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Noi resisteremo sempre

Da giorni rimugino sulle parole di Domenico Starnone che, sulle pagine di Internazionale, ricordava che noi italiani abbiamo il triste primato di aver inventato il fascismo.

Sono stati giorni terribili per la nostra umanità, a leggere le bacheche di Facebook e Twitter, improvvisamente invase da orrendi individui senza empatia né compassione, che gioivano, rinunciando anche allo scrupolo dell’anonimato, di tante vittime del mare, che avevano la sola colpa di essere nati nel posto sbagliato.
Molti, come me, in questi tempi sono stati lontani dalle polemiche, delusi, sopraffatti dallo stupore di accorgersi che anche dietro il più assiduo frequentatore dei banchi della chiesa si può nascondere un razzista, magari anche evasore fiscale e un po’ mariuolo, però forcaiolo con chi non è della sua stessa, strettissima, razza.
Gli italiani non sono diventati peggiori, a causa di crisi e televisione e telefonini e cibo spazzatura, sono sempre stati così, come faceva notare Starnone: servili e prepotenti, opportunisti e vigliacchi, intolleranti e campanilisti, ignoranti ed esigenti.
Questo ho pensato in questi giorni grigi, di notizie pubblicate migliaia di volte e poi migliaia di volte ritrattate, commentate, screditate, urlate, taciute.

Quello che, però, avevo dimenticato, così presa dal pessimismo, è che noi italiani siamo anche il paese che ha sconfitto il fascismo, siamo il paese dei partigiani che hanno combattuto e sono morti per regalarci la libertà di poter avere e difendere, oggi, qualsiasi opinione, anche la più spaventosa.
Siamo il Paese della Resistenza, che 70 anni fa ci ha ridato dignità di essere umani.

Tra poco spariranno tutti i testimoni di quell’epoca in cui uomini piccoli resero grande l’Italia e spetterà a noi continuare a mantenere viva la memoria della storia, per salvarci dal revisionismo, dal nuovo fascismo leghista, dalla bruttura della fine della solidarietà, dalla paura costruita a tavolino solo per controllare e dominare il popolino bue.
Saremo noi la memoria e a noi è affidato il compito di coltivarla, tramandarla e proteggerla. Ed è il più grande onore che gli italiani belli potessero concederci.

C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro se stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.”

Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino.

Il prossimo anno ci salveremo da soli

Gli ultimi giorni dell’anno a letto con l’influenza mi hanno obbligata alla solita resa dei conti, che – per una volta -avrei voluto evitare. Nei deliri da febbre alta, cocktail di paracetamolo e brodo fatto con il dado, sudore, gatto che mi rubava il letto e telefilm in streaming, ho rivisto il film dei sensi di colpa, delle scelte sbagliate e quelle prese in graziadiddio che mi hanno (forse) cambiato la vita, degli errori, dei traguardi, dei sorrisi e delle lacrime.
Quello appena trascorso è stato, tutto sommato, un buon anno.
Non un anno ricco, non un anno molto produttivo. Un anno buono.
Dodici mesi in cui ho fatto tutte le cose per bene, nel lavoro, in amore, con la scrittura, con la famiglia, con le amicizie. E quando fai le cose per bene, e ti impegni, e sei onesta, soprattutto con te stessa, non puoi avere rimpianti.

Poi, certo, c’è il porcomondoboia che funziona a scatti, che ti mette i bastoni tra le ruote e non dipende da te. Non può sempre dipendere da te. E questo rallenta la crescita, smorza gli entusiasmi, produce fastidio e bestemmie, sconsola, deprime.

La crisi economica ormai è una balla. Non c’è un complotto mondiale per farci diventare dei poveracci. Non c’è più un buco nero in cui sono trascinati tutti e, quindi, anche noi. No. Il problema è che noi sguazziamo in un mare di fango che ci siamo creati da soli. Il problema è che l’Italia è un Paese schifoso e meschino.
Punto.
Corruzione, mafia, sprechi, evasione fiscale, classe politica completamente ignara di come viva davvero la popolazione, tassazione delirante sui meno abbienti, nessuna meritocrazia, nessun rispetto per la cultura, disprezzo per l’onestà e stima per l’ignoranza truffaldina, pressapochismo premiato come intraprendenza, massoneria, demagogia, populismo, razzismo così radicato e così malcelato da essere endemico, omertà, connivenza.
Non credo esistano altri casi al mondo di potenze industriali ridotte a teatrino dei pupi nel giro di qualche decennio.
È sempre più faticoso amare la nostra terra. Come un marito che ti prende a pugni. Come una madre che ti abbandona in un cassonetto.

L’unico grande rimpianto del 2014 è quello di aver capito di non essere in grado di migliorare il Paese e di essermi rassegnata all’idea che non cambierà. La perdita della speranza è il primo segno della fine e non so se è generazionale, se dato dalla stanchezza o da un eccesso di informazione, ma non credo più che ci siano possibilità di redenzione.

Così, il prossimo sarà l’anno in cui a tutti toccherà salvarci da soli.

Sono ottimista per me, perché sono convinta di avere margini di miglioramento: nei prossimi dodici mesi voglio viaggiare a est e a ovest, scrivere finalmente il mio primo romanzo non rosa, voglio bere il vino più buono, voglio guardarmi allo specchio e piacermi sempre e comunque, voglio frequentare persone belle e lasciare andare gli opportunisti, i falsi amici, i passivi aggressivi, i cattivi consiglieri, gli invidiosi, i rancorosi, gli “amici” per cui lavori e non ti pagano. Voglio leggere e guardare mille film e ascoltare musica e ammirare i tramonti. Voglio baciare di più, fare di più l’amore, abbracciare di più, ridere di più, parlare di più e ascoltare di più.
Voglio continuare a essere onesta, a credere che il merito paghi, a investire nel talento e non nei pompini, a fare il mio lavoro al meglio, a studiare, a capire le cose.
Voglio salvarmi.

Ed è il mio augurio per tutti voi.
Fate le cose per bene, salvatevi, non lasciatevi tentare da tutto il marcio che ormai ci circonda. Siate belli e senza rimpianti. Siate coraggiosi. Siate il Paese che amerei alla follia.
Magari tra un anno saremo qui a dirci: hai visto? Avevamo sbagliato! C’era ancora qualcosa per cui valeva la pena lottare: noi.

 

Nessuno ha più voglia di restare

Nessuno ha più voglia di restare.

I miei coetanei se ne sono già andati. Non tutti, e chi è rimasto non fa che pensare di aver sbagliato a dare una possibilità al Paese. Chi è rimasto è considerato un perdente, un pigro, uno non abbastanza bravo. Perché a nessuno può davvero venire in mente che tu sia rimasto perché l’ami davvero, l’Italia.
Non si ama una madre che ti affama, ti umilia, uccide la speranza, ti sfrutta, ti toglie quello che ti spetterebbe di diritto per darlo a chi ruba, imbroglia, minaccia.

Sono rimasti quelli che potevano permetterselo: casa comprata da mammà, lavoro trovato da papà, mutuo intestato alla nonna, perché nessuna banca lo darebbe a te. E poi sono rimasti i folli, quelli che continuano a credere che c’è ancora qualcosa di buono da salvare, e ogni mattina si svegliano con un peso all’altezza dello sterno, che non vuole scendere, non vuole salire, che ogni giorno camminano in equilibrio su un filo sottilissimo e sanno che, se si spezzerà e cadranno, non ci sarà più la possibilità di tornare in posizione eretta.

L’Italia è un paese di caste. Per quanto tu possa impegnarti, essere bravo, avere tenacia, seguire le regole, se nasci senza santi in paradiso, senza genitori ammanicati, senza denari, resterai un poveraccio tutta la vita. Non importa quanto tu abbia talento, quanto le tue idee siano geniali. Qui ci vogliono le conoscenze, i soldi, qualcuno che ti paghi le spese, ci vogliono gli amici, non quelli a cui vuoi bene, gli amici, quelli che aprono porte, stringono mani, chiedono e ricevono favori.
Ci sono due soli modi per riuscire a emanciparti dalla tua casta: rubare e dimostrare di essere uno di loro, o sposartene uno e, se tutto va bene, sperare che nessuno si accorga da dove vieni.

Io sono una di quelle che è rimasta. A vent’anni me n’ero andata e poi sono tornata, convinta che ci fossero margini di miglioramento, che avrei fatto di differenza, che avrei cambiato le cose. Purtroppo, poi, sono stata infettata con il virus che ha distrutto la mia generazione: il disimpegno. Ho smesso di lottare, di capire, di alzare la voce. Perché più tiravo pugni, più i muri diventavano duri, più correvo, più la strada si allungava, più gridavo, più le persone intorno a me diventavano sorde.
Forse anche per età, smetti di pensare a TUTTI e cominci a concentrarti su di TE. Magari, ti dici, se provi a salvarti da solo, ce la fai.
Non ce la fai. Non ce la fai.

Il giorno che sono arrivati i miei coetanei al potere ho pensato che era arrivato il momento di liberi tutti, la svolta, la trasformazione. In Parlamento c’erano ragazzi come me che non erano partiti, non avevo scelto un’altra patria, un’altra casa, ed erano rimasti a camminare su quel dannato filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
E invece no. Sono arrivati sugli scranni quelli rimasti in Italia perché potevano permetterselo e non perché volevano guadagnarselo, quelli che non cambieranno le cose, perché non hanno mai avuto bisogno di farcela e non hanno mai avuto paura di perdere tutto.

Cosa ci resta da fare?

Siamo troppo vecchi per partire, troppo giovani per rassegnarci.

Non ci resta che parlare, capire, informarci, discutere, alzarci da questi cazzo di divani Ikea che ci succhiano le energie, allontanarci dai Reality, trovare una piazza in cui incontrarci tutti, liberare la rabbia, davvero, liberare l’indignazione, smettere di sperare che la pensione dei nostri genitori ci pari il culo, smettere di diventare come loro per non morire, alzare la voce, alzare le braccia, farei cortei, ma per i motivi giusti, non per le scie chimiche, per i parcheggi in centro, per dare fuoco ai campi rom, ma per riprenderci quello che ci hanno tolto senza che nemmeno ce ne accorgessimo, lottare per le cose che abbiamo studiato, capito, condiviso, fare la rivoluzione vera, quella che non siamo mai stati capaci di fare dopo il Risorgimento, smettere di fare la guerra dell’ironia su Twitter, che non cambierà niente, un cazzo di niente, andare a menare le mani, se serve, smettere di sentirci dei falliti perché abbiamo deciso di amare questo paese di merda e di restare qui a salvarlo.

Nessuno ha più voglia di restare. Ma noi siamo qui.

Il punto di non ritorno

Il punto di non ritorno è quando il viaggio diventa interiore.
Parti, ti decontestualizzi e vedi le cose da una prospettiva diversa, con colori che non ti erano sembrati mai di quella tonalità, con i suoni che ti sorprendono alle spalle e ti fanno sentire teso come un animale selvatico. Pronto all’attacco. Pronto.
I viaggi più incredibili sono quelli che ti succedono dentro, quando sei a casa e non la riconosci, quando le persone che ti stanno intorno tornano a essere mondi nuovi e ti sembra che tutto possa, debba, iniziare da zero.

Ricordo il primo lungo viaggio che ho fatto da sola con mio fratello. Avevamo vent’anni, un padre appena seppellito, il bisogno di sentirci vivi e la fame di scoperta. Mi è sembrato eterno ed è durato soltanto due settimane e poi mesi e mesi dopo, dentro, trasformandomi in qualcosa di diverso.

Non importa dove vai, ma come ci vai. E come torni, quando torni e se mai torni.

Sono rientrata piena di entusiasmo e di appunti. Mi sono detta adesso scrivo e scrivo e allora acquisterà un senso tutto quest’anno passato a dire che bisogna fare delle proprie passioni un mestiere, sarà servito a qualcosa rinunciare al terzo libro previsto a Natale di una trilogia che non finirà, per raccontare le storie che mi vivono dentro da un po’.
Mi sono detta torno a commentare la politica e l’attualità, riprendo il mio blog sull’Unità, sarò più presente su twitter, mi infilerò in tutti questi spazietti lasciati liberi dai veri intellettuali per dire la mia, mi risveglierò dal torpore accidioso e terrò duro fino a quando non mi arriveranno un po’ di soldi e potrò tirare il fiato.
Ho dormito per due giorni e ho sentito i muscoli rilassati e ho fatto una scorpacciata di sogni confusi.
Mi sono seduta al tavolo bianco della sala milanese, quella con le finestre grandi che guardano in due direzioni e che a volte ammiccano, col sole forte, e ti danno l’idea di affacciarsi sul mare.
Nulla.
Non è successo nulla.
Ho risposto alle email, fatto un paio di lavoretti piccoli piccoli, ho guardato tanti telefilm, ho sfogliato i giornali online, ho letto le notizie e ho pensato bisognerebbe indignarsi, scrivere, dire, fare qualcosa, fare davvero qualcosa. E poi non ho fatto nulla.
Sono uscita a passeggiare e mi sembrava tutto nuovo. Il caldo imprevisto di ottobre, il cielo grigio senza speranza, le mani degli amici, i banconi dei bar.
Un pomeriggio sono uscita per fare qualcosa che nemmeno ricordo e non l’ho fatta. Mi sono infilata in una libreria e mi ci sono persa e alla fine non so quanto tempo sia passato e tutte quelle quarte di copertina erano pianeti e dovevo scegliere dove atterrare per fare rifornimento.
Leggo. In silenzio. E poi interrompo le persone quando parlano e dico le cose che mi passano per la testa.
Questo è un viaggio nei miei limiti, nei ricordi, a volte felici e molto spesso dolorosi. È il parto di un cambiamento, la nascita di qualcosa che non poteva più non venire fuori.

Va tutto bene, l’amore, gli amici, il nipotino che cresce, la salute, l’autunno leggero, i miei libri sugli scaffali. Eppure non ho voglia di ritornare in me, forse perché sono troppo pigra o forse perché, se questa volta dovessi fallire, non potrei perdonarmelo.

A volte vado a correre, senza averne voglia. La cosa più difficile sono i primi passi. Non mollare. E poi altri ancora. E il corpo che continua e il cervello che ti chiede perché lo fai? perché insisti? Non vuoi essere qui, vuoi restare sul tuo divano, immobile, a immaginare corse infinite che non inizierai mai. E supero il primo chilometro e mi dico fino a qui tutto bene e mi dimentico quello che stavo pensando un attimo prima e i polmoni si riempiono e la fronte suda e vado avanti, perché non c’è altro da fare.
Andare. Avanti.

Ulisse ci ha messo dieci anni per ritornare a casa e il viaggio era la vita stessa, l’avventura. Io rientro con lentezza e qualcosa intorno a me sarà sicuramente cambiata. L’energia, l’entusiasmo, le distanze tra me e gli altri, i bisogni, la storia nuova che avrei dovuto buttare giù due mesi fa e che ancora sto pensando, i silenzi confortanti di cui mi nutro per giorni interi, le giornate che diventano corte, ed è subito sera.

La generazione dello speriamo

“Siamo la generazione dello speriamo”, ci siamo dette un paio di sere fa io e la mia coinquilina, mentre consumavamo una delle nostre cene improvvisate davanti al solito telegiornale apocalittico.

Le nostre non sono speranze allegre e motivanti, così normali da giovani e così appaganti da vecchi. Il nostro speriamo nasconde fatica, frustrazioni, terrore per il futuro e un enorme dispendio di energie.

L’Italia non è mai stato un Paese meritocratico e non ne ha mai fatto mistero. Importa molto poco il talento. Quello che ha davvero valore è il cognome. Eppure siamo riusciti ad andare avanti senza estinguerci (forse nostro malgrado) e a costruire qualcosa che sembra progresso e, molto raramente, sembra anche democrazia.

Per quelli come noi, nati alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80, c’è stata anche la sfiga generazionale. Siamo entrati nel mercato del lavoro quando stava cambiando, sgretolando certezze e condannandoci a effimeri spiragli di normalità professionale che la storia ha bollato come precariato.

È vero, e lo sosterrò fino alla morte (che mi travolgerà precoce per l’ansia da mutuo), che la rivendicazione di un diritto al lavoro non deve essere alibi per mascherare incompetenza, inadeguatezza e pigrizia. Non tutti siamo bravi, non tutti siamo all’altezza, non tutti ci facciamo davvero il mazzo e meritiamo di poter progettare un futuro. La crisi aumenta la competitività e dovrebbe fare emergere talenti.

Dovrebbe.

Purtroppo non ci riesce sempre, perché qualsiasi talenti e idee hanno bisogno di un fazzoletto di terra per essere piantati, curati e lasciati crescere. Un piccolo capitale da investire, un mecenate, un’occasione, un contatto, un’università prestigiosa pagata dai genitori, la casa di tua zia presa in affitto per due lire. Esistono persone che si sono fatte da sole, ma la maggior parte ha iniziato a navigare nel grande mare delle professioni aggrappata a un piccolo salvagente che aveva in dotazione.

E comunque non siamo giustificati, quando ci lamentiamo senza dare il massimo, quando ci rassegniamo e smettiamo di cercare, quando pur di rimanere nello stesso quartiere in cui siamo nati, rinunciamo a possibilità di lavoro più lontane.

Nella giungla, se ti fermi troppo tempo sotto a un albero ad aspettare che la frutta ti cada in mano, rischi di essere sbranato dai ghepardi o, se ti va di lusso, che le scimmie ti usino come toilette.

Chi si ferma è perduto, ragazzi! Celacrisi, celacrisi, celacrisi!

Detto questo, però, non raccontiamoci balle. Anche quando diamo il meglio e siamo bravi e non molliamo e rischiamo e abbiamo coraggio e non tentenniamo, finiamo a guardare il calendario sul nostro computer, a contare i giorni che ci separano alla fine del mese e a dire speriamo.

Nell’ultimo periodo, mi sono ritrovata a sopravvivere facendo solo cose che mi piacciono. Dopo anni e anni di frustranti lavori svolti, anche con entusiasmo, solo in funzione dello stipendio, inizio a occupare il mio tempo facendo cose molto vicine a quelle che avrei voluto fare da grande.

Va bene, certo, non mi ci mantengo ancora, ma spero di farlo molto presto (e lo spera anche la mia commercialista, che passa il tempo a tirarmi le orecchie per la mia incapacità non di essere libera, ma di essere professionista).

Quando mi dicono eh, però hai avuto fortuna, avrei voglia di saccheggiare tribù e radere al suolo villaggi. La fortuna è quella di Gastone Paperone, che si china ad allacciare la ghetta e trova un portafogli colmo di dollari. La fortuna è quella della ragazza della porta accanto che accompagna l’amica a un casting e viene scelta come testimonial planetaria di una campagna pubblicitaria fichissima (NdR storia che, tra l’altro, fa parte della mitologia di quasi tutte le top model, pensaunpo’).

La fortuna è quando a prescindere da merito, impegno, fatica, dolori, lacrime, porte in faccia, le faremo sapere, ti viene dato qualcosa.

In pochissimi hanno davvero fortuna e, tra questi pochissimi, non ci siamo né io né te.

Siamo una generazione fondata sullo speriamo. In questi giorni speriamo addirittura che ci diano un governo che finalmente possa indicarci come continuare a morire ammazzati. Speriamo e stiamo invecchiando. Facciamo progetti sperando, conviviamo sperando, figliamo sperando.

La sola consolazione è che abbiamo imparato la leggerezza e che, mai come ora, l’ironia sembra essere epidemica.

Dicono che toccato il fondo, si inizi a risalire.

Speriamo.

Speriamo.

Chi vive sperando, muore cagando! Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941.

E non c’è nulla di male

Questa volta sono dall’altro lato del mondo.

Se c’è una cosa che amo più dell’esercizio dei miei diritti democratici è la mia famiglia.

Non stavamo tutti insieme dal 2008. Quasi sei anni. Sei anni in cui skype e aerei ed email e pacchi postali sono stati il legame fondamentale.

Il 20 febbraio è nato Diego. In Brasile. Da mamma boliviana e padre italiano. Nei pochissimi giorni della sua nuova vita, ha vissuto in una chiassosa e ansiosa babele. Lo spagnolo della madre e della nonna materna, il nostro italiano, il brasiliano degli amici e dei vicini.

Ogni volta che siamo qui, in questo paese bellissimo e pieno di contraddizioni, ci chiediamo sempre la stessa cosa: chi ha avuto ragione? Hanno fatto bene loro a partire o noi a restare? Sono più coraggiosi loro o noi? La nostra è dedizione o incoscienza?

Ogni volta progettiamo anche noi una fuga. Qui si cresce, si fanno figli, si comprano case senza essere strangolati dai debiti, nei fine settimana si mangia pesce sulla spiaggia.
Da noi no. Da noi si sopravvive, ci si guarda alle spalle sospirando e davanti con terrore, si fanno debiti, si chiedono prestiti a genitori sempre più stanchi, si progetta un mese alla volta.

Ogni volta, trasportata dall’entusiasmo e dallo sdegno, ho pensato a quali ritorni mi avessero provocato più rimorso. Tutte le volte che ho vissuto all’estero, poi sono tornata. A volte con sollievo, spesso con nostalgia.

La mia generazione ha avuto come unica alternativa la fuga. Sempre meno una scelta, sempre più una necessità. Abbiamo studiato insieme, nelle aule vecchie dei nostri atenei dal passato glorioso, abbiamo provato e poi ce ne siamo andati. Continuando a occuparci di quello che succede, informandoci, sperando di poter tornare e intanto costruendo equilibri sempre più negati a casa nostra.

Ieri, a cena nel patio, provando a godere del vento fresco della sera, durante una discussione sul futuro politico del Paese, noi qui, la gente a casa in cui riporre fiducia, ho realizzato per la prima volta il perché dei miei continui ritorni.
Sopra ogni cosa, al di là di ogni difficoltà, più di tutto il resto del mondo, io amo l’Italia. Non solo perché io sia in grado solo di scribacchiare e di parlare parlare parlare e non potrei farlo altrove. Anche perché c’è qualcosa di coraggioso, temerario e folle nel provare a cambiare le cose, quando tutto sembra ormai disperato.

Il vero coraggio non è partire, ma restare.

Come quegli eroi dei film che si sacrificano per mettere in salvo tutti gli altri e restano sulla barca che affonda o sull’astronave che esplode, dopo aver aiutato anche l’ultimo essere vivente a fuggire.

Siamo quelli che restano mentre Tara brucia, quelli che annegano per salvare donne e bambini sul Titanic, i 300 spartani che si immolano per una causa più grande di loro.

Siamo quelli che rischiano di più e che soffrono e che si fanno un mazzo così grande che nemmeno il Colosseo potrebbe contenerlo.

Siamo, forse, i folli che non ce la faranno mai. Ma quante cose fuori di testa si fanno per amore.

Anche questa volta tornerò, ma senza pentirmene. Non c’è posto migliore in cui vivere di quello che consideri casa. Anche se è la peggiore, la più sgarrupata, la più marcia e corrotta delle case.

Qualcuno dovrà pur restare per mettere tutto in ordine. E per lamentarsi. E per indignarsi e poi indignarsi ancora. E per resistere.

Resistere.

Resistere.

Perché solo gli amori folli sanno essere così ottusi, suicidi e disperati.

E non c’è nulla di male ad amarla, davvero, la nostra piccola Italia.

Non perdo mai il vizio di tornare

Nel bilancio di questo pezzo di vita, scopro parità di rimpianti e rimorsi. E sono dolorosi entrambi e difficili da mettere da parte, rannicchiati e nascosti tra i ricordi, sempre pronti a saltarti alla gola.

Ho l’età della consapevolezza, delle prime rughe leggere e invisibili ai lati degli occhi, del riscoperto e incredibile amore per il silenzio e il riposo, della tolleranza per i difetti di chi amo e l’odio brutale verso le piccolezze di chi non amo più.

Viaggio molto, alla scoperta del passato lasciato in sospeso e del futuro ancora da iniziare.

Vorrei portarti con me. E tu sei fermo alla tua scrivania, con i tuoi disegni e le tue storie e le parole e l’inchiostro e le matite.

Stasera prendo un volo per l’altro lato del mondo. Vado a circondarmi di famiglia. La mia famiglia autentica, quella che non ho scelto, ma che mi è stata data in dono.

Vado al sole e al caldo, con la valigia piena di regali e di costumi.

Questa volta torno. Come sempre. Non perdo mai il vizio di tornare.

Non si sta così male qui. Il caffè e il vino sono buoni e anche noi, in fondo, non siamo così male.

Ora e sempre Resistenza!

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

(Lapide ad ignominia – Pietro Calamandrei)

Per ricordare quelli che scelsero di stare dalla parte giusta, di diventare, senza volerlo, eroi e di regalare a me e a voi questa tanto bistrattata libertà.

Vi segnalo il lavoro di questi giovani resistenti della Brigata Barabba, che da un paio di anni raccolgono racconti sui partigiani e li leggono in giro per l’Italia. Oggi esce il loro libro chiamato Schegge di Liberazione, che contiene alcuni dei brani prodotti dai nuovi volontari della memoria nei mesi passati. Hanno fatto anche un’ebook. È bello, leggetelo!

E resistete, sempre!

Ma per fortuna o purtroppo lo sono

All’età di circa dieci anni, in una di quelle estati nelle quali i miei fratelli e io venivamo spediti in Olanda da mio padre, ho letto il libro Cuore. E ho pianto.

In una tournée teatrale a Utrecht, con i miei compagni di teatro, tutti appena maggiorenni, abbiamo improvvisato un concerto al ristorante cantando e suonando Paolo Conte, commuovendoci con Azzurro.

Nei miei anni parigini, il proprietario del ristorante in cui facevo la giovane camerierina mi chiedeva sempre “un vrai espresso italiano, s’il te plaît!”.

Al Cairo, ho passato una notte al Fishawi, con un giornalista svedese e un attivista egiziano, fumando shisha e parlando degli anni di piombo.

Una suora, ad Aleppo, mi ha chiesto se avevo mai incontrato di persona il Papa.

A San Pietroburgo, in una komunalka di amici, ho cucinato pasta per tutti in un bollitore per il tè.

Al matrimonio di mio fratello, in Bolivia, ci hanno chiesto di ballare la tarantella.

In un locale gay di Buenos Aires ho cantato una canzone di Laura Pausini perché volevano sentire le parole in italiano (sì, conosco a memoria La solitudine e non riesco a rimuoverla dalla testa).

Sono scappata molte volte e sono sempre ritornata.

Sono una cittadina del mondo e non so fare altro che essere italiana.

Mi vergogno quando disprezzo il mio paese e mi vergogno quando amo il mio paese. Questo è essere italiani.

Però la festa di oggi mi piace, mi piace pensare al risorgimento, mi piace sentirmi una carbonara, mi piace pensare che, nonostante i leghisti, i mafiosi, i qualunquisti, i fascisti, i berlusconiani e gli interisti, siamo un paese unito, di brava gente.

E poi, Gaber l’ha già detto molto meglio di me.