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Il punto di non ritorno

Il punto di non ritorno è quando il viaggio diventa interiore.
Parti, ti decontestualizzi e vedi le cose da una prospettiva diversa, con colori che non ti erano sembrati mai di quella tonalità, con i suoni che ti sorprendono alle spalle e ti fanno sentire teso come un animale selvatico. Pronto all’attacco. Pronto.
I viaggi più incredibili sono quelli che ti succedono dentro, quando sei a casa e non la riconosci, quando le persone che ti stanno intorno tornano a essere mondi nuovi e ti sembra che tutto possa, debba, iniziare da zero.

Ricordo il primo lungo viaggio che ho fatto da sola con mio fratello. Avevamo vent’anni, un padre appena seppellito, il bisogno di sentirci vivi e la fame di scoperta. Mi è sembrato eterno ed è durato soltanto due settimane e poi mesi e mesi dopo, dentro, trasformandomi in qualcosa di diverso.

Non importa dove vai, ma come ci vai. E come torni, quando torni e se mai torni.

Sono rientrata piena di entusiasmo e di appunti. Mi sono detta adesso scrivo e scrivo e allora acquisterà un senso tutto quest’anno passato a dire che bisogna fare delle proprie passioni un mestiere, sarà servito a qualcosa rinunciare al terzo libro previsto a Natale di una trilogia che non finirà, per raccontare le storie che mi vivono dentro da un po’.
Mi sono detta torno a commentare la politica e l’attualità, riprendo il mio blog sull’Unità, sarò più presente su twitter, mi infilerò in tutti questi spazietti lasciati liberi dai veri intellettuali per dire la mia, mi risveglierò dal torpore accidioso e terrò duro fino a quando non mi arriveranno un po’ di soldi e potrò tirare il fiato.
Ho dormito per due giorni e ho sentito i muscoli rilassati e ho fatto una scorpacciata di sogni confusi.
Mi sono seduta al tavolo bianco della sala milanese, quella con le finestre grandi che guardano in due direzioni e che a volte ammiccano, col sole forte, e ti danno l’idea di affacciarsi sul mare.
Nulla.
Non è successo nulla.
Ho risposto alle email, fatto un paio di lavoretti piccoli piccoli, ho guardato tanti telefilm, ho sfogliato i giornali online, ho letto le notizie e ho pensato bisognerebbe indignarsi, scrivere, dire, fare qualcosa, fare davvero qualcosa. E poi non ho fatto nulla.
Sono uscita a passeggiare e mi sembrava tutto nuovo. Il caldo imprevisto di ottobre, il cielo grigio senza speranza, le mani degli amici, i banconi dei bar.
Un pomeriggio sono uscita per fare qualcosa che nemmeno ricordo e non l’ho fatta. Mi sono infilata in una libreria e mi ci sono persa e alla fine non so quanto tempo sia passato e tutte quelle quarte di copertina erano pianeti e dovevo scegliere dove atterrare per fare rifornimento.
Leggo. In silenzio. E poi interrompo le persone quando parlano e dico le cose che mi passano per la testa.
Questo è un viaggio nei miei limiti, nei ricordi, a volte felici e molto spesso dolorosi. È il parto di un cambiamento, la nascita di qualcosa che non poteva più non venire fuori.

Va tutto bene, l’amore, gli amici, il nipotino che cresce, la salute, l’autunno leggero, i miei libri sugli scaffali. Eppure non ho voglia di ritornare in me, forse perché sono troppo pigra o forse perché, se questa volta dovessi fallire, non potrei perdonarmelo.

A volte vado a correre, senza averne voglia. La cosa più difficile sono i primi passi. Non mollare. E poi altri ancora. E il corpo che continua e il cervello che ti chiede perché lo fai? perché insisti? Non vuoi essere qui, vuoi restare sul tuo divano, immobile, a immaginare corse infinite che non inizierai mai. E supero il primo chilometro e mi dico fino a qui tutto bene e mi dimentico quello che stavo pensando un attimo prima e i polmoni si riempiono e la fronte suda e vado avanti, perché non c’è altro da fare.
Andare. Avanti.

Ulisse ci ha messo dieci anni per ritornare a casa e il viaggio era la vita stessa, l’avventura. Io rientro con lentezza e qualcosa intorno a me sarà sicuramente cambiata. L’energia, l’entusiasmo, le distanze tra me e gli altri, i bisogni, la storia nuova che avrei dovuto buttare giù due mesi fa e che ancora sto pensando, i silenzi confortanti di cui mi nutro per giorni interi, le giornate che diventano corte, ed è subito sera.

La fine di agosto

Dobbiamo rassegnarci all’estate che finisce.

Finisce sempre la maledetta estate.

Poi arriva settembre che è tempo di bilanci, di abbronzatura che va, di giornate che si accorciano, di amori che resistono malconci alle prime folate di tempo freddo.

Sono tornata a Milano. È ancora mezza addormentata. Fa caldo e io credo moltissimo negli ultimi giorni di agosto. Secondo me, sono i giorni migliori dell’anno, quelli che amavo di più quando andavo a scuola, quelli da spiagge ormai semideserte, da corse in motorino, da birre al tramonto, da arrivederci, da ti scrivo e poi non scriverai mai, da rivediamoci e poi non ti rivedrai fino alla prossima estate.

Domani esce il mio libro e io andrò a comprarne una copia fingendomi una che passa. Poi mi metterò a cercare lavoro. Poi ti chiamerò per passare la serata a bere e mi racconterai la tua, di estate, e io sorriderò e poi ci guarderemo senza dire nulla.

Manca ancora un po’ alla fine dell’estate. Io ho già le scarpe giuste da indossare. E indosserò il migliore dei sorrisi e l’autunno non mi fotterà e possiamo sempre fingere di essere ancora in vacanza, in un posto bellissimo, che conosciamo solo noi e di cui, molte volte, dimentichiamo la strada.