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Siamo migliori della paura e della rabbia

“Siamo in guerra”.
L’ho sentito ripetutamente, ieri, mentre restavo a nutrirmi di immagini di Bruxelles, colpita e ferita, e commenti e opinioni fino a notte fonda.
“Siamo in guerra” e io volevo e cercavo di saperne e capirne di più, oltre lo sciacallaggio, le grida, i proclami, la confusione.
Il terrorismo inasprisce i toni già alti e feroci, nei discorsi da bar, sulle bacheche di Facebook, nei talk-show. Sono la frustrazione, la paura, l’indignazione e l’odio, che ci cresce dentro nonostante noi, a guidare le parole. È umano.
C’è bisogno di un grande sforzo e grande lucidità per andare oltre il populismo e gli slogan e comprendere, farsi un’opinione critica, non lasciarsi coinvolgere in inutili cacce alle streghe, non puntare il dito accusatorio contro innocenti solo per il bisogno di avere un capro espiatorio.
Nel 1996, un anno dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin, mi sono iscritta al corso di Laurea in lingue orientali, per studiare l’arabo e l’ebraico. Volevo cambiare il mondo, con la presunzione e l’energia dei diciottenni che pensano che esista un solo bene, senza sfumature, e vada perseguito.
Studiare l’Islam e l’Ebraismo è stato l’atto più rivoluzionario della mia giovane vita. Ha messo in discussione ogni idea di giusto e sbagliato che avevo, ha sbriciolato le mie certezze ideologiche, mi ha mostrato la complessità del mondo e la difficoltà, spesso ridicola, della geopolitica, mi ha fatto prendere strade che non avrei mai intrapreso.
Daesh, l’autoproclamato Stato Islamico (perché l’autorità se la sono data da soli, nessuno gliel’ha mai conferita), con la sua follia, la ferocia, la disumanità,  mette alla prova anche le visioni più ottimistiche sulla multiconfessionalità, l’integrazione, la convivenza pacifica. Come tutti, negli ultimi mesi mi sono chiesta spesso se quello che pensavo e ritenevo giusto, dopo le bombe e le vittime e la perdita della sensazione di sicurezza della democrazia, fosse ancora legittimo.
La paura esclude e non include. Chiude e non apre spiragli. Fa coprire gli occhi e limita il campo d’azione.

La paura è un sentimento reazionario che spinge verso scelte reazionarie. Storicamente trascina i popoli alla dittatura, nell’illusione che sospendere le garanzie democratiche possa proteggere meglio dal terrore. In realtà il populismo porta all’isolamento e l’isolamento non fa che aumentare il pericolo. Ma se avere paura è un diritto, e in certa misura un dovere, anche non perdere la testa lo è”, scrive stamattina Massimo Gramellini.

Sappiamo tutti che analizzare a freddo il terrore è molto più facile che viverlo in prima persona, ma se è vero che siamo in guerra, senza averlo scelto, senza essere preparati, avendo ripudiato la guerra stessa anche costituzionalmente, è il momento di essere più forti che mai.
Nel mio piccolo, cerco di non cambiare troppo le mie abitudini, sono tornata a studiare per capire, provo a non esacerbare i toni nelle discussioni pubbliche, discuto pacatamente con gli amici, cercando di comprendere anche il loro punto di vista, leggo più giornali, ascolto di più.
A differenza di tanti, non ho voglia di litigare. Perché alzando la voce rischio di finire a pensare e dire cose diverse da me. E di avere ancora più paura.
Facciamoci forza insieme e cerchiamo di essere migliori degli slogan e della rabbia. Sono convinta che siamo più forti di loro e lo dimostreremo.
Ci aspettano tempi difficili. Speriamo durino poco, pochissimo.

Chi ha paura di volare?

Il titolo del post non è una metafora.
Mi chiedo proprio quanti di noi abbiano iniziato ad avere il timore di compiere azioni che fino a ieri ci sembravano normali: prendere un aereo, visitare un museo, fare la spesa, andare a lavoro in redazione.

Stiamo imparando che non bisogna fidarsi di nessuno: di chi ha idee politiche estreme, ma anche di chi non ne ha affatto, di chi è troppo religioso, ma anche (soprattutto) di chi non distingue il monoteismo da una dieta alimentare, di chi non è nato qui, ma anche di chi ci è nato e poi chissà cosa gli è passato nel cervello. Ci sembra che tutto stia diventando più violento, ma abbiamo continuo bisogno di violenza e urliamo nei nostri commenti sui social, guardiamo serie tv piene di mortiammazzati, diventiamo aggressivi in auto, leggiamo tutti gli articoli più morbosi di cronaca, aggiorniamo continuamente le pagine dei quotidiani online, ci appassioniamo ai disastri. Viviamo nell’illusione di essere fuori dal palcoscenico, nelle prime file da cui si vede benissimo il palco, ma lontani abbastanza dalla ribalta da essere al sicuro.

E appena capiamo di non esserlo, al sicuro, perché il nostro vicino di poltrona si è macchiato del sangue (non) di scena, rimaniamo spiazzati. Più che spaventati, siamo disorientati. Possibile che stia accadendo a noi?

In molti abbiamo vissuto una strana sensazione, negli ultimi giorni. Una reazione umana, sgradevole, ma comprensibile. Scoprire che una tragedia accade per colpa di un solo squilibrato, forte della disattenzione altrui, senza organizzazione alle spalle, la rende meno abominevole. Spaventosa, atroce, ma occasionale.
Eppure, è nella casualità della tragedia che si cela il suo orrore più grande. Oppure no?
Se non fossimo così continuamente allertati dal terrorismo, gli incidenti, seppur dettati da follia, ci sembrerebbero più o meno gravi?

Nel dubbio, a Pasqua partirò in macchina.

Mi garantite che le strade sono sicure?