Qualche giorno fa ho ritrovato in un cassetto delle foto di quando ero ragazzina che non mi sono mai piaciute. L’immagine ritratta in quelle foto non mi rappresentava. Non mi vedevo così. Anzi, non volevo vedermi così.
L’adolescenza non è stata clemente con me. Fino ai 17 anni sono stata cicciotta e poco carina, dopo i 17 sono diventata scheletrica e poco carina. Avevo un sacco di personalità, senso dell’umorismo e cervello, però, eh, oh, è andata così.
Mentre facevo a brandelli quelle fotografie, mi sono chiesta come mai non me ne fossi liberata prima.
Per molto tempo ho avuto il timore di sbarazzarmi di alcune immagini che ricordavano il mio passato, comprese quelle a cui erano legati ricordi spiacevoli. Mi sembrava di rinunciare a un pezzo di vita. Attribuivo un valore sacrale a quelle stampe 10×15 cm.
Nel mio recente viaggio in Brasile, durante il quale ho scattato così tante foto che non basterebbe un social network intero per contenerle, mi sono accorta che qualcosa è cambiato.
Uno scatto che non mi piace lo cancello. E ci riprovo. Se mi trovo brutta in una foto, la rifaccio. Se non posso rifarla, amen, la butto nel cestino e finisce lì.
La tecnologia ci ha dato una grandissima possibilità: costruire e preservare i ricordi migliori che possiamo avere.
Ormai salviamo solo il meglio, quello che non ci mette a disagio e ci fa stare bene.
In Tutto su mia madre di Almodóvar, il meraviglioso personaggio di Agrado dice “Una es más auténtica cuanto más se parece a lo que ha soñado de sí misma“. Più somigli all’idea migliore che hai di te stessa, più sei vera.
Non c’è nessun motivo per non riempire la memoria di ricordi perfetti. Io ci sto provando.
(Questo post è anche per chiederti di non taggarmi in foto in cui faccio schifo. Non lo fare. Davvero. Non farlo. Grazie).