Chissà cosa ci spinge ad associare momenti della nostra vita all’accumulo di determinati oggetti.
Da piccola amavo le cartolerie. Girare tra scaffali di quaderni, matite, gomme da cancellare, cartelline mi faceva sentire in pace con il mondo. L’odore della carta, così confortante, come ogni volta che entri in una libreria e sai che sei circondato da buona compagnia.
Pochi giorni prima di iniziare la scuola, mia madre ci portava da Amodio a Port’alba per comprare diari, astucci, penne e tutte le armi che ci sarebbero servite per affrontare classe, insegnanti e materie. Lo zaino no. Ché ho avuto lo stesso Jolly Pro dalla prima media alla quinta superiore, trattato con rispetto, conservato come un cimelio.
Era bello. Perdevo la cognizione del tempo. Amavo soprattutto l’idea che la maggior parte di quegli oggetti avrebbe scandito il tempo che passava: smemorande che segnavano i giorni che mancavano al Natale, le matite da temperare fino al mozzicone, le gomme da cancellare che si consumavano piano. Finire le cose. Esaurire l’inchiostro delle Bic, scrivere fino all’ultima pagina dei quadernoni. Non so spiegarlo. Mi faceva stare bene.
Quando è arrivata l’adolescenza e sono stata portata a Padova, mio malgrado, ho iniziato ad amare le profumerie. I rossetti scuri, lo smalto, gli ombretti viola. Provare sul dorso mano le tonalità. Spruzzarsi profumi da uomo per sentirsi più trasgressive. Rubare i tester dei prodotti troppo cari. Andare con le amiche a cercare di mascherare il disagio di crescere.
E poi il periodo dei CD, il periodo dei braccialetti etnici, quello dei libri delle edizioni ES e quello delle scarpe.
Stamattina leggevo un articolo che spiegava che l’età adulta non esiste più. Siamo abituati a sentirci giovani fino a quando non diventiamo anziani. Posticipiamo il tempo delle responsabilità. Facciamo figli quasi fuori tempo massimo. Restiamo a casa dei genitori a lungo, a volte per necessità, molto più spesso per scelta. Un governo di cui l’età media è 47 anni è considerato un governo “giovane”. A 40 anni sei un ragazzo. A 50 sei giovane. Dovrebbe consolarci, l’allungamento di una presunta età dell’oro. E invece no. Dall’età infinita della minigonna alla menopausa, senza soste intermedie. Traumatico. Deleterio.
Io invece sono diventata adulta. Me ne sono accorta quando ho smesso alzare la voce. Quando durante uno scontro mi fermo e lascio perdere. “Come ti pare”. Quando ho capito che molti dei miei errori non dipendono dagli altri. Quando mi sono resa conto dei miei limiti. Quando ho capito che non sempre ce la posso fare da sola.
Sono diventata adulta quando ho iniziato ad accumulare tazze. Prese in viaggio, scelte con cura all’Ikea, fatte personalizzare con foto o scritte simpatiche, comprate ai festival, con la data che ricorda “io c’ero”. E quando, finita la convivenza, sono tornata a vivere da sola, ho cominciato a bere una moka da due intera, ho accantonato le tazzine e ho iniziato a usare solo tazze. Ho la mia preferita da caffè, che non metto in lavastoviglie e lavo sempre a mano. Ho quelle da tisana, quelle per i cereali, quelle che non uso spesso perché la forma o lo spessore non mi piacciono, quelle in cui offro il tè agli amici.
Ho due ripiani della cucina strapieni di tazze. E quando ne vedo qualcuna in un negozio di casalinghi, magari color malva o con una forma strana o con il manico buffo o di un materiale nuovo, devo fare uno sforzo per non acquistarla.
L’età della responsabilità è quella delle tazze.
Ho imparato a rinunciare agli oggetti quando ho dovuto affrontare grossi lutti. E tutti i traslochi. Le cose non ti danno un’identità. Pensare che un oggetto possa essere la forma di un ricordo, spesso, non sempre, ma spesso ti fa dimenticare che la memoria ti seguirà nel mondo senza bisogno di materia. Tu non diventerai quello che lasci e quello che lasci non sostituirà mai te. Sei solo quello che riesci a portarti sempre dietro, compresi affetti, dolori, gusti, idee, affanni, sorrisi.
Poche cose sono con me da tanto tempo. La maggior parte si sono fermate nei vecchi appartamenti, a casa di mia madre, da qualche amico, in garage, nelle stanze di qualcuno che le ha ricomprate. Ogni vita nuova aveva oggetti nuovi, che diventavano ricordi nuovi a cui non affezionarsi troppo.
Per fuggire lontano o ricominciare, ancora e ancora, serve viaggiare leggeri. Non esiste nulla a cui non si può rinunciare. Esistono solo persone e luoghi di cui hai davvero bisogno.
Stamattina, mentre lavavo la mia tazza preferita, quella rossa di quel festival lì, ho quasi rischiato di farla cadere e per un momento mi è mancato il fiato. L’ho afferrata al volo. Intonsa. L’ho riposta con cura ad asciugare e ho capito che non è tempo di ripartire, anche se in questi giorni lo farei, infilerei le scarpe comode e correrei via senza fermarmi mai.
Non è ora di lasciare tutte le tazze.
Forse non lo sarà mai più.
Smettere di scappare è l’età adulta.
Anche se gli psicologi dicono che non esiste più.