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Mancarsi

È bello ogni tanto esserci meno.
Meno al telefono, meno agli eventi, meno nella vita degli altri, meno sui social. Circoscrivere la presenza, limitarsi, usare meno parole e meno energie. Centellinarsi per ridarsi valore, per lasciare il tempo di elaborare l’assenza, per far sentire la mancanza.
Dimenticare per un momento la schiavitù del ci sono.

Si riscoprono molte cose quando si rimane soli con se stessi. Il rumore delle proprio parole, per esempio, e non solo quello della propria voce, il piacere del proprio corpo e non solo un corpo usato per piacere, il silenzio come musica, il territorio sconfinato dei piccoli spazi che ci appartengono.

Quest’estate è caldissima e crudele e io ci sono meno. Mi fermo nelle lettere dei prossimi libri e faccio un passo indietro.
Sarà bello ritrovarsi, dopo esserci mancati.
Ne sono sicura.

Blogfest 2013. La mia gente

Negli anni ho imparato che il tempo di recupero dalla Blogfest è di tre giorni.

Durante il primo sbadigli, provi a riprenderti dalla sbronza e e cerchi di ricordare se hai fatto cose (più) imbarazzanti (del solito) e se quando sei andato via hai salutato tutti. Fai il censimento dei gadget (pochissimi, quest’anno) e aggiorni i social network con settemila status in cui comunichi che stai andando via.

Il secondo giorno è quello in cui ragioni su come è andata la manifestazione, su cosa hai trovato interessante e cosa meno. È il giorno in cui leggi tutti i post scritti e guardi le foto e ti rivedi e pensi “meno male che quest’anno ho tenuto sempre gli occhiali da sole. Almeno sembro carina”. Poi partecipi a qualche polemica sui premi, sui VIP che mammamia come se la tiravano, su quelli che però sembravano gentenormale, sui blogger che hanno avuto successo e quelli che no, su chi ha avuto la faccia tosta di ripresentarsi e su quelli che “ma davvero ci sono andata a letto?”. È la giornata in cui a Gianluca Neri fischiano così tanto le orecchie che ha l’impressione di essere stato abbandonato in un cantiere della Salerno-Reggio Calabria.

E il terzo giorno ci sono io qui, sul divano, a bere litri di caffè e a tirare le mie somme.

Sono una blogger anziana. Bloggo da 10 anni, dal lontano 2003, quando ancora c’erano i modem analogici a 56k e i post erano solo testuali e la maggior parte di noi era su Splinder (e quando mi ci sono iscritta io, non eravamo nemmeno 10mila). Sono stata una di quelle che ha visto crescere la rete, ha visto nascere le prime blogstar, ha partecipato ai primi raduni in cui si scopriva per la prima volta che faccia avessero i nickname con cui conversavi nei commenti dei post, molto prima che nascessero i social network.

Quelli della “mia generazione” non avevano modelli di business, non pensavano e nemmeno immaginavano che il blog potesse essere uno strumento per far soldi o un lavoro. All’epoca guardavamo con sospetto e disprezzo quelli che mettevano banner pubblicitari sui domini e che ti invitavano a fare clic. Noi eravamo puri, integerrimi, convinti di partecipare a un cambiamento più profondo. Pensavamo di riscrivere il concetto di comunicazione, di libertà d’espressione, di democrazia partecipata. Molto prima che un blogger già strapopolare per la TV creasse un partito politico.

I blog erano palestre di scrittura, laboratori di linguaggi, spazi di denuncia e posti in cui fare amicizia. Fino a quando Facebook non ci ha “costretti” a mettere nome, cognome e faccia, ci sentivamo supereroi nascosti dalla maschera dello pseudonimo e dalle nostre parole, convinti di appartenere a un mondo che non sarebbe mai diventato mainstream, tenendolo segreto, perché gli altri, quelli “fuori dalla rete”, non avrebbero capito. Chi della vecchia guardia non ha, almeno una volta, mentito su dove ha conosciuto un caro amico o un fidanzato? Era l’epoca in cui, se dicevi “ci siamo conosciuti su internet”, la reazione era di terrore e disgusto, come se avessi detto “ci siamo conosciuti in un parcheggio scambista di Pinerolo”.

Il web ci sembrava uno spazio nostro, in cui potevamo provare a cambiare le cose e a renderle migliori.

Poi sono arrivati tutti, anche mio zio, che posta ogni giorno foto e video col cellulare. E mi fa ricordare la prima volta che i miei parenti lessero un articolo di giornale (era il Resto del Carlino, ottobre 2003) su Malafemmena, scandalizzati da un blog che adesso sembrerebbe troppo casto anche per un bambino.

Il web è diventato di tutti. Non c’è più differenza tra on e off line. Era destino che finisse così, che quello che consideravamo un mondo a parte diventasse solo l’amplificazione dello spazio che ci circonda.

Ci siamo tutti, scriviamo, pubblichiamo foto, lavoriamo col web, produciamo contenuti, facciamo e ci facciamo pubblicità, commentiamo notizie, facciamo gli auguri di compleanno, diventiamo celebrità, facciamo i soldi. Ci conosciamo sul web e nessuno ci dice più “ma non hai paura a incontrare uno di internet?”.

La prima Blogfest (ma perché qualcuno si ostina a chiamarla IL blogfest?) a cui ho partecipato è stata quella del 2008. A Riva del Garda pioveva così tanto che Noè aveva mandato un email per dire col ca’ che vengo. Eravamo più timidi ed eccitati. Era la prima volta che ci ritrovavamo tutti insieme e ci guardavamo in faccia. Era stata un’edizione un po’ noiosa, si parlava quasi solo di giornalismo, perché all’epoca si pensava che i blog fossero solo wannabe giornali. Non avevamo capito ancora nulla.

Le edizioni successive sono state belle, pioggia a parte; sempre più sagra e più raduno. Ci andavamo per salutare amici che non vedevamo mai, per mangiare insieme, per ballare (anche se a Riva a mezzanotte la musica doveva tassativamente finire). Salvo rari camp che ancora attiravano l’attenzione, i panel erano deserti e le uniche attività a cui partecipavamo con entusiasmo erano i giochi a premi e gli apertitivi infiniti.

Era diventata – come amavamo definirla – la festa delle medie, bellissima, divertente e ormai troppo disimpegnata.

Quest’anno ci siamo trasferiti a Rimini. C’era molta più gente, più location, più eventi, più VIP, più feste, moooolti più sponsor, più contenuti.

La Blogfest è diventata un vero Festival per chi lavora in rete, più che una festa per chi vive in rete. Non ci sono più i barcamp, ma le conferenze.

L’ultimo baluardo di resistenza è il WriteCamp, organizzato da Mafe de Baggis e Filippo Pretolani, uno dei pochi incontri in cui non si discute (ancora) di business model e si parla di produzione di contenuti e non di vendita di contenuti. E il fatto che a me piaccia questo tipo di non-conferenza, la dice lunga sulla mia età digitale.

Questa è stata la Blogfest più bella degli ultimi anni. Non solo per le feste in spiaggia, per le piadine, per il caldo e il sole, perché c’erano con me gli amici più cari e perché abbiamo ballato fino alle 5 della mattina come se avessimo ancora vent’anni. È stata la più bella perché ha unito socializzazione a discussioni, perché gli eventi istituzionali sono stati meno molesti del solito, perché c’era molta più scelta di argomenti, perché era divisa per aree tematiche e perché nessuno mi ha detto che sono ingrassata (anche se, magari, l’ha pensato).

Come ho scritto qualche giorno fa su Twitter, ho avuto l’impressione di essere cresciuta, non da sola, ma con tutta la mia razza, con quelli con cui vivo da un decennio in rete e fuori dalla rete, quelli con cui chiacchiero ore e ore ogni settimana, quelli con cui ho fatto tantissima strada, la gente della rete, la mia famiglia.

Blogfest