tempo e non ce n’è per tutti, soprattutto per quelli che – ammettiamolo – non hanno mai saputo fare una mazza, si sono adagiati su piccole certezze ormai scomparse nel vento, senza mai aggiornarsi, evolvere professionalmente, studiare, imparare.
Però ce n’è, se sai proporti, se sai adattarti, se conosci le lingue, se sai interagire con esseri umani e non di qualsiasi tipo, se sei disposto a farti il mazzo. Lavori.

Il vero problema è farsi pagare.
Non paga nessuno. Ma proprio nessuno.

Certo, io sono una libera professionista e probabilmente il mio mondo è molto più complicato (ma forse nemmeno tanto), rispetto a quello di un dipendente. Ricordo che, fino a tre anni fa, quando avevo il mio contratto a tempo determinato, lo stipendio veniva accreditato ogni mese, ma sul collo mi pendeva un’altra mannaia, quella del rinnovo che fino all’ultimo giorno “vedremo” “chissà” “non possiamo garantirtelo”.

In Italia non paga nessuno. Quelle scadenze che tu metti in fattura, 30 gg, 60 gg df, 90 gg dffm ecc., non servono a nulla. Sono geroglifici che nessuna amministrazione, grande o piccola, riesce o vuole più decifrare.

“Eh, ma c’è la crisi!”

È una crisi che da vent’anni ci trasciniamo come biglietto da visita da debitori, da quando è diventato lecito (e legittimo) pagare dopo due, tre, sei mesi una prestazione professionale.

La scusa più frequente che ti senti dire è: “quando il mio cliente pagherà me, io pagherò te” e lì vai a capire se non si perderà nella notte dei tempi, il saldo della tua fattura, dal momento che la tua attesa si basa sulla fiducia che il tuo datore di impiego non abbia liquidità sufficiente a pagare il tuo micragnoso compenso.

Non escludo che i casi di inadempienza siano in alcune situazioni l’unica possibilità di rimanere a galla, ma ho la certezza, supportata da fatti, che il malcostume sia soltanto diventato prassi, prassi alla quale abbiamo fatto l’abitudine, adeguandoci con rassegnazione, convinti di non avere alternativa.

Il lavoro del freelance si sviluppa in queste fasi:

– aggiornamento competenze
– autopromozione
– contrattazione di un compenso molto spesso umiliante, frutto di “chiediamo a qualcun altro che ce lo fa per la metà” “abbiamo un budget risicatissimo” “possiamo al massimo darti un sacchetto di fagioli secchi e un buono pasto” “ma alla fine devi farci due sciocchezze” “ma questo preventivo è fuori dal mondo. Quel lavoro può farlo una mia stagista a costo zero”
– svolgimento della prestazione che risulta essere sempre più impegnativa e onerosa di quanto concordato
– fatturazione con indicazione termini di pagamento
– attesa saldo
– attesa
– attesa
– attesa
– sollecito ad amministrazione
– attesa
– attesa
– ulteriore sollecito con minaccia (palesemente fasulla) di consultazione con legale
– attesa
– colorite bestemmie e richiesta di prestito a genitori pensionati per poter pagare affitto e bollette
– attesa
– desiderio di cavare gli occhi a cliente inadempiente con un cucchiaino
– ulteriore disperato sollecito che verrà infilato nella cartellina spam
– raro lieto fine con pagamento
– nessun pagamento, con successiva reale consultazione di un legale che chiederà un compenso pari o maggiore al pagamento dovuto e che a sua volta dovrà attendere tuo saldo.

Le aziende corrette, rarissime, quando hanno difficoltà a mantenere gli accordi, ti avvisano in anticipo e ti inviano scuse scritte e garanzie di pagamento repentino.
Le altre, la maggior parte, fanno finta di nulla, addestrano i referenti amministrativi all’omertà, insinuano nelle email sibilline minacce di non rivolgersi più a te per ulteriori lavori (e stigrandissimicazzi! Sono io che non voglio più lavorare con te, brutto rottoin***o!), spesso giustificano il loro ritardo con tue carenze o errori che, guarda caso, non erano saltati fuori durante lo svolgimento della mansione.

C’è una soluzione al circolo vizioso del lavoro e non vengo pagato quindi cerco altri lavori per mangiare e non vengo pagato nemmeno per quelli e così all’infinito?

Nelle appassionate discussioni su Facebook e Friendfeed sull’argomento, le ipotesi sono sempre irrealizzabili: “richiedi un anticipo prima di iniziare il lavoro” (ahahahahahaha. Sarebbe più facile chiedere a Sergio Múñiz di passare la notte con me e ricevere un sì come risposta), “rifiuta il lavoro” (rinunciando anche alla minima speranza di ricevere del denaro in un lontano futuro), “cambia mestiere” (uh, come ho fatto a non pensarci!), “vai a vivere all’estero”.

Il Paese è lo specchio della sua classe politica, clienti truffaldini, nessun senso civico, fornitori e dipendenti senza alcun potere contrattuale e nessuna possibilità di mordere, ferendola, la mano del padrone, l’idea viscida e radicata che pagare (tasse, prestazioni, servizi) sia una perdita di tempo.

Quelli di noi che hanno una memoria a più lungo termine della massa ricorderanno senza fatica che il declino del sultano ventennale iniziò quando una delle sue mignotte decise di sputtanarlo, perché non era stata pagata.

Se potessimo produrre energia dall’indignazione, avremmo risollevato le sorti dell’Italietta.

E invece ci troviamo a fare i conti con la desolante certezza che le cose cambieranno a fatica e sempre perché arriverà qualcuno da mamma Europa e tirarci le orecchie. Se mai accadrà.
E siamo circondati da tanti piccoli lavoratori come noi che decidono di essere conniventi.
“Piuttosto che non lavorare lavoro gratis”.

Be’, caro collega che abbassi il valore del mio lavoro concedendo la tua prestazione a costo zero, convinto che un domani la cosa possa tornarti utile e, intanto, abiti nella tua cameretta di bambino a casa di papà, ti svelerò un segreto: se non sei pagato, non è lavoro. È volontariato, o masochismo. Se non ti fai pagare adesso, nessuno ti pagherà mai, perché il tuo valore verrà concepito per il prezzo a cui lo vendi: zero.

E voi, cari clienti che non pagate e fate finta che la cosa vi sia sfuggita per distrazione, che leggete o no il mio blog, che considerate il mio lavoro buono o cattivo, ma non prioritario, salvo cercarmi per risolvere rogne, voi che non sganciate un euro da mesi e dormite tranquilli, sappiate che io vi ricordo sempre nelle mie preghiere, nell’ultima disperata speranza del contrappasso, quando starete bruciando tra le fiamme dell’inferno e i diavoli vi rassicureranno dicendo “non ti preoccupare per la sete. Tra 180 giorni fine mese, ti darò una lattina di Coca Zero”.

Probabilmente smetterò domani

Stamattina è come se la vita avesse scoperto che non ho fatto i compiti.

Dovevo consegnare un lavoro che non ho mai iniziato perché ho capito che non sono in grado di farlo. E ho quindi passato una notte intera ad alternare il sonno all’autocommiserazione.

Quando riesci a rendere la tua passione un mestiere, corri il rischio di tradire te stesso. Pur di non perdere occasioni, accetti anche proposte che non ti somigliano, che non ti fanno crescere, che tirano fuori i tuoi lati meno interessanti, che abbruttiscono il tuo piccolo talento, che mettono in discussione il tuo piacere nel fare le cose.

Non bisogna mai perdere l’entusiasmo per le cose che amiamo. È un sacrilegio, è un peccato, è una follia.

Per evitare di sentirmi a disagio con quello che mi piace, ho imparato a fare una cosa che solo dieci anni mi sarebbe sembrata impossibile. Ho imparato a dire di no. Anche a rischio di perdere futuri contatti più interessanti. Mi dispiace, non me la sento, preferisco non farlo.

È il motivo per cui, per campare, mi ritrovo a fare altri lavori. Quando ce ne sono e quando pagano.

Pochi giorni lontana dal mare hanno sbiadito la mia abbronzatura. Non me ne sono accorta, mentre andava via piano piano.
Ieri mi sono guardata allo specchio e mi sono vista pallida e sbiadita, con l’estate che mi scivola addosso, sgocciolando sulle infradito, fino a sparire.

Ho fatto la mia lista di buoni propositi e ogni anno è sempre più breve. Non perché abbia realizzato quelli degli anni precedenti, ma perché ho imparato che devo essere molto più indulgente con me stessa.

Un sacco di amici, che mi conoscono da prima del web, mi chiedono della Siria e dell’Egitto. Ho studiato in quei paesi e ho la mia laurea in Arabo ed Ebraico che avrebbe dovuto trasformarmi in una bella persona. Poi ho cambiato strada. Di quella vita precedente, ricordo che dovevi avere grandi ideali, grande curiosità e grande competenza. E adesso che mi sento lontana da quegli anni entusiasmanti, seguo con pena e sgomento quello che accade.

A volte penso di essere un gatto, pigro e acciambellato sul davanzale della finestra. Delle mie nove vite, ne ho già fatte fuori un po’ e devo impiegare le altre con parsimonia.

L’aria di questo settembre profuma di sfide e di coraggio e questo lunedì inizio anche la dieta. Probabilmente, smetterò domani.

 

Prima o poi arriverà l’estate

Ho consegnato anche l’ultimo libro. Il secondo scritto dall’inizio dell’anno. Non avrei mai creduto di scrivere tanto. È bello, faticoso e mi causa un continuo straniamento.

Chiusa in casa, china su word, perdo la cognizione del tempo. Pensavo fosse aprile, invece è già giugno, anche se fa freddo come a ottobre.

Mi rimetto a cercare lavoro, ma è sempre più difficile. Non dovrebbe finire la crisi? Non dovrebbe essere ciclica?

Per fortuna ho tempo e frigo vuoto per prepararmi alla prova costume.

Prima o poi arriverà l’estate.

Tempi di recupero

Ho sempre pensato che il più grade lusso sia poter gestire il mio tempo come credo.

Gli ultimi anni da dipendente li ho vissuti da pendolare: bici legata dietro la stazione, treno all’alba, battello fino a Rialto, solo mezz’ora di pausa pranzo, battello, treno, bici, rientro.

E poi ci sono stati quei lavori in auto a 25 km da casa e quelli per cui prendere la metro, l’autobus, la corriera, il calesse. E i cartellini e gli straordinari e i recuperi e il lavoro fatto a casa nei weekend e mai retribuito e le riunioni che finivano alle nove di sera perché l’amministratore delegato si era svegliato nel primo pomeriggio e aveva fatto tardi.

Tutti lavori pagati pochissimo, perché ringraziaiddio che ce l’hai un lavoro, perché cèlacrisi, perché è il mercato, perché potremmo sempre fare a meno di te, perché – vedrai! – al rinnovo ti facciamo lo scatto di livello e invece mai.

Quando ho deciso di diventare una libera professionista, ero molto stanca. Guadagnavo poco, lavoravo tanto e avevo troppe responsabilità e poca soddisfazione. È stata una scelta obbligata: esaurimento nervoso o tranquillità. L’uno o l’altra.

Adesso il tempo lo gestisco io. Quel poco che mi rimane. Perché non ci sono più orari, fine giornate, fine settimana. I giorni in cui posso dormire fino a tardi sono quelli in cui non c’è lavoro. Quando non c’è lavoro non si guadagna. Nell’ultimo anno ho lavorato molto poco e ho guadagnato pochissimo. Un anno che ho chiamato “tempo di recupero”.

Non tornerei indietro. Preferisco inseguire tanti clienti che leccare il culo a un solo padrone. Preferisco lavorare di notte e poi dormire un paio d’ore dopo pranzo. Preferisco stare a casa che in ufficio. Tra guadagnare poco alla scrivania di un’azienda e guadagnare poco sul mio divano, ho scelto la seconda. L’ho fatto soprattutto per un motivo: il posto fisso non mi avrebbe comunque garantito di campare serena.

Fino a quando potrò resistere, resisterò. Negli ultimi due anni ho fatto molte cose belle e ho stretto molto la cinghia. Ho avuto il tempo per scrivere e leggere. Un ottimo tempo di recupero.

Sono convita che le cose andranno meglio. Vivo un’altalena emozionale continua. Un mese fa temevo di morire di fame, adesso penso che potrò arrivare almeno a luglio.

Stamattina ho dormito fino a tardi. Stanotte lavorerò per recuperare.

È tutta una questione di gestione del tempo e gestione delle tazzine di caffè.

Caffè e tempo. È tutto lì.

Disoccupati jazz

La prima cosa che ho capito nella ricerca di un lavoro è che nessuno deve capire che hai davvero bisogno di un lavoro. Soprattutto se anche tu ti sei ritrovato, come me, a fare il freelance o, meglio, il disoccupato jazz.
Devi dare l’idea di essere uno richiestissimo, che se lo fa è proprio perché vuole farti un favore, che deve controllare la sua agenda fitta di impegni. Ti faccio sapere, non so se riesco, sono pieno di richieste, tutti mi vogliono, tutti mi cercano.

Il fornitore di lavoro è più predisposto a far sgobbare chi ha già una fonte di guadagno che chi non ce l’ha. Perché, se nessuno ti fa lavorare, è quasi sicuramente perché non sei abbastanza bravo. Importa poco se il tuo curriculum è eccellente, se hai dimostrato di essere in gamba, se hai già lavorato con successo in tanti progetti simili. Ce l’hai un lavoro? No? Allora mi dispiace, non posso darti lavoro.

Quello che spesso la gente ignora (o fa finta di ignorare), in un settore come il mio e in moltissimi altri, è che la maggior parte dei lavori si ottengono non per merito, ma per strette di mano, aperitivi tracannati insieme, matrimoni, discendenza, passaparola. Quello che più conta è la tua capacità mondana e diplomatica, chi frequenti, chi sposi, con chi sei andato all’università (e con chi sei andato a letto, anche se il sesso è una moneta di scambio che ha sempre meno valore, a meno che tu non sia un ultrasettantenne Presidente del Consiglio).

Essere bravi è spesso la cosa meno importante. Non sempre, certo, ma con molta frequenza. Perché dovrei affidarti un lavoro in base al tuo curriculum, quando tizio e caio sono amici di mia moglie dai tempi del liceo?

Così, se perdi il lavoro ti ritrovi in un circolo vizioso di non lavoro e l’unico modo per uscirne e trovare di nuovo lavoro è, appunto, trovare un altro lavoro.

Cosa stai facendo al momento? Mah, seguo progetti, do consulenze, collaboro.

La millantata collaborazione è l’unica scappatoia alla fame. Purché sia credibile. Con un po’ di pratica, diventi credibilissimo nella supercazzola del lavoro supposto. In un Paese meraviglioso in cui anche i politici millantano titoli di studio e competenze, perché dovresti privarti del vantaggio di venderti come se fossi stocazzo?

Oltre alla frustrazione e alla disperazione di non poter arrivare a fine mese o, peggio, nemmeno alla metà del mese, devi sorbirti anche la beffa del “preferisco affidare il progetto a qualcuno che è già attivo nel settore”.
Sei un passivo, motivo per cui te lo infilano sempre nel sedere.

Qualche mese fa, all’inizio del mio periodo nero di mancanza di liquidità che ancora persiste, per i pagamenti sempre più dilazionati e per la diminuzione di brand e agenzie alla ricerca di figure come la mia, ho mandato a tutti i conoscenti che potevano darmi una mano questa e-mail.

Ciao,

hai sentito parlare di quella faccenda della crisi?
Ecco, io mi ci sono ritrovata invischiata, senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Quindi, adesso, cerco lavoro.
Sono brava a intrattenere, organizzare e scrivere. Ma so fare tantissime altre cose. Tutte quelle che servono.
E non sporco, non alzo la voce, non organizzo ammutinamenti, non rompo le scatole.
Ho una partita IVA e non ho paura di usarla.
Insomma, cerco collaborazioni, anche piccole e non ho bisogno di scrivanie perché lavoro benissimo da remoto.

Se conosci qualcuno che cerca, potresti fare il mio nome? Ti ricorderò per sempre nelle mie preghiere.
Scusa se ti ho messo in ccn, ma era il modo più veloce per implorare più persone allo stesso tempo.

Buona giornata,
Daniela

Tutti mi hanno dimostrato grande solidarietà, anche se la trippa per gatti era pochissima e a spartirci la pagnotta siamo in troppi, tranne un conoscente che mi ha detto, con molta franchezza: “speri davvero di trovare lavoro chiedendo lavoro? Devi tirartela! Te lo puoi permettere. Solo i perdenti elemosinano collaborazioni”.

Così ho provato a tirarmela. Ho chiesto un prestito per pagarmi l’affitto, in attesa che gli ultimi creditori saldino i loro conti, e sono andata avanti. Sono tornata a fare la presenzialista, a infilarmi agli aperitivi, a fare la linea comica, a sorridere, ad andare a cena con beceri figuri che “proponimi un’idea” (salvo poi sparire quando la tua idea non coincide con il loro materasso). Ho iniziato a dire che mamma mia, non ho un momento libero, per tutto questo lavoro!

La stima nei miei confronti è tornata alle stelle. Ah, che sensazione meravigliosa sentirsi vincenti! Anche se la spesa all’Esselunga la paghi in quattrini e non in ammirazione.

Pochi giorni fa, un progetto per cui ero perfetta è stato assegnato a un’altra persona. Secondo un talpa interna, il mio preventivo era troppo basso e non mi dava credibilità.

La seconda cosa che ho imparato sul lavoro è che se costi poco nessuno ti darà un lavoro. Salvo poi perdere lavori perché “non c’è abbastanza budget”.

Il ministro Fornero aveva scatenato un putiferio affermando che i giovani italiani sono troppo choosy.

Be’, io credo che invece… VAFFANCULO!

La terza cosa che ho imparato sul lavoro è che non capirai mai fino in fondo cos’è che fa davvero funzionare le cose.
Improvvisare, bisogna continuare a improvvisare.

“Quando non sai cos’è, allora è Jazz!”
(Alessandro Baricco)

 

 

Promemoria

Mi hanno chiesto: come mai aggiorni così poco il blog?

Eh. Grazieperladomanda.

Perché ci sono twitter e facebook e il tempo da perdere e il libro da finire e consegnare speriamo in tempo. E poi ci sono i viaggi, il lavoro, e le rogne.

Chi come me non ha fatto del blog un lavoro non può fare a meno di trascurare il blog per il lavoro. O per la ricerca di lavoro.

Scrivo questo post come promemoria, per ricordarmi che vale sempre la pena scrivere per comunicare e non solo per mangiare.

Torno a fare tutto il resto.

La generazione dello speriamo

“Siamo la generazione dello speriamo”, ci siamo dette un paio di sere fa io e la mia coinquilina, mentre consumavamo una delle nostre cene improvvisate davanti al solito telegiornale apocalittico.

Le nostre non sono speranze allegre e motivanti, così normali da giovani e così appaganti da vecchi. Il nostro speriamo nasconde fatica, frustrazioni, terrore per il futuro e un enorme dispendio di energie.

L’Italia non è mai stato un Paese meritocratico e non ne ha mai fatto mistero. Importa molto poco il talento. Quello che ha davvero valore è il cognome. Eppure siamo riusciti ad andare avanti senza estinguerci (forse nostro malgrado) e a costruire qualcosa che sembra progresso e, molto raramente, sembra anche democrazia.

Per quelli come noi, nati alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80, c’è stata anche la sfiga generazionale. Siamo entrati nel mercato del lavoro quando stava cambiando, sgretolando certezze e condannandoci a effimeri spiragli di normalità professionale che la storia ha bollato come precariato.

È vero, e lo sosterrò fino alla morte (che mi travolgerà precoce per l’ansia da mutuo), che la rivendicazione di un diritto al lavoro non deve essere alibi per mascherare incompetenza, inadeguatezza e pigrizia. Non tutti siamo bravi, non tutti siamo all’altezza, non tutti ci facciamo davvero il mazzo e meritiamo di poter progettare un futuro. La crisi aumenta la competitività e dovrebbe fare emergere talenti.

Dovrebbe.

Purtroppo non ci riesce sempre, perché qualsiasi talenti e idee hanno bisogno di un fazzoletto di terra per essere piantati, curati e lasciati crescere. Un piccolo capitale da investire, un mecenate, un’occasione, un contatto, un’università prestigiosa pagata dai genitori, la casa di tua zia presa in affitto per due lire. Esistono persone che si sono fatte da sole, ma la maggior parte ha iniziato a navigare nel grande mare delle professioni aggrappata a un piccolo salvagente che aveva in dotazione.

E comunque non siamo giustificati, quando ci lamentiamo senza dare il massimo, quando ci rassegniamo e smettiamo di cercare, quando pur di rimanere nello stesso quartiere in cui siamo nati, rinunciamo a possibilità di lavoro più lontane.

Nella giungla, se ti fermi troppo tempo sotto a un albero ad aspettare che la frutta ti cada in mano, rischi di essere sbranato dai ghepardi o, se ti va di lusso, che le scimmie ti usino come toilette.

Chi si ferma è perduto, ragazzi! Celacrisi, celacrisi, celacrisi!

Detto questo, però, non raccontiamoci balle. Anche quando diamo il meglio e siamo bravi e non molliamo e rischiamo e abbiamo coraggio e non tentenniamo, finiamo a guardare il calendario sul nostro computer, a contare i giorni che ci separano alla fine del mese e a dire speriamo.

Nell’ultimo periodo, mi sono ritrovata a sopravvivere facendo solo cose che mi piacciono. Dopo anni e anni di frustranti lavori svolti, anche con entusiasmo, solo in funzione dello stipendio, inizio a occupare il mio tempo facendo cose molto vicine a quelle che avrei voluto fare da grande.

Va bene, certo, non mi ci mantengo ancora, ma spero di farlo molto presto (e lo spera anche la mia commercialista, che passa il tempo a tirarmi le orecchie per la mia incapacità non di essere libera, ma di essere professionista).

Quando mi dicono eh, però hai avuto fortuna, avrei voglia di saccheggiare tribù e radere al suolo villaggi. La fortuna è quella di Gastone Paperone, che si china ad allacciare la ghetta e trova un portafogli colmo di dollari. La fortuna è quella della ragazza della porta accanto che accompagna l’amica a un casting e viene scelta come testimonial planetaria di una campagna pubblicitaria fichissima (NdR storia che, tra l’altro, fa parte della mitologia di quasi tutte le top model, pensaunpo’).

La fortuna è quando a prescindere da merito, impegno, fatica, dolori, lacrime, porte in faccia, le faremo sapere, ti viene dato qualcosa.

In pochissimi hanno davvero fortuna e, tra questi pochissimi, non ci siamo né io né te.

Siamo una generazione fondata sullo speriamo. In questi giorni speriamo addirittura che ci diano un governo che finalmente possa indicarci come continuare a morire ammazzati. Speriamo e stiamo invecchiando. Facciamo progetti sperando, conviviamo sperando, figliamo sperando.

La sola consolazione è che abbiamo imparato la leggerezza e che, mai come ora, l’ironia sembra essere epidemica.

Dicono che toccato il fondo, si inizi a risalire.

Speriamo.

Speriamo.

Chi vive sperando, muore cagando! Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941.