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Il treno dei desideri, nei miei pensieri all’incontrario va

Pensa se, una mattina, tu fossi seduto nelle tue faccende affaccendato e ti scappasse un boiamondo per un disagio, un servizio che non va, un piove governo ladro, un morite male tutti e l’eminenza grigia che c’è dietro il tuo male di vivere ti dicesse “vieni, che ne parliamo a quattr’occhi”.

Ecco, a me è successa quella cosa lì.

Ho scritto uno dei miei soliti twit al vetriolo contro Trenitalia (al numero uno nella mia classifica dell’odio, seguita a ruota da Fastweb) e la Direzione Media dell’azienda, soli 5 minuti dopo, mi scrive per invitarmi a #MeetFS.

#MeetFS è un incontro a cui vengono invitati simpatici ragazzotti e seri professionisti, che vengono definiti influencer della rete, per conoscere meglio il gruppo delle Ferrovie e parlare direttamente con l’AD di Trenitalia. Insieme agli influencer, gente che prende seriamente il proprio ruolo di opinion leader del web, c’ero io, stanca morta per la levataccia e incazzata nera con chiunque lavorasse per il lato oscuro della Forza.

Proverò a essere breve, soprattutto per non dire castronate, non essendo una giornalista e ragionando più di pancia che di cervello, ma ho voglia di condividere con voi impressioni, osservazioni, pregi, difetti e mortacci loro.

Prima osservazione che è riuscita a fare la mia testolina pigra: i dipendenti di Trenitalia che ho incontrato sono tutti entusiasti dell’azienda e del suo manager. Tu sei lì che daresti fuoco a un sedile, per manifestare il tuo disagio di pendolare decennale, e loro ti rispondono che l’azienda sta cambiando, che Moretti spacca il culo ai passeri, che il medioevo aziendale si sta superando, che domani andrà tutto meglio.

Ci fanno salire su un Frecciarossa pulitissimo, ci fanno indossare giubbotto catarifrangente e caschetto di sicurezza e ci portano nel deposito della Martesana, in cui fanno la manutenzione dei “meglio treni” della flotta. E tutti fanno domande, quanto pesa un treno, quanto trasporta e io che avevo i miei pregiudizi (di cui vado fiera) di tutto il discorso del bravissimo ingegnere ho colto solo la parte in cui diceva “dobbiamo garantire la qualità, soprattutto adesso che sui nostri treni viaggiano regolarmente squadre di calcio e VIP”. Che lui l’avrà detto in buona fede, con lo stesso entusiasmo con cui poi ha parlato dei clienti normali, ma io ero lì col travaso di bile e il porcogiuda a fior di pelle.

Allora io twittavo cattivissima e mi hanno detto “le battute sarcastiche non servono a nulla se non sai come funziona l’azienda”, come dire che tu cliente che paghi il prodotto non puoi lamentarti se non conosci tutto il processo produttivo. Ma se io compro uno shampoo e questo mi brucia il cranio, sono libera di scrivere che fa schifo, perché, dunque, se compro un biglietto e il mio treno è un carro bestiame di 30 anni fa non posso dire Trenitalia fa pena?

Il nocciolo era tutto qui e io avevo davvero voglia di capire. Ho addirittura rinunciato alla palestra per passare la giornata con Trenitalia e non è cosa da poco.

Dopo i Frecciarossa, ci portano a vedere i trenini regionali e lì ho capito la prima cosa che non sapevo: il trasporto locale è interamente controllato dalle Regioni. La Regione paga i treni, decide quali corse fare e quale sopprimere, decide gli orari e addirittura il numero di carrozze per convoglio. Allora, quando tu a Trenitalia chiedi come mai i treni pendolari fanno pena, lei ti risponde che dipende dal Governo Ladro degli Enti Locali. E tu gli chiedi: ma scarichi il barile? E lei ti risponde: fosse per me, rinuncerei al servizio, perché non fa profitto, ma sono costretta a tenerlo. Abbiamo fatto gare per cederlo, ma nessuno lo vuole. Non frutta, non fa utili. Solo un pazzo lo gestirebbe, inoltre le Regioni sono in debito con Trenitalia e tagliano i servizi (Lombardia esclusa).

In sintesi (pecoreccia, ma non sono un cronista e riporto ciò che capisco), Trenitalia gestisce i servizi di trasporto per conto di Ferrovie dello stato. Il servizio Frecciarossa funziona, è in attivo, fa bella figura e paga. I servivi locali fanno pena, ma sono a carico delle Regioni (il prezzo del biglietto copre circa il 30% del costo, il resto è a carico dell’ente). Quindi? Quindi le persone di Trenitalia con cui ho parlato ti dicono: l’ambizione è riuscire a scorporare il servizio e cederlo a terzi, così Trenitalia resterebbe in attivo e la patata bollente passerebbe al nuovo gestore. Chi gestirebbe la rete? Un folle! Le gare sono fatte regolarmente, ma chi si assume l’onere di sanare il disastro? Nessuno. Quindi tutto resta fermo, con Trenitalia che dipende dalle Regioni che dipendono dalla Stato che controlla Trenitalia. E con i pendolari che prendono la lebbra. Benvenuti in Italia!

Che, poi, non è tutto disastroso. Il nostro sistema diagnostico è il migliore in Europa ed è venduto in tutto il mondo. La tecnologia presente sui treni come “Diamante” è all’avanguardissima. Ed è prodotta a Bari.

E lì dici: dai, non è tutto un magnamagna, c’è anche l’italiano brava gente, qualcosa si può fare, in qualcosa siamo bravi. Ma questo non basta a giustificare anni pigiata in un regionale sporco, senza cessi, senza aria condizionata, con i sedili che grondano catrame e le porte che si aprono e chiudono quando decidono loro.

Ti dicono: se su cento treni che partono, uno è soppresso, la gente parlerà male del treno soppresso e non dei 99 partiti. Vi spiego una cosa: la gente non parla dei treni puliti e in orario perché dà per scontato che i treni siano puliti e in orario. La gente che paga, eh, sia chiaro, ché ieri mi hanno detto che il 10% di voi non paga il biglietto, brutti portoghesi del cavolo!

Insomma, ci fanno vedere cose, ci fanno parlare con ingegneri, macchinisti, capistazione, social media strategist. Una giornata interessante. Ho capito cose che non sapevo, ho visto cose che voi umani…, ho parlato con persone cordiali.

Però io volevo solo dire a Moretti “la tua azienda fa schifo” e non aspettavo altro che l’incontro con l’AD.

Poi arriva lui, cordiale, sorridente, ironico, carismatico. E dice “fatemi domande” e io prendo la parola per prima e mi presento. “Sono una cliente insoddisfatta” dico “lei si rende conto che la sua azienda è la più odiata del Paese?”.

E lui mi risponde “ci odiano solo i pendolari” e poi mi spiega, ancora, che sono le Regioni a decidere per il trasporto locale. Lui chiede allo Stato, che è suo padrone e cliente, soldi. Lo Stato non glieli dà, lui non può coprire il servizio.

Storia chiusa.

Quindi, il fesso sei tu che non sai come funziona. Allora perché non lo spiegate alla gente? Con chi me la devo prendere se il mio treno ha le cimici?

E lì, Moretti segna un punto. Mi dice che dialoga quotidianamente con associazioni di consumatori e comitati pendolari accreditati.

Touchée Monsieur Moretti! Lo so, sono pigra. Mea culpa! Ho fatto per anni la pendolare e non ho mai usato gli strumenti di protesta formale. Non lo fanno in molti. Perché siamo abituati a non credere nel dialogo tra istituzioni e associazioni, perché meglio lo sfogo che la protesta costruttiva. Sono incazzata, però non creo massa critica.

La massa critica non la crei con l’hashtag. Lo so, lo so, ci credevate quanto me. Ma il comune insulto via twitter serve solo a riempire le colonnine destre di Repubblica.it, non apre un dialogo con l’azienda, né con le Regioni.

L’ho capito. Resta il fatto che io sono una cliente e che il servizio non è all’altezza di un paese civile. Però, se non ho gli strumenti e le conoscenze per controbattere le spiegazioni dell’AD, non posso fare altro che lamentarmi. Siamo d’accordo.

Che, poi, sono l’unica che è andata lì a dire i treni fanno schifo. L’influencer medio arriva preparato su quello che è il suo settore. Chiede il wi-fi nelle stazioni, chiede gli open data per creare app, chiede la pagina di Facebook. E, secondo me, perde una grande occasione perché si focalizza sulla bontà o meno dell’incontro e non sulla qualità del prodotto. Mezz’ora a discutere se Trenitalia avesse fatto bene a invitare o meno i blogger, se ci sarebbe stato un ritorno di immagine, se quelli che protestano contro #MeetFs siano invidiosi o meno.

Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Non ero abbastanza preparata per incalzare il boss e non ero abbastanza influencer per fare domande sulla strategia social di Trenitalia.

Allora, non ho potuto fare altro che domandare l’unica cosa che ho veramente a cuore: “cosa si può fare per migliorare la situazione?”. E lì ho ricevuto la risposta che temevo. Ve la riporto nuda e cruda, così che mal comune mezzo gaudio. O almeno sembrerebbe.

Per migliorare il servizio pendolare servono soldi. I soldi non ci sono, il servizio non migliorerà. Anzi, peggiorerà. Mettetevela via. Compratevi un’auto, andate a vivere vicino all’ufficio.

Che sia colpa delle Regioni, dello Stato, di Trenitalia, questo è il dato di fatto. I Frecciarossa saranno sempre più belli, i treni locali sempre più scomodi. Potrai segnalare i disagi in tempo reale all’account twitter dell’azienda, ma probabilmente i disagi non smetteranno di esserci.

Questo è quanto è accaduto. O meglio, questa è la mia versione dei fatti. Sono partita disprezzando Trenitalia e torno apprezzando alcune cose, ma continuando a disprezzare l’azienda e anche gli Enti Locali.

Non so se sono utili queste iniziative o meno. Certo è che apprezzo moltissimo il tempo che Moretti ci ha concesso. Forse è stata una grande occasione sprecata, forse solo l’inizio di un dialogo azienda-utente molto più proficuo.

Non saprei dirlo. Mi scuso per non aver rappresentato nessuno ieri, se non me stessa, con la mia rabbia e i miei dubbi. Mi scuso se questo reportage non è chiaro o è pieno di imprecisioni. E mi scuso anche per la prolissità.

Domani provo a insultare le Poste per vedere se mi invitano anche loro a parlare con i vertici dell’azienda. Vi tengo aggiornati.

 

Che poi non è

Ogni tanto qualcuno mi dice sei cambiata, non sei più quella mangiauomini senza cuore, non sei cinica, sei forse meno brillante, meno strafottente, meno carismatica. Allora io penso che si possa cambiare sempre, anche superata l’adolescenza, che possiamo essere altri da noi in ogni momento, quando prendiamo martellate sui denti e sul cuore, quando siamo stanchi, quando la vita ci cambia attorno, quando vogliamo conoscere sapori nuovi, quando non ce la facciamo più, quando gli altri ci abbandonano.

Ieri ho preso un treno che non arrivava da nessuna parte e mi sono messa a leggere quel libro tanto bello che non riesco a finire. Fuori dal finestrino era tutto così brutto che avevi voglia di osservare il panorama dentro. A volte penso a quando prendevamo insieme il treno e poi a tutti i treni della mia vita, quelli per scappare e quelli per tornare. C’è un sacco di vita in attesa sui treni.

E lo so che non sono più la stessa, non importa. Chi non si trasforma spesso muore. E chi resta sempre uguale mi spaventa, chi non ha le budella che si mescolano e creano nuovi dentro.

Stamattina non piove più, ma siamo stati presi in giro. Avevamo scambiato per primavera una cosa che non lo è. Come quando incontri un paio di occhi e ti sembrano quella cosa là. Che poi non è. E ci rimani anche un po’ male. Ma poi ti infili un golfino e aspetti. Non può piovere per sempre. Perché altrimenti vaffanculo.

Nuovamente pendolare

Vorrei che i responsabili della gestione delle Ferrovie dello Stato fossero colti da un malore, fulmineo e insopportabile, la mattina appena svegli; che l’ambulanza arrivasse in ritardo, già strapiena e sporca; che fossero caricati in piedi, aggrappati ai finestrini e viaggiassero, in direzione dell’ospedale, a passo d’uomo, nonostante la strada libera. Vorrei che l’ambulanza si fermasse a 500 metri dall’ospedale, inspiegabilmente, per lunghi quarti d’ora, e che fossero costretti a rimanere a bordo fino all’apertura delle porte, esattamente davanti al portone d’ingresso. Vorrei che fossero caricati su un barella rivestita di tessuto impregnato di unto decennale; che fossero messi in fila, dietro decine di barelle, in un corridoio puzzolente con luci al neon e polvere; che, quasi vicini alla porta del medico, un inserviente chiedesse loro di pagare un biglietto e di tornare indietro, a piedi, all’ingresso, per farsi apporre un timbro e poi rifare tutta la fila. Vorrei che giunto, finalmente, il loro turno, sudati, con una temperatura tropicale e senza aria condizionata, perdessero la coincidenza col medico per soli tre minuti e che, accasciati ormai sul pavimento lurido, schivando sacchi e scatoloni, senza più speranza, un’infermiera dalla voce metallica sussurrasse placidamente loro: Ci scusiamo per il disagio.