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Se mio figlio potesse capire

Se mio figlio potesse capire, se riuscisse a comprendere, gli direi che quei bambini vestiti di rosso, quelli che avevano la sua età, che saranno stati lunghi poco più di ottanta centimetri, che forse non arrivavano a dieci, undici chili, gli direi che quei bambini erano in mare per un caso.
Perché per caso, figlio mio, tu sei nato qua e loro là, per caso tu hai il triciclo, i pupazzi, il seggiolone che si reclina e loro, sempre per caso, hanno la fame, hanno paura.
Tu non hai meriti, e non ne ho io, che ho potuto vivere, scegliere, viaggiare, lavorare all’estero e tornare, mostrare il mio passaporto a ogni frontiera e sentirmi dire sempre va bene, puoi passare. Non abbiamo meriti a stare in pace, a non avere bombe sulle testa, a non avere mortammazzati intorno, a non subire abusi, torture, vessazioni, violenza, a non avere freddo, a non avere fame. Non abbiamo nessun merito ad avere la nostra cittadinanza, non l’abbiamo vinta, non l’abbiamo guadagnata, non l’abbiamo conquistata. Siamo nati per caso in un posto in cui ci sentiamo uomini, più uomini di tutti gli altri uomini, e per caso, per sfortuna, per sorte loro sono là, dove l’umanità, a noi che la guardiamo con le nostre lenti da sole da qui, sembra più sfumata.

Gli direi che erano in mare per un sogno, quei bambini, non un sogno loro, troppo piccoli, troppo fragili, ma un sogno dei loro genitori che chissà quanto li avranno amati, quanto io amo te che certi giorni sembra quasi intollerabile, faticoso, tutto questo amore, tutta questa necessità che tu stia bene, sempre bene, e non sappiamo, non lo sapremo mai, quanto dolore e disperazione e quanta speranza hanno portato quelle madri a salire su un gommone troppo piccolo, troppo stretto e malmesso per tutta quella gente, a tenerli stretti in petto, con i giubbotti di salvataggio, a pregare che arrivi qualcuno, qualcuno a salvarci, ma qualcuno non arriva perché non c’era abbastanza carburante e gli hanno impedito i rifornimenti a Malta e magari sarebbero arrivati in tempo se quell’umanità, magari vista da più vicino, sarebbe sembrata proprio uguale alla nostra.

Gli direi di non sentirsi mai migliore, di non sentirsi più giusto, di non credere di meritare più diritti.
Quei bambini vestiti di rosso, perché il rosso si vede prima in mare, con le scarpe strette, con i corpi rigidi, quei bambini che hanno avuto paura, quanta paura, che avranno pensato perché mamma non mi salva, perché papà non fa niente, c’è tanto freddo, tanta acqua, quei bambini erano come lui.
Uguali a lui.
Ma mentre io spingevo e spingevo e lui nasceva in un ospedale del centro di Milano, in Italia, in Europa, loro stavano nascendo dall’altro lato del mare, in Egitto, in Marocco, in Siria, altrove, in un lato del mare in cui sei meno fortunato e non l’hai scelto.

Se potesse capire gli spiegherei che non abbiamo virtù, non abbiamo pregi, non siamo più degli altri, ma che abbiamo costruito muri, confini, divieti, abbiamo deciso che da una parte sì e dall’altra no, di qua bene e dall’altra parte non è un nostro problema.

Per fortuna non capisci figlio mio, non capisci ancora, che a crescere, a diventare uomini si perde umanità e un giorno il mare si porta via centinaia di persone, si porta via i bambini come te che volevano soltanto vivere e noi restiamo qui a non fare niente, non facciamo niente, restiamo a guardare a indignarci, a cambiare canale e quello che valiamo, come uomini, donne, madri, padri, figlie e figli, è meno di niente.

Breaking Bad ‘ngopp ‘o rione

Prima o poi doveva accadere. Crescere, lavorare, pagare l’affitto, le tasse, smettere coi tacchi e tornare alle scarpe basse, correre, cucinare, poi mettersi a dieta, scivolare quasi verso gli ‘anta. E a quest’età qui, avere una discussione con il proprio compagno su Breaking Bad.

La prima di un paio di premesse che dovrebbero far sembrare una conversazione del genere meno folle è che sono rimasta vittima, come molti, della dipendenza dalle serie TV. Ne guardo tante, tutte in lingua originale, così evito di pagare le lezioni private di inglese e imparo un sacco di parolacce. Mi hanno fatto compagnia quando ero annoiata dal mio lavoro da dipendente mal pagata, quando sono stata disoccupata, quando ero single, quando ho traslocato e non conoscevo nessuno, e mi hanno dato un sacco di buoni consigli quando ho iniziato a scrivere storie. Così, adesso, se mia madre chiama e chiede cosa stai facendo, io rispondo sto lavorando, sto studiando le tecniche di storytelling degli sceneggiatori ameriggani. È per lavoro.
E lei ci crede.
La seconda premessa è che anche lui scrive, ma da molto prima di me. E mentre io formavo il mio immaginario leggendo gli autori russi crudeli e guardando film francesi lentissimi o noiosi documentari su festival musicali nel deserto o sui ginecei indiani, lui conosceva a memoria tutte le storie dei supereroi che io – lo ammetto – ho incrociato molto tardi e quasi esclusivamente grazie ai filmoni marveliani di ultimissima generazione.

Lui ha sempre amato protagonisti dalle grandi doti, coraggiosi, nobili, abili, il cui ruolo era combattere i cattivi, criminali, mostri, per rendere il mondo (il nostro o qualche altro pianeta alieno) un posto migliore. Io mi sono a lungo sorbita storie senza redenzione, ho preso le parti di Raskol’nikov in Delitto e Castigo, ho capito che Kafka, Hrabal, Keret non ti danno soluzioni né conforto, ma ti dicono soltanto “così stanno le cose. Stringi i denti”, mi sono rassegnata all’idea che non esista una Giustizia, ma alcune forme di giusto o sbagliato che cambiano con il tempo, il luogo, il progresso.

Lui crede che Walter White, nell’ultima stagione, abbia perso le sue motivazioni. Sostiene che avesse già esaurito la sua carica di rivalsa verso le ingiustizie subite, che avesse già espiato i propri errori e che sia diventato un personaggio poco credibile, con la fine della quarta. Al contrario, io ritengo che solo quando il nostro amato Heisenberg abbandona ogni alibi morale e ammette di provare piacere nell’essere bad, solo in quel momento lui diventa un personaggio perfetto.

Per farla breve e terminare la discussione, prima di ordinare la seconda brioche fatta col lievito madre nel baretto da hipster sotto casa, ho sintetizzato i nostri punti di vista (sebbene lui non confermi – ad oggi – la mia versione, che pur essendo molto semplicistica, mi aiuta ad andare avanti in questo maledetto post in cui mi sono impelagata).
Il mio compagno parte dal presupposto che l’essere umano sia buono per natura. La vita, le esperienze, la società, la miseria, gli abusi lo trasformano e lo rendono peggiore, fino a quando non interviene qualcuno con una moralità ancora intatta che lo salva. Gli uomini possono quindi sempre essere redenti, perché nascono esseri positivi.
Io sostengo che l’uomo sia per natura crudele, egoista, avido, tendenzialmente violento e guerrafondaio. Ha però capito che un’organizzazione sociale basata sul rispetto delle regole, sui buoni rapporti, sull’assistenza reciproca funziona molto meglio che il caos e ha quindi deciso di evolversi. In sostanza, nasciamo cattivi, ma la vita, le esperienze, la società, la cultura ci rendono migliori. Con buona pace della mia educazione cattolica, del catechismo e dei soldi spesi per farmi studiare, ho capito questa verità quando ero molto molto piccola.

La perdita della mia innocenza è avvenuta un giorno di quasi trent’anni fa, durante un pranzo nella mia scuola materna, il fu Istituto Parificato Ruggero Bonghi di Napoli, ormai estinto. Tra i compagni di classe, c’era un bambino più grande di noi, che soffriva di un handicap fisico che gli impediva di camminare, muoversi correttamente e di parlare. Suppongo fosse stato inserito nella nostra classe perché all’epoca non esistevano strutture adatte per assisterlo e le scuole elementari napoletane del periodo non fossero proprio il massimo. Lo suppongo soltanto, senza offesa per nessuno, perché ero solo una bambina dell’asilo, chennepotevosape’?.
A lui piaceva stare con noi, in compagnia, sebbene a tutti noi fosse evidente che era diverso: era alto, più grande, portava degli occhiali con le lenti spessissime, si muoveva in modo strano, non riusciva a comunicare.
Durante i pasti, le maestre ci facevano sedere ai tavolini esagonali, tiravamo fuori dal cestino i nostri piatti, le cuoche ci servivano la pasta e si mangiava tutti insieme.
Il giorno che è arrivato il bambino grande, le maestre lo hanno fatto sedere accanto a me e io gli ho voluto istintivamente bene. Non lo so spiegare. Aveva quella fragilità e inconsapevolezza che, a una bambina timida e introversa come me, non facevano paura.
Mentre stavamo mangiando, alcuni bambini hanno iniziato a prenderlo in giro, a fargli dei versi, a dire il suo nome, a toccarlo e lui non si rendeva conto e rideva e sembrava felice. Poi uno di quelli si è alzato ed è venuto a sputargli nel piatto.
Così. Con naturalezza.
Si è alzato dal suo tavolo, è venuto da noi e gli ha sputato nel piatto.
E io che l’ho visto fare questa cosa brutale, avevo una rabbia e un’incredulità che non riuscivo a spiegare. Insostenibile al punto che ancora la ricordo. Spiazzante.
Perché? Perché hai fatto una cosa del genere?
Avevo – quanti? – cinque anni e ho provato un disprezzo davvero profondo per un altro essere umano. Chiaro, netto.
Subito dopo, un altro bambino ha fatto lo stesso, sempre di nascosto dalle maestre (o almeno è quello che voglio ricordare). Poi un terzo. E il bimbo grande rideva, pensava fosse un gioco. Fino a quando non so come, ho trovato la forza di urlare basta, di allontanarli e di lasciare il mio piatto a quel bimbo grosso che continuava a pensare fosse un gioco. Non so come ci sono riuscita. Forse avevo anche le lacrime agli occhi.
Quelle merde di bambini avevano la mia età. Pochi anni. Per tutta la vita mi sono chiesta se fosse stato un istinto o un insegnamento appreso da qualcuno. Perché nessuno poteva avergli insegnato che quando vedi un disabile che mangia devi sputargli nel piatto. E sì, venivano da quartieri difficili del centro di Napoli, (ma anche io), e sì, alcuni di loro avranno avuto delle situazioni familiari poco serene, (ma anche io), ma mi risulta molto difficile credere che non fosse qualcosa di innato in loro, che non dipendesse dal fatto che nasciamo cattivi e solo poi capiamo che essere cattivi è sbagliato.
Credo sia stata una delle più precoci e violente frustrazioni della mia vita, quella sensazione di non poter far altro che allontanarli, di sapere di non poter proteggere tutti i bimbi grossi dagli schifosi bambini malvagi.
È stato forse il primo momento in cui ho messo in dubbio la mia fiducia nel genere umano.

Cosa è successo, poi?
Che negli anni ho imparato un altro tipo di fiducia: quella nelle persone. Singole. Preziose. No razza umana, ma alcuni uomini. Adesso so per certo che il mondo non è un posto orribile, o meglio, non così orribile, perché ci sono anche persone che sanno renderlo bello. E tra queste, purtroppo, non ci sono io, perché sono pigra, vigliacca, perché da bambina potevo diventare un supereroe e lottare contro le ingiustizie, e invece non ci ho mai provato davvero.

Perché anch’io ho perso le mie motivazioni e sono entrata nella mia quinta stagione di Breaking Bad.

Sono ancora convinta che gli essere umani nascano perfidi. E poi guadagnano la loro fetta di paradiso solo vivendo. Come resto dell’idea che questa nuova epoca non abbia bisogno di supereroi, ma di antieroi.
Nessuno riuscirebbe più a identificarsi in Superman, perché lui è ed è sempre stato alieno. Mentre, quando ci raccontano storie di cattivi che sono anche un po’ buoni e di buoni che sono anche figli di puttana, allora possiamo sentirci pronti a fare grandi cose.

Questo volevo spiegare l’altro giorno a colazione al mio ragazzo, poi sono arrivati i caffè e abbiamo cambiato argomento. Volevo dirgli che Breaking Bad ha senso perché ci mette di fronte al nostro grande limite, non ci racconta che è la società a renderci cattivi, ma che siamo tutti cattivi, salvo scegliere di non esserlo. Almeno credo.

E non so se dopo queste deliranti parole potrà darmi ragione. L’unica cosa su cui siamo d’accordo è che i telefilm con gli zombie sono molto, molto meglio.

 

P.s. per la cronaca, ho googlato per la corretta grafia di Raskol’nikov.

Da grande

Da bambina, quando mi chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo sempre “la regina”.

Mi sembrava una professione onesta, un lavoro nobile, per il quale ero naturalmente portata.

Sarei stata una regina illuminata, avrei aiutato i poveri e le persone in difficoltà, avrei punito i cattivi, ma avrei anche cercato di farli ragionare per far capire loro che essere buoni sarebbe stato di sicuro più vantaggioso. Avrei dato tantissime feste, aperte a tutti, e buoni consigli. Avrei salvato tutti i cani randagi del mio regno e costruito parchi giochi per i bambini.

Volevo fare la regina perché pensavo che avrei evitato le guerre, che avrei parlato con gli altri re e governanti e avrei spiegato loro che era meglio lasciar perdere, chi vuole mettersi a combattere tutto il giorno, a sporcarsi i vestiti di sangue, a sparare, a recuperare brandelli di cadaveri, quando si poteva giocare insieme, mangiare la pizza, bere la fanta, piantare fiori, andare al mare?

Mi sembrava un’ambizione lecita, fare la regina, molto più intelligente di fare l’astronauta o la ballerina.

Poi, un giorno, mia madre sorrise, mentre spiegavo ai miei zii come sarebbe stato bello il mio regno, e mi disse che, salvo rarissimi casi, per diventare regina sarei dovuta nascere in una famiglia nobile. Regine si nasceva, quasi sempre, e la nostra famiglia non era affatto nobile (forse solo un po’, nell’inutile cognome) e certo avrei potuto fare tanti altri splendidi lavori da grande, ma la regina forse no, non era detto, ma probabilmente no.

Allora avevo iniziato a odiare la mia famiglia, la mia famiglia che non era nobile e che non mi permetteva di diventare regina e salvare il mondo dalle guerre con la fanta, la pizza e i giochi. Mi sembrava di aver sprecato una nascita, venendo al mondo così portata per regnare in una famiglia qualsiasi.

Pensavo che mi sarei dovuta inventare un altro futuro, dopo che avevo già detto a tutti i miei amichetti che sarei stata la loro regina. Mi pesava deluderli.

Poi, mentre il tempo e la vita passavano, iniziai a capire che questi che nascevano re erano persone peggiori di quanto mi fossi immaginata. Non era nemmeno colpa loro, era regnare che era sbagliato. Studiavo le monarchie sul sussidiario e capivo che io non volevo averci nulla a che fare con questa gente, brutta gente.

E un giorno, a casa, mentre facevo i compiti, chiesi a mia madre “mamma, noi siamo poveri o ricchi?” e lei mi rispose che eravamo gente normale, gente onesta che avrebbe lavorato tutta la vita per campare.

Allora capii, mi fu tutto chiaro: noi eravamo il popolo, gente che lavora e campa, quelli che stanno fuori dai cancelli dei castelli dei re, che vivono, mangiano, amano e muoiono senza corona. E mi piacque scoprire di essere il popolo, mi piacque scoprire di non essere destinata a diventare una brutta persona.

E fu allora che guardai mia madre e dissi, con la solennità di una bambina che aveva capito tutto, “mamma, ho deciso, io da grande voglio fare la rivoluzione!”.