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Il peso delle parole non dette

In questi mesi avrei voluto scrivere tante cose, essere l’ennesima voce che commenta e racconta, dire la mia su quello che accadeva (fuori e dentro), ironizzare sulla condizione in cui mi trovo, prendere parte, sentenziare, argomentare. Eppure, di fronte alla pagina bianca, mi sono sempre detta che non era ancora il momento giusto. Ho scritto troppo, negli ultimi anni, di cose personali o meno, per lavoro, per scelta, per soldi, per disperazione, non sempre per necessità, ma molto spesso per obbligo.

Mi sono sentita, negli ultimi mesi, come se dovessi reintegrare i liquidi dopo un’enorme sudata di parole. Avevo bisogno di ricaricarmi, nonostante il riposo mi facesse sentire in colpa (chi di voi corre, lo capisce. Quando non puoi farlo per far riprendere i muscoli, vivi quella strana sensazione di stare facendo un torto a te stesso, anche se, invece, ti stai volendo bene).

Ho pensato moltissimo e letto e parlato e cantato tanto, però. Ho fatto progetti. Ho carezzato la pancia e i gatti. Mi sono guardata da fuori e sono riuscita a intuire i miei confini, gli spazi di manovra, le possibilità di crescita e quello che invece non potrà funzionare, perché è troppo tardi o perché non è mai stato il momento giusto.

Stamattina mi è tornata l’urgenza di tracciare righe, vuoi perché il libro nuovo dovrà essere a un buon punto quando diventerò mamma (e il mio tempo sarà monopolizzato da cacca, nanna, poppate, sorrisini e amore incommensurabile), o perché le dita sono finalmente pronte a percorrere nuovi chilometri.

Mi ha fatto bene non dire per un po’, rende tutto più necessario e ragionato. Ho capito che devo farlo più spesso, un passo indietro dalla valanga di opinioni.

Auguro anche a tutti voi di avere il vostro lungo periodo di silenzio in cui ritornare a essere in forma, mentalmente, spiritualmente.

Non abbiate sempre fretta di esprimervi, risucchiati in una interrotta, travolgente e angosciante conversazione: a volte sono le parole non dette a pesare di più.

E considerati i chili che ho preso negli ultimi sei mesi, non mi sembra nemmeno poi tanto una metafora.

Il blocco dello scrittore e la fatica dei ricordi

Ogni scrittore ha le sue tecniche per la redazione di un testo e la sua disciplina (o presunta tale).
Alcuni riescono a creare pagine ogni giorno, altri hanno bisogno di un periodo di distacco dal foglio bianco (che è quasi sempre, per tutti, uno schermo bianco), altri ancora – i più invidiati da chi fa questo mestiere – sono organizzati come dei veri ragionieri della letteratura, con scalette, scadenze, numeri di pagina per capitolo e tot parole per paragrafo.

Prima di iniziare un nuovo libro, io devo vedere e vivere tutta la storia nella mia testa, dall’inizio alla fine, perché scrivo sempre come se rielaborassi un ricordo. 
Come se i personaggi li avessi visti e conosciuti e, solo poi, mi fossi decisa a raccontarli, come si racconta un aneddoto durante una cena tra amici.
Per molti mesi studio, leggo tantissimo, guardo numerosi film e tante serie Tv, viaggio, parlo con le persone, osservo come muovono le mani, come camminano, guardo dentro i cortili dei palazzi o attraverso le finestre senza tende, spio tutti, sperando di trovare in un gesto o nell’inflessione della voce uno dei miei protagonisti. Poi la storia cresce, riemerge nella memoria. Sono frasi spezzate, suggestioni, battute, scene osservate in soggettiva o riportate da qualche compagno di avventura.
A volte la memoria del mio libro, quella che rielaboro nella mia mente prima di fissarla con le parole, fa cilecca. Certi libri sono dolorosi, anche se leggeri, altri sono fuggevoli, come ricordi distratti, vita che hai vissuto mentre eri occupato a fare altro. Altri sono troppo intensi e non riesci mai a trovare il tono giusto, l’inflessione giusta, la lingua in grado di rendergli giustizia.
L’ultimo romanzo è nella mia testa da così tanto tempo che a volte penso che non troverà mai la luce. È così mio che non riesco a rivelarlo nel modo in cui vorrei,  come le storie d’amore, che quando le racconti ad alta voce sembrano meno speciali e intense di come sono nella tua testa.

Ogni scrittore ha le sue tecniche e le mie non sono mai state da professionista. Sono umorale, malinconica, timida (estremamente pudica, quando si tratta delle mie parole), spaventata, distratta, sempre e perennemente in lotta con la mia autostima.
Vorrei che questo racconto fosse uguale a quello che ho in testa, fosse simile alla storia che mi ripeto da tempo, fosse potente come le immagini che vedo quando chiudo gli occhi. Lo vorrei e a volte penso di esserne capace. Fino a quando non mi ritrovo davanti alla mia tastiera, senza coraggio e senza forza. Perché scrivere è un mestiere bello, ma crudele e a volte frustrante. Perché ogni persona che vive dentro le pagine potrà confermarlo: i libri più belli sono quelli che abbiamo pensato per tantissimo tempo e non siamo mai stati capaci di scrivere.

Mancarsi

È bello ogni tanto esserci meno.
Meno al telefono, meno agli eventi, meno nella vita degli altri, meno sui social. Circoscrivere la presenza, limitarsi, usare meno parole e meno energie. Centellinarsi per ridarsi valore, per lasciare il tempo di elaborare l’assenza, per far sentire la mancanza.
Dimenticare per un momento la schiavitù del ci sono.

Si riscoprono molte cose quando si rimane soli con se stessi. Il rumore delle proprio parole, per esempio, e non solo quello della propria voce, il piacere del proprio corpo e non solo un corpo usato per piacere, il silenzio come musica, il territorio sconfinato dei piccoli spazi che ci appartengono.

Quest’estate è caldissima e crudele e io ci sono meno. Mi fermo nelle lettere dei prossimi libri e faccio un passo indietro.
Sarà bello ritrovarsi, dopo esserci mancati.
Ne sono sicura.

Il DNA della procrastinazione

Sono un’amante della procrastinazione.
Credo che tutto quello che può essere fatto domani, senza o con poco danno, non meriti di essere sbrigato oggi. Mi piace passare il tempo a sentirmi in colpa per le iniziative che non prendo, per i lavori che non finisco, per le pagine che non scrivo. Salvo poi recuperare tutto sotto scadenza, ridurmi all’ultimo minuto, cuore in gola, per accorciare le distanze.
Si nasce procrastinatori, è nel nostro DNA.
Quelli come me, che spostano sempre un po’ più in là la fine temporale di qualsiasi evento, non potrebbero mai vivere iniziando subito, adesso, in fretta, quello che necessita di lunga, inutile e pigra pianificazione.

L’altro ieri, dopo aver – appunto – procrastinato per quasi due mesi, ho deciso di portare il mio vecchio e fidato iPhone 4S in un centro di riparazioni cinesi, per risolvere un paio di problemi che cominciavano a renderlo utile come una piastrella del bagno. E visto che avevo rimandato di ora in ora il mio rituale appuntamento con la palestra, mi sono detta che avrei potuto unire l’utile al dilettevole, arrivando a piedi in Via Paolo Sarpi.
C’era il sole, l’aria fresca e Milano era bella, quella bellezza intima, che vedi perché ami questa città, te la sei scelta, hai capito che è più tollerante di tutte le città italiane in cui hai vissuto, compresa quella in cui sei nata.
Ho camminato per cinque chilometri, con la testa al contacalorie bastardo che da una settimana mi ricorda che i vizi di gola si pagano, come quelli di gioco. Ho camminato tanto, ascoltando la musica, scoprendo luoghi e locali che non avevo mai visto, annotandoli nella mia mappa interiore e poi sono entrata nel bugigattolo che amo, quello in cui risolvono i tuoi problemi in fretta e a poco prezzo, gli ho lasciato il telefono e il nome e mi hanno chiesto di passare a ritirare tutto dopo un’ora. E io ho pensato “che bello, un’ora intera di passeggio per la splendida Chinatown. Un’ora per guardare vetrine, osservare la gente, rilassarmi”.
Dopo essermi allontanata di pochi passi dal negozio, ho istintivamente toccato la tasca del parka in cui tengo sempre il telefono e ho avuto un sussulto.
Era vuota.
Era ovviamente vuota perché avevo appena lasciato l’iCoso in assistenza, ma era incredibilmente vuota di senso. Che ore erano? Come facevo a sapere quando sarebbero passati sessanta minuti, se l’unico orologio è sul telefono? Cosa avrei fatto in quel frammento improvvisamente lungo senza Twitter, Facebook, Whatsapp? Che scopo aveva passeggiare in una Milano benedetta dal sole se non potevo fotografarla e postarla su Instagram?
Mi capita spesso di spegnere il telefono, soprattutto quando scrivo, perché i social network sono i nemici della scrittura, ti rubano il tempo, ti fregano l’attenzione. Spengo il telefono quando sono in viaggio, quando sono in palestra, quando sono triste e non voglio parlare. Ma l’ho sempre con me. Ho sempre la sua rassicurante presenza fisica, come se fosse un organo che posso non usare per lungo tempo, ma che devo avere vicino perché mi serve per vivere. Un po’ come il cuore.
Ero nuda, senza il mio mondo amplificato, in un posto che amo e che mi è sembrato improvvisamente misterioso, difficile, sconosciuto.
Per un paio di minuti mi sono sentita frastornata. Poi ho continuato a passeggiare, ho notato un orologio su un palo e ho annotato mentalmente l’ora, ho cominciato a muovermi con passo inspiegabilmente veloce, ho sbirciato le scarpe esposte in un paio di negozi, comprato della frutta, guardato la gente indaffarata che sembrava sapere esattamente cosa fare e non dover aspettare, come me, un’ora incredibilmente lunga, seppur breve, per riavere in mano il mio piccolo mondo.
Siccome il tempo che ogni giorno corre, mi sfugge via, si esaurisce troppo in fretta, quel pomeriggio sembrava non scorrere mai, per ingannare l’attesa mi sono seduta al tavolino di un bar, ho preso uno, poi due caffè, ho tirato fuori dalla borsa un libro, ho iniziato a leggere. E allora tutto è tornato al proprio posto, l’ansia dell’irreperibilità svanita, la stanchezza per la camminata alleviata, il terrore delle scadenze evaporato, il fastidio di non poter scrivere a tutto il mondo “sono seduta a un bar a leggere” dissolto.

Le storie belle, che leggi, che guardi, che ascolti sono lo strumento più potente per superare la paura del tempo, la paura della solitudine, la paura del vuoto di senso. E non c’è nulla di sbagliato o spaventoso nello scendere qualche istante dalla giostra del mondo che gira troppo velocemente e prendersi una pausa, facendo qualcosa che ti fa stare bene.

La luce è calata quasi di colpo. Ero seduta al tavolino da forse troppo tempo. Quando sono tornata nel negozio c’era molta coda al bancone. Il telefono era stato riparato. Ha anche una batteria nuova, che dura più delle due ore della precedente. L’ho preso e l’ho rimesso in tasca, cercando di dimenticarmene mentre andavo verso la fermata del tram. Ma quando sono entrata nel mezzo e mi sono seduta, l’ho tirato fuori e, con una sottile punta di delusione, ho capito che il mondo aveva girato lo stesso senza che io partecipassi a tutto, senza che fossi connessa per un paio di ore.
Sono arrivata a casa, mi sono accorta di aver passato tutta la giornata, un’altra, senza scrivere nulla, ho segnato in agenda un’altra virtuale scadenza nella scadenza per rimettermi in riga, ho nutrito il gatto, guardato fuori dalla finestra la notte che arriva sempre un po’ più tardi, ho ritirato il libro fuori dalla borsa, tolto la suoneria e ho continuato a leggere fino all’ultima pagina.

Prima di sparire

Sto scrivendo molto poco in questo periodo.
Non aggiorno il blog, non aggiungo pagine ai capitoli dei nuovi romanzi, non mando email agli amici.
Pur avendo tantissime idee, tantissimi progetti più o meno interessanti che mi si affollano nella testa, riesco a prendere solo qualche sintetico appunto su qualcuno dei miei confusi quaderni.

In questo periodo ho bisogno di nutrimento. Non quello di cui mi abbuffo quotidianamente, per poi lamentarmi con chiunque dei miei chili di troppo (ehi, a voi l’ho detto che sono a +5?), ma quello che serve a creare, inventare, ricostruire mondi nuovi.
Ho bisogno di alimentare quella macchinetta imperfetta che è il mio cervello e il carburante migliore sono le storie degli altri.

Mi sono concessa qualche settimana per rimpinzarmi di libri e film e telefilm e mostre e giornali e conferenze. Un tempo di apparente improduttività (avete notato che tutto ciò che non è fatturabile non è considerato né utile né benefico? Che reputiamo deprecabile tutto ciò che non produce un immediato guadagno, dimenticandoci che tutto ciò che c’è di sublime al mondo non è monetizzabile?) che scopro essere salvifico.
I libri mi hanno sempre salvato la vita. Non quelli pubblicati da me, che sono stati un gioco senza alcuna pianificazione, ma quelli in cui sono inciampata senza volerlo o quelli che sono andata a scegliermi con determinazione.
Sono giorni intensi, in cui fatico anche a rispondere al telefono, perché sono così occupata a scivolare tra una pagina e l’altra che ho paura di perdere il ritmo.
Ho sognato tutta la vita di potermi permettere qualche mese passato così, mesi in cui non avere l’ansia dell’affitto, delle bollette, del futuro, delle scadenze. Adesso che sta succedendo, ogni giorno mi sveglio con il terrore di non meritarlo, di non riuscire a farlo fruttare, di non essere mai in grado di prendere tutto quello che mi sta entrando dentro e trasformarlo in qualcosa di buono.

Ho sempre paura che le cose belle finiscano senza lasciare nulla. Però non accade quasi mai. Come quando te ne sei andato tu e pensavo che il mondo si sarebbe fermato e non ci sarebbero stati più i rumori e invece c’era ancora il battito costante del cuore che mi avevi riparato per bene, prima di sparire.

Roma, fai un po’ la stupida stasera

Sono in partenza per Roma. Ho puntato la sveglia all’alba, ho stirato (sì, proprio così, S T I R A T O) la gonna che indosserò, che ormai è l’unica in tutto l’armadio che ancora mi entra, ho messo in valigia le mie scarpe nuove col taccazzo e sono pronta.

Vado a parlare dell’Arco, il racconto che ho scritto per il progetto Update your legs, il primo in cui mi cimento con l’erotico. O ci provo. E il protagonista è un uomo, che pensa e parla come un uomo. O come gli uomini che amo.
L’ebook è gratuito e potete scaricarlo qui.

Se avete voglia di fare due chiacchiere con me e le altre autrici, ci vediamo dalle 18 alle 21 nella boutique di Wolford in via Frattina 90. Io sono quella vestita male che cerca disperatamente qualcuno che le riempia il bicchiere.

Wolford_Updateyourlegs_evento

Ed ecco la vera novità

Le mie vacanze brasiliane sono ormai un ricordo. Un bel ricordo, così lontano che quasi non sembrano essere passate solo due settimane.

Il nuovo libro, A noi donne piace il rosso, è uscito (potete comprarlo qui in ebook e qui in cartaceo). È un libro bello. Fossi in voi lo leggerei e poi lo regalerei a chiunque.

Milano è grigia come solo Milano sa essere. E a me piace. Mi piacciono le strade bagnate dall’umidità e dalla pioggia, i bar riscaldati pieni di gente, le enoteche con la musica bassa, in cui riesci a parlare senza urlare, i supermercati colmi di panettoni, i negozi del centro con le vetrine natalizie, le bancarelle in Duomo.

L’amore sta bene, mai stazionario, perché se lo fosse non sarebbe più amore, ché quel sentimento è una montagna russa, un altalena, una corsa a perdifiato, un giro di rock&roll.

La dieta non sta funzionando, i jeans non mi stanno più entrando e rinunciare ai carboidrati sta diventando una prova di forza.

E fin qui, tutto bene.

Ma la vera notizia, quella che wow, la decisione che cambierà il corso dei miei prossimi giorni, mesi, anni, che modificherà l’asse terrestre e l’attrazione lunare e gli orari dei treni, è che ho deciso di tornare a scrivere sul blog.
Nel senso di spesso, non come adesso. Di farlo tutti i giorni. Come undici anni fa. Come ai tempi in cui non c’era mondo senza blog, non c’era il mio mondo senza blog.
E non lo faccio per motivi commerciali, non divento una fashion/beauty/food/cosa/salcazzo blogger, non metto banner, non vi scrivo quanto è buono lo stracchino con un paio di anfibi griffati e il rossetto color mattone.
Voglio solo recuperare un rapporto con la scrittura più rilassato, meno – siete pronti per la parolona orrenda? – performante, che non preveda tot visite e clic per essere pagato, tot vendite per diventare un beSSeller, tot pagine per andare in stampa. Una scrittura anarchica, libera, indipendente, personale, non legata per forza alla cronaca, alla televisione, alla moda.
Voglio tornare a scrivere per me. Voglio raccontare le storie che mi passano per la testa, le mie idee, i miei pensieri. Senza linea editoriale, senza briefing del cliente. E ho capito che l’unica cosa che ho sempre scritto senza regole è stata Malafemmena.

Quindi rifarò una cosa che, spero, darà l’inizio al primo fenomeno di vintage blogging mondiale: tornerò ad aggiornare alla maniera 1.0.

Non è facile. Perché la vita è diventata più frenetica, perché ho sempre meno tempo ed energie, perché sono spesso in giro e perché devo e voglio continuare anche a scrivere per mangiare. E non è facile perché questo posto non è più quello di tempo e anche perché i lettori, voi, non siete più quelli di un tempo e adesso si sta su Facebook, si commenta su Twitter, si comunica su WhatsApp. Non voglio dire che siete invecchiati, eh, però… mi capite, vero? Vi ricordate che c’era un mondo, pochi anni fa, che non è più lo stesso?

Non sarà facile, ma una cosa che sento di fare, che mi sembra importante iniziare. Mi sembra bella. Per me. E faccio questo annuncio nella speranza che, se non dovessi mantenere l’impegno, anche solo una persona me lo faccia notare e mi motivi. Dopo avermi cazziato.

Oggi è il 1° dicembre ed è l’inizio del nuovo inizio.

Sono quasi pronta. Spero avrete voglia di fare ancora due chiacchiere con me. Sarete sempre i benvenuti.

Piazzola di sosta

Circa tre anni fa, quando l’amore sembrava un inevitabile supplizio, e non c’erano più respiri, ma solo sospiri, e le attese non avevano mai fine e non c’erano ritorni, ma solo addii, qualcuno mi disse che un giorno avrei rimpianto la devastante sensazione di sofferenza amorosa. Perché certe emozioni ti riempiono fino all’orlo, ti avvolgono stretto, fino quasi a stritolarti, amplificano ogni tua percezione, ti fanno sentire disgraziatamente così vivo che quasi non riesci a sopportarlo.
In quei momenti sei solo amore, sei solo dolore. Non ci sono bollette da pagare, fatture da incassare, colleghi di lavoro fastidiosi, metropolitane in ritardo, offerte al supermercato, lavatrici da fare, parrucchieri da prenotare. Non c’è piccolezza, pragmatismo, quotidianità. Sei un eroe tragico. Sei puro spirito.

Era un periodo in cui scrivevo tanto. Mandavo segnali. Desideravo buttare fuori tutto il disagio che mi riempiva, tutto il nero, tutto. Era il momento in cui ti trasformi e, se ci riesci, di quel te che eri rimane solo l’ombra, che ti segue o ti precede per la strada.

L’estate è arrivata prima che perdessi quei due chili, prima che progettassi lunghe fughe al mare, prima che iniziassi tutti i progetti che avevo in mente, prima che riprendessi in mano il libro su cui stavo lavorando.

Il tempo è veloce e io sono lucida. C’è tanto lavoro, anche se non quello che avevo immaginato. Ci sono persone nuove, anche se non quelle che avevo cercato. Ci sono le parole da scrivere, anche se non hanno più l’urgenza di una volta.

A ripensarci adesso, mi dico che è stato bello sopravvivere. È stato bello e faticoso ricominciare ancora, e cambiare tutto, e arredare una casa nuova, e cambiare molte volte taglio di capelli, e dimagrire tanto e poi tornare a mangiare di gusto, e conoscere nuove persone, e viaggiare, e cambiare mille lavori, e innamorarmi ancora.

Chissà se la serenità è un traguardo o solo una piazzola di sosta.

 

Rimasugli di te

C’è stato un lungo periodo della mia vita in cui scrivevo soltanto quando stavo male. Diari, che portavo sempre con me, e lettere, tantissime lettere, di quelle di carta, che in questo momento mi mancano così tanto.
Mi è capitato, tempo fa, di ritrovare tutti i quaderni che avevo riempito con la mia brutta calligrafia disordinata, di risfogliarli e di non riuscire a rivivere le emozioni e i sentimenti che provavo allora. Non perché non sia ancora in grado di provare la più profonda tristezza, di vivere con una saudade continua o con il terrore che il meglio sia già perduto, ma perché, credo, di aver cambiato pelle così tante volte, da essere una persona completamente diversa.

Ogni trasformazione, anche la più drastica, ti lascia addosso un residuo della persona che eri. Qualcosa di cui non riesci a fare a meno, perché non sai nemmeno che è una tua particolarità. Puoi imparare a vestirti, camminare, parlare, mangiare, lavorare in mille maniere diverse. Puoi imparare ad amare e amarti in modi che non avevi mai immaginato. Puoi cambiare gusti, scoprire di gradire il caffè decaffeinato e di non essere più in grado di mangiare maionese, di trovare attraenti i ragazzi con i capelli lunghi e detestabili gli intellettuali. Puoi cambiare desideri, volere a tutti i costi una casetta in periferia, invece di un appartamento in centro, una vacanza in montagna, invece dell’estate a Ibiza, un figlio, invece della pancia piatta.

Ma non riuscirai mai a cancellare quel rimasuglio di te che compone la tua parte più segreta.

Uno dei miei rimasugli è il senso di colpa. Per tutto. Per quello che mi succede e per quello che non accade. Per i fatti del mondo e per quelli del mio orticello. Per le scelte che ho fatto e per quelle che non ho mai preso. Per gli errori, per i traguardi, ma non quelli giusti. Per l’irruenza, l’istintività e per l’accidia e la pigrizia.

E non mi è chiaro se penso sempre di non meritarmi le cose o se sono convinta di non aver fatto abbastanza per meritarmi di più.

Possono cambiare le circostanze, l’amore, il lavoro, i debiti, le città, gli anni, gli amici fidati, i desideri, le passioni, la taglia dei pantaloni, le idee politiche, la musica preferita, ma il rimorso e il rimpianto non mi abbandonano mai.

L’altro residuo dell’autentica me è il nomadismo, il desiderio di spostarmi spesso, il bisogno di iniziare in continuazione, perché gli inizi contengono promesse di felicità, speranze, passione. Appena una casa o un posto mi diventano familiari, ho voglia di ripartire. C’è così tanto mondo da vivere e così pochi anni in una vita!

Ultimamente ho conosciuto persone che non si sono mai spostate troppo dal loro quartiere. Non dal loro paese, dalla regione, dalla città… Dal quartiere.

Non riesco a capire cosa si prova a non desiderare di voler provare a vivere altrove. Però ho capito una cosa importante. Mentre un tempo pensavo di aver cambiato così tante città da non avere più una “casa”, adesso mi rendo conto che, al contrario, sono a casa mia in tantissimi posti. Tanti posti che non credevo sarebbero diventati così tanto parte di me.

A volte penso che vorrei scrivere di questo. Far vivere ai miei personaggi quello che ho provato. Usare un po’ di autobiografia tra le mie righe.
Vorrei tornare a scrivere come in quelle lunghe lettere che inviavo ogni volta che cambiavo città, che mandavo ai vecchi e nuovi amici, che rileggevo due o tre volte prima di spedire e non rivederle più, che mettevano in ordine i miei pensieri e poi sparivano. Quelle lettere che non potrò più sfogliare e che forse, proprio per questo, contenevano le parole più importanti, che non sono state scritte per un sollievo futuro, ma per il bisogno di raccontare e basta.

È bella la primavera, della finestra della mia camera. Quella finestra a cui da poco ho messo le tende, non per tenere il mondo fuori quando le chiudo, ma per scoprirlo ogni volta che le apro.

Spengo e scrivo

Non aggiorno il blog da 33 giorni.

È finito Sanremo, abbiamo un nuovo presidente del consiglio, è arrivata la primavera, ho iniziato il corso di fitboxe, ho rimosso dall’iPhone quell’app conta calorie che mi stava togliendo il gusto di vivere, ho preso un chilo e sei etti (ma sono solo muscoli, eh…), ho un nuovo lavoro che mi impegna più di quanto avessi preventivato.

Ho cambiato orari e ritmi. E non sto scrivendo più. A fatica, lentamente. Ci sto pensando di più. Limo le pagine come se fosse miniature di una Bibbia medievale. Rileggo ad alta voce. Lascio perdere. Ci torno su. Mi dilungo. Cancello. Riscrivo. Passo le poche ore libere a guardare l’icona del file .doc, col nome del libro, e immagino come mi sentirò quando sarà tutto finito (e salvato in duecento copie, al sicuro).

Fare una cosa in cui credi davvero è molto più difficile di farne una di cui ti frega poco. Lo so, dovrebbe essere il contrario, e invece no. Quando in un progetto creativo metti tutto quello che hai dentro, i tuoi mondi, il tuo passato, i tuoi occhi, le tue idee, le cose immaginate, i viaggi che hai fatto, le fughe e i ritorni, le parole nuove e quelle a cui sei affezionato, le speranze, le visioni, hai sempre la paura di perdere tutto. Perché temi che, se fallissi con qualcosa che è tutto te stesso, non riusciresti più a fare altro.

È una cosa che succede spesso: scrivi un romanzo per gioco e hai fortuna, poi magari pubblichi il libro della vita e non se lo fila nessuno. Mettilo in conto. Metti in conto che quello in cui ti impegni di più potrebbe non piacere a tutti.

E dopo che l’hai accettato, impara a capire che il tempo non è solo un nemico, ma un alleato. Che la fretta da scaffale non è sempre la soluzione migliore. Che per raccontare questa storia che ti esplode dentro hai bisogno di più mesi, di più cose lette e viste, di più chiacchiere, di più bozze riviste e corrette, di più tentativi, di più incipit rimaneggiati. Che non sarà come i precedenti, con l’acqua alla gola, perché non ti perdonerai mai di aver tolto tempo a una cosa a cui tenevi davvero.
E impara anche che, però, a un certo punto devi darti una mossa. Che devi fare delle scelte, avere il coraggio di chiudere, di decidere, di terminare. E questa volta lo devi fare senza una data di consegna che ti metta il pepe al culo. Lo devi fare perché ne hai bisogno.

La benzina della mia esistenza è sempre stata il senso di colpa, misto ad un’altalenante disciplina.

Oggi, 26 marzo 2014, ho promesso che non avrei più tolto tempo alle cose con cui spero di lasciare il segno. Una mia rivelazione alla Jep Gambardella. Senza Roma sullo sfondo, ma con il pollo allo spiedo di Giannasi, in Porta Romana.

Mi sono fatta una promessa che spero di mantenere.

Quindi, adesso spengo il router e il telefono e scrivo.

Spengo e scrivo.

SpeCLICK

 

Il punto di non ritorno

Il punto di non ritorno è quando il viaggio diventa interiore.
Parti, ti decontestualizzi e vedi le cose da una prospettiva diversa, con colori che non ti erano sembrati mai di quella tonalità, con i suoni che ti sorprendono alle spalle e ti fanno sentire teso come un animale selvatico. Pronto all’attacco. Pronto.
I viaggi più incredibili sono quelli che ti succedono dentro, quando sei a casa e non la riconosci, quando le persone che ti stanno intorno tornano a essere mondi nuovi e ti sembra che tutto possa, debba, iniziare da zero.

Ricordo il primo lungo viaggio che ho fatto da sola con mio fratello. Avevamo vent’anni, un padre appena seppellito, il bisogno di sentirci vivi e la fame di scoperta. Mi è sembrato eterno ed è durato soltanto due settimane e poi mesi e mesi dopo, dentro, trasformandomi in qualcosa di diverso.

Non importa dove vai, ma come ci vai. E come torni, quando torni e se mai torni.

Sono rientrata piena di entusiasmo e di appunti. Mi sono detta adesso scrivo e scrivo e allora acquisterà un senso tutto quest’anno passato a dire che bisogna fare delle proprie passioni un mestiere, sarà servito a qualcosa rinunciare al terzo libro previsto a Natale di una trilogia che non finirà, per raccontare le storie che mi vivono dentro da un po’.
Mi sono detta torno a commentare la politica e l’attualità, riprendo il mio blog sull’Unità, sarò più presente su twitter, mi infilerò in tutti questi spazietti lasciati liberi dai veri intellettuali per dire la mia, mi risveglierò dal torpore accidioso e terrò duro fino a quando non mi arriveranno un po’ di soldi e potrò tirare il fiato.
Ho dormito per due giorni e ho sentito i muscoli rilassati e ho fatto una scorpacciata di sogni confusi.
Mi sono seduta al tavolo bianco della sala milanese, quella con le finestre grandi che guardano in due direzioni e che a volte ammiccano, col sole forte, e ti danno l’idea di affacciarsi sul mare.
Nulla.
Non è successo nulla.
Ho risposto alle email, fatto un paio di lavoretti piccoli piccoli, ho guardato tanti telefilm, ho sfogliato i giornali online, ho letto le notizie e ho pensato bisognerebbe indignarsi, scrivere, dire, fare qualcosa, fare davvero qualcosa. E poi non ho fatto nulla.
Sono uscita a passeggiare e mi sembrava tutto nuovo. Il caldo imprevisto di ottobre, il cielo grigio senza speranza, le mani degli amici, i banconi dei bar.
Un pomeriggio sono uscita per fare qualcosa che nemmeno ricordo e non l’ho fatta. Mi sono infilata in una libreria e mi ci sono persa e alla fine non so quanto tempo sia passato e tutte quelle quarte di copertina erano pianeti e dovevo scegliere dove atterrare per fare rifornimento.
Leggo. In silenzio. E poi interrompo le persone quando parlano e dico le cose che mi passano per la testa.
Questo è un viaggio nei miei limiti, nei ricordi, a volte felici e molto spesso dolorosi. È il parto di un cambiamento, la nascita di qualcosa che non poteva più non venire fuori.

Va tutto bene, l’amore, gli amici, il nipotino che cresce, la salute, l’autunno leggero, i miei libri sugli scaffali. Eppure non ho voglia di ritornare in me, forse perché sono troppo pigra o forse perché, se questa volta dovessi fallire, non potrei perdonarmelo.

A volte vado a correre, senza averne voglia. La cosa più difficile sono i primi passi. Non mollare. E poi altri ancora. E il corpo che continua e il cervello che ti chiede perché lo fai? perché insisti? Non vuoi essere qui, vuoi restare sul tuo divano, immobile, a immaginare corse infinite che non inizierai mai. E supero il primo chilometro e mi dico fino a qui tutto bene e mi dimentico quello che stavo pensando un attimo prima e i polmoni si riempiono e la fronte suda e vado avanti, perché non c’è altro da fare.
Andare. Avanti.

Ulisse ci ha messo dieci anni per ritornare a casa e il viaggio era la vita stessa, l’avventura. Io rientro con lentezza e qualcosa intorno a me sarà sicuramente cambiata. L’energia, l’entusiasmo, le distanze tra me e gli altri, i bisogni, la storia nuova che avrei dovuto buttare giù due mesi fa e che ancora sto pensando, i silenzi confortanti di cui mi nutro per giorni interi, le giornate che diventano corte, ed è subito sera.

Probabilmente smetterò domani

Stamattina è come se la vita avesse scoperto che non ho fatto i compiti.

Dovevo consegnare un lavoro che non ho mai iniziato perché ho capito che non sono in grado di farlo. E ho quindi passato una notte intera ad alternare il sonno all’autocommiserazione.

Quando riesci a rendere la tua passione un mestiere, corri il rischio di tradire te stesso. Pur di non perdere occasioni, accetti anche proposte che non ti somigliano, che non ti fanno crescere, che tirano fuori i tuoi lati meno interessanti, che abbruttiscono il tuo piccolo talento, che mettono in discussione il tuo piacere nel fare le cose.

Non bisogna mai perdere l’entusiasmo per le cose che amiamo. È un sacrilegio, è un peccato, è una follia.

Per evitare di sentirmi a disagio con quello che mi piace, ho imparato a fare una cosa che solo dieci anni mi sarebbe sembrata impossibile. Ho imparato a dire di no. Anche a rischio di perdere futuri contatti più interessanti. Mi dispiace, non me la sento, preferisco non farlo.

È il motivo per cui, per campare, mi ritrovo a fare altri lavori. Quando ce ne sono e quando pagano.

Pochi giorni lontana dal mare hanno sbiadito la mia abbronzatura. Non me ne sono accorta, mentre andava via piano piano.
Ieri mi sono guardata allo specchio e mi sono vista pallida e sbiadita, con l’estate che mi scivola addosso, sgocciolando sulle infradito, fino a sparire.

Ho fatto la mia lista di buoni propositi e ogni anno è sempre più breve. Non perché abbia realizzato quelli degli anni precedenti, ma perché ho imparato che devo essere molto più indulgente con me stessa.

Un sacco di amici, che mi conoscono da prima del web, mi chiedono della Siria e dell’Egitto. Ho studiato in quei paesi e ho la mia laurea in Arabo ed Ebraico che avrebbe dovuto trasformarmi in una bella persona. Poi ho cambiato strada. Di quella vita precedente, ricordo che dovevi avere grandi ideali, grande curiosità e grande competenza. E adesso che mi sento lontana da quegli anni entusiasmanti, seguo con pena e sgomento quello che accade.

A volte penso di essere un gatto, pigro e acciambellato sul davanzale della finestra. Delle mie nove vite, ne ho già fatte fuori un po’ e devo impiegare le altre con parsimonia.

L’aria di questo settembre profuma di sfide e di coraggio e questo lunedì inizio anche la dieta. Probabilmente, smetterò domani.

 

Dodici giorni di pagina bianca

Eravamo tutti occupati a capire come sarebbe andata a finire. La politica era il primo argomento, al bar, in palestra, a cena, a lavoro, in treno, al telefono, al cesso, a letto.

Un’infinita soap opera, ogni giorno un colpo di scena. Come quando scrivi romanzi rosa, in cui hai bisogno di continui mutamenti e sorprese. Che poi sono sempre amarsi/non amarsi, mettersi/lasciarsi, piangere/stare bene, tradirsi/perdonarsi, allontanarsi/ritrovarsi.

La vita, insomma. E la politica.

A furia di aspettare, abbiamo perso la cognizione del tempo. Che giorno è? Quando abbiamo iniziato ad aspettare? Quando finiremo, decideremo, andremo avanti?

Giorni fa ho finito i maledetti colpi di scena. Fisso la pagina bianca da dodici giorni. Dodici. Non ce la farò mai.

Mi dici che è colpa mia, ho perso tempo. Il tempo non lo perdi, non è un mazzo di chiavi che ti cade dalla tasca. Il tempo lo consumi, a volte lo sprechi, altre volte lo vivi, ma non capita quasi mai quando vorresti.

Dici ti amo, ma non possiamo stare insieme e non possiamo vivere separati. Non possiamo andare avanti, non possiamo tornare indietro. È un gran casino. Tu – mi dici – hai combinato un gran casino. E non chiedermi perché. Non me l’aspettavo che andasse così.

Dodici giorni di pagina bianca, due mesi senza governo, sette anni di nuovo vecchio Presidente.

Siamo fuori tempo massimo. È troppo tardi e quando la scadenza arriva sei fottuto. E se sei Superman, fai girare al contrario il mondo e torni indietro nel tempo. Torni indietro anche se hai una DeLorean. Io non ce l’ho una DeLorean. Ho un Sì Piaggio immatricolato nel 1992. Ancora funzionante. La miscela era al 2%. Adesso devi fartela tu da solo. Non ci torna indietro quel Sì, ci ho provato. Fa al massimo 35 km/h, se lo tiri a manetta e ti metti in posizione aerodinamica.

È meglio se non mi muovo e resto qui. Aspetto il colpo di scena. Tanto oggi a Milano piove e a Roma si dimettono tutti e ho comprato le nespole e, se ho davvero perso tempo, lo vado a cercare in qualche cassetto.