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Il prossimo anno ci salveremo da soli

Gli ultimi giorni dell’anno a letto con l’influenza mi hanno obbligata alla solita resa dei conti, che – per una volta -avrei voluto evitare. Nei deliri da febbre alta, cocktail di paracetamolo e brodo fatto con il dado, sudore, gatto che mi rubava il letto e telefilm in streaming, ho rivisto il film dei sensi di colpa, delle scelte sbagliate e quelle prese in graziadiddio che mi hanno (forse) cambiato la vita, degli errori, dei traguardi, dei sorrisi e delle lacrime.
Quello appena trascorso è stato, tutto sommato, un buon anno.
Non un anno ricco, non un anno molto produttivo. Un anno buono.
Dodici mesi in cui ho fatto tutte le cose per bene, nel lavoro, in amore, con la scrittura, con la famiglia, con le amicizie. E quando fai le cose per bene, e ti impegni, e sei onesta, soprattutto con te stessa, non puoi avere rimpianti.

Poi, certo, c’è il porcomondoboia che funziona a scatti, che ti mette i bastoni tra le ruote e non dipende da te. Non può sempre dipendere da te. E questo rallenta la crescita, smorza gli entusiasmi, produce fastidio e bestemmie, sconsola, deprime.

La crisi economica ormai è una balla. Non c’è un complotto mondiale per farci diventare dei poveracci. Non c’è più un buco nero in cui sono trascinati tutti e, quindi, anche noi. No. Il problema è che noi sguazziamo in un mare di fango che ci siamo creati da soli. Il problema è che l’Italia è un Paese schifoso e meschino.
Punto.
Corruzione, mafia, sprechi, evasione fiscale, classe politica completamente ignara di come viva davvero la popolazione, tassazione delirante sui meno abbienti, nessuna meritocrazia, nessun rispetto per la cultura, disprezzo per l’onestà e stima per l’ignoranza truffaldina, pressapochismo premiato come intraprendenza, massoneria, demagogia, populismo, razzismo così radicato e così malcelato da essere endemico, omertà, connivenza.
Non credo esistano altri casi al mondo di potenze industriali ridotte a teatrino dei pupi nel giro di qualche decennio.
È sempre più faticoso amare la nostra terra. Come un marito che ti prende a pugni. Come una madre che ti abbandona in un cassonetto.

L’unico grande rimpianto del 2014 è quello di aver capito di non essere in grado di migliorare il Paese e di essermi rassegnata all’idea che non cambierà. La perdita della speranza è il primo segno della fine e non so se è generazionale, se dato dalla stanchezza o da un eccesso di informazione, ma non credo più che ci siano possibilità di redenzione.

Così, il prossimo sarà l’anno in cui a tutti toccherà salvarci da soli.

Sono ottimista per me, perché sono convinta di avere margini di miglioramento: nei prossimi dodici mesi voglio viaggiare a est e a ovest, scrivere finalmente il mio primo romanzo non rosa, voglio bere il vino più buono, voglio guardarmi allo specchio e piacermi sempre e comunque, voglio frequentare persone belle e lasciare andare gli opportunisti, i falsi amici, i passivi aggressivi, i cattivi consiglieri, gli invidiosi, i rancorosi, gli “amici” per cui lavori e non ti pagano. Voglio leggere e guardare mille film e ascoltare musica e ammirare i tramonti. Voglio baciare di più, fare di più l’amore, abbracciare di più, ridere di più, parlare di più e ascoltare di più.
Voglio continuare a essere onesta, a credere che il merito paghi, a investire nel talento e non nei pompini, a fare il mio lavoro al meglio, a studiare, a capire le cose.
Voglio salvarmi.

Ed è il mio augurio per tutti voi.
Fate le cose per bene, salvatevi, non lasciatevi tentare da tutto il marcio che ormai ci circonda. Siate belli e senza rimpianti. Siate coraggiosi. Siate il Paese che amerei alla follia.
Magari tra un anno saremo qui a dirci: hai visto? Avevamo sbagliato! C’era ancora qualcosa per cui valeva la pena lottare: noi.

 

Nessuno ha più voglia di restare

Nessuno ha più voglia di restare.

I miei coetanei se ne sono già andati. Non tutti, e chi è rimasto non fa che pensare di aver sbagliato a dare una possibilità al Paese. Chi è rimasto è considerato un perdente, un pigro, uno non abbastanza bravo. Perché a nessuno può davvero venire in mente che tu sia rimasto perché l’ami davvero, l’Italia.
Non si ama una madre che ti affama, ti umilia, uccide la speranza, ti sfrutta, ti toglie quello che ti spetterebbe di diritto per darlo a chi ruba, imbroglia, minaccia.

Sono rimasti quelli che potevano permetterselo: casa comprata da mammà, lavoro trovato da papà, mutuo intestato alla nonna, perché nessuna banca lo darebbe a te. E poi sono rimasti i folli, quelli che continuano a credere che c’è ancora qualcosa di buono da salvare, e ogni mattina si svegliano con un peso all’altezza dello sterno, che non vuole scendere, non vuole salire, che ogni giorno camminano in equilibrio su un filo sottilissimo e sanno che, se si spezzerà e cadranno, non ci sarà più la possibilità di tornare in posizione eretta.

L’Italia è un paese di caste. Per quanto tu possa impegnarti, essere bravo, avere tenacia, seguire le regole, se nasci senza santi in paradiso, senza genitori ammanicati, senza denari, resterai un poveraccio tutta la vita. Non importa quanto tu abbia talento, quanto le tue idee siano geniali. Qui ci vogliono le conoscenze, i soldi, qualcuno che ti paghi le spese, ci vogliono gli amici, non quelli a cui vuoi bene, gli amici, quelli che aprono porte, stringono mani, chiedono e ricevono favori.
Ci sono due soli modi per riuscire a emanciparti dalla tua casta: rubare e dimostrare di essere uno di loro, o sposartene uno e, se tutto va bene, sperare che nessuno si accorga da dove vieni.

Io sono una di quelle che è rimasta. A vent’anni me n’ero andata e poi sono tornata, convinta che ci fossero margini di miglioramento, che avrei fatto di differenza, che avrei cambiato le cose. Purtroppo, poi, sono stata infettata con il virus che ha distrutto la mia generazione: il disimpegno. Ho smesso di lottare, di capire, di alzare la voce. Perché più tiravo pugni, più i muri diventavano duri, più correvo, più la strada si allungava, più gridavo, più le persone intorno a me diventavano sorde.
Forse anche per età, smetti di pensare a TUTTI e cominci a concentrarti su di TE. Magari, ti dici, se provi a salvarti da solo, ce la fai.
Non ce la fai. Non ce la fai.

Il giorno che sono arrivati i miei coetanei al potere ho pensato che era arrivato il momento di liberi tutti, la svolta, la trasformazione. In Parlamento c’erano ragazzi come me che non erano partiti, non avevo scelto un’altra patria, un’altra casa, ed erano rimasti a camminare su quel dannato filo che potrebbe spezzarsi da un momento all’altro.
E invece no. Sono arrivati sugli scranni quelli rimasti in Italia perché potevano permetterselo e non perché volevano guadagnarselo, quelli che non cambieranno le cose, perché non hanno mai avuto bisogno di farcela e non hanno mai avuto paura di perdere tutto.

Cosa ci resta da fare?

Siamo troppo vecchi per partire, troppo giovani per rassegnarci.

Non ci resta che parlare, capire, informarci, discutere, alzarci da questi cazzo di divani Ikea che ci succhiano le energie, allontanarci dai Reality, trovare una piazza in cui incontrarci tutti, liberare la rabbia, davvero, liberare l’indignazione, smettere di sperare che la pensione dei nostri genitori ci pari il culo, smettere di diventare come loro per non morire, alzare la voce, alzare le braccia, farei cortei, ma per i motivi giusti, non per le scie chimiche, per i parcheggi in centro, per dare fuoco ai campi rom, ma per riprenderci quello che ci hanno tolto senza che nemmeno ce ne accorgessimo, lottare per le cose che abbiamo studiato, capito, condiviso, fare la rivoluzione vera, quella che non siamo mai stati capaci di fare dopo il Risorgimento, smettere di fare la guerra dell’ironia su Twitter, che non cambierà niente, un cazzo di niente, andare a menare le mani, se serve, smettere di sentirci dei falliti perché abbiamo deciso di amare questo paese di merda e di restare qui a salvarlo.

Nessuno ha più voglia di restare. Ma noi siamo qui.

Oggi è domani

Fallito anche l’ultimo strategico tentativo di risanamento dell’economia familiare (l’estrazione della Lotteria), l’esordio del 2014 sembrava non promettere nulla di buono.
L’ansia di dover pagare la mini-Imu con le relative mini-bestemmie, il recupero crediti dello già scarso guadagno del 2013, i chili di troppo che, anche in momenti di crisi, ti si azzeccano addosso durante le sante festività, la desolante sensazione di essere completamente senza un lavoro, dal momento che col conto alla rovescia della sera del 31 è terminata anche l’ultima collaborazione in essere.
Respira. Sei ancora viva.
Feste con gli amici, tanto vino recuperato nelle cantine di amici di amici e Dio benedica il Veneto!, panettoni già al 50% da metà dicembre e rendiamo grazie alla crisi. L’importante è comportarsi come se non fosse cambiato nulla. Fingere. Fottere la miseria millantando normalità.
L’abbonamento in palestra pagato in anticipo non permette distrazioni: correre, sudare, chiacchierare negli spogliatoi. Le sciure del pilates non sono andate in montagna quest’anno. Restano a casa a fare le nonne e a concedere una vacanza ai figli più precari.
C’è stato anche il mio compleanno.
Ho vinto il record di ingestione di cannoncini della pasticceria Panarello in un pomeriggio. Mi hanno scritto in tantissimi. Da tutti i lati del mondo. Quelli che guarda, dovevi venire anche tu a vivere qui all’estero, ma anni fa. Oh, adesso cominci a essere vecchia e non sai fare niente di cui ci sia bisogno all’estero. Tu fai cose inutili, scrivi, parli, chiacchieri sui social, recensisci, liveblogghi, presenzi.
Sei un chissene su un curriculum vitae.

Il nuovo libro accumula polvere nel mio cervello. Mica è facile. Prendere storie che ti sei tenuta nel cranio per mesi e poi tirarle fuori. Questa volta è quello che vuoi. Ma se non dovesse andare bene? Se alla fine fossi solo brava a fare quello che non ami?

Se non provi non lo saprai mai, è vero, ma forse a volte è meglio non sapere, non conoscere i propri limiti, vivere nell’illusione di poter essere migliore senza dover dimostrare di esserlo.

Al giorno 10 del mese di gennaio ti sale l’ansia. Il cuore galoppa, non chiudi occhio, non riesci a mangiare. La disoccupazione giovanile è al 41%, ma tu tiri un sospiro di sollievo: non sei più una giovane. La tua generazione, quella dei figli della Legge 30, quella dei precari senza vera flessibilità, quella dei camaleonti contrattuali, quella dei disperati a progetto, ha ormai accettato la realtà. Tireremo a campare per sempre. Continuando a versare contributi a una gestione separata dell’INPS che li usa per pagare le pensioni ai lavoratori più fortunati di noi e che non ci restituirà nulla, se non una serie di affettuosi calcinculo. Tireremo a campare ereditando le proprietà dei nostri genitori, se ci sono, o pagando per trent’anni rate di mutui esageramente ridicole, per appartamenti che si stanno svalutando come le mutande di Intimissimi sui culi cellulitici.
Il premier si dichiara ottimista. Bene. Tutti gli altri no. Tu compresa. Nel 2013 ci sono stati 2 milioni di disoccupati in più e questo – ahinoi – significa concorrenza nella disperazione.

Sono iniziati i saldi e ti sei accorta che non ti serve nulla. Non che non desideri nulla, perché tu vorresti tutto, i leggings leopardati, le scarpe con tacchi grossi, le giacche di pelle e borchie, le finte pellicce di finti animali per finte fescion blogghe. Vorresti tutto, ma non ti serve nulla. E risparmi soldi che comunque non avresti.
E leggi di scandali, di gente che ruba i tuoi soldi, di politici che politicano, di giornalisti che giornalano.
Per la prima volta, in tutta la tua vita, ti chiedi come sarebbe stato essere più furba. Come quelli che te l’hanno messa nel sedere in questi anni. Come sarebbe stato rubare, non pagare le tasse, andare a letto con uomini disgustosi per avere un buon posto e una buona rendita. Saresti stata davvero meno felice, perdendo la tua integrità? Quant’è sottile in Italia il confine tra onestà e coglionaggine?

Lunedì 13 gennaio ti scrivono che stanno per pagarti delle fatture in sospeso. Sorridi e apri il frigo e mangi cose a caso per festeggiare. Poi ti propongono un lavoro per cui non sei qualificata, ma ti dici che puoi sempre millantare. È un inizio. Le cose si mettono in moto, c’è di che essere fiduciosi. Dicono che dipenda anche dal karma. Milioni di italiani disperati a causa del karma di merda. Sarà, vuoi crederci. Volere e potere!
L’unica cosa che avresti dovuto fare nei giorni d’immobilità era scrivere.
Eri troppo disperata. L’unica disperazione che sai scrivere è quella sentimentale. Quella professionale non lo sai fare. L’avessi saputo fare saresti stata un’autrice fantastica. Puoi sempre imparare.
Ti sei detta “domani mi ci metto”.
Oggi è domani.
Doppia caffettiera e relativa tachicardia, veloce rassegna stampa, la consolante disperazione di non aver nulla da perdere.
È una condizione mentale. La disoccupazione ti fa perdere fiducia, che ti fa perdere energia, che ti fa perdere entusiasmo, che ti fa perdere carisma, che ti fa perdere occasioni. È tutto nella tua testa. Dicono.

Tanto. Non. Hai. Nulla. Da. Perdere.

Oggi è domani. E mal che vada, sarà dopodomani.

Inizio.
Metto su un altro caffè.
Non lo bevo, lo annuso soltanto.
Promesso.
Vado.

Quella volta che eravamo brava gente

Qualche anno fa avevo in progetto un lungo viaggio intorno al mondo, alla ricerca di connazionali immigrati di vecchia e nuova generazione, per fare un documentario che avrei chiamato “Italiani brava gente”.

Mi sarebbe piaciuto intervistarli, per sapere non solo perché si erano decisi a lasciare il Belpaese, ma anche cosa ne pensavano, cosa ricordavano, se il viaggio aveva aperto loro la mente, li aveva dotati del senso civico di cui in patria siamo totalmente privi, aveva dato loro un nuovo metro di giudizio sul “bene comune”. Se c’è qualcosa di italiano che ti resta attaccato addosso per sempre, un tempo come ora, oltre alla pasta, al parmigiano e alle camicie stirate da mammà per tutta la vita. Se abbiamo dei valori più forti perché cresciamo sotto l’ala ingombrante del Vaticano. Se il nostro attaccamento, spesso morboso, alla famiglia e la nostra espansiva gestione degli affetti ci rendano persone più tolleranti.

Ogni incontro con un italiano, in viaggio, è un momento di autoanalisi. Ci riconosciamo dall’aspetto esteriore, dagli immancabili occhiali da sole, dai vizi che detestiamo, ma di cui non riusciamo a fare a meno, dall’incapacità di adeguarci alle differenze culturali, dal bisogno di maccheroni, dalla fissazione (sacrosanta) per la pulizia, dal bisogno di fare shopping nelle catene della grossa distribuzione.

All’estero siamo più disciplinati perché ci accorgiamo che lo sono tutti gli altri, ma se percepiamo un malcostume lo facciamo subito nostro. Osserviamo le leggi degli altri come se fossero qualcosa di ineludibile, ma riteniamo che le nostre siano superflue, moleste, inutili, dannose. Siamo geneticamente portati alla scorciatoia, al disprezzo per le istituzioni. Nessuno ci ha mai spiegato che le tasse servono per pagare i servizi, che gli ospedali gratuiti, le strade, le scuole, gli asili, senza i soldi delle imposte non ci sarebbero. Quando funziona qualcosa in altri paesi è perché lì non ci sono “italiani ladri” e quando siamo a casa ci esercitiamo tutti alla furberia, perché la qualità che più apprezziamo in un essere umano è la scaltrezza.
Molti sono cervelli in fuga, quelli che hanno capito che la cultura è un valore aggiunto, che è un mezzo e anche un fine, che serve a renderti un essere umano migliore e non solo uno stipendio più alto. Sono quelli che trovano insopportabile l’idea di arrangiarsi con i “500 euro al mese che mi passa papà”, quelli che tanto il mondo è così piccolo che farsi una famiglia altrove è ormai come essere a casa.

La maggior parte apre la mente con il confronto e la distanza. Impara che non esiste una gerarchia naturale per cui il maschio è al di sopra della donna, che non “pare brutto”, se non ci si sposa in chiesa, che è del tutto lecito e naturale amare chi ti pare, anche fosse del tuo stesso sesso.

La maggior parte di quelli che si allontanano diventano ancora più brava gente.

Non tutti. Come non tutti sono demotivati, abbruttivi, incattiviti e intolleranti qui da noi.

Mi sarebbe piaciuto capire se è l’aria umida che si respira da troppo tempo qui a casa a renderci crudeli, a spingerci a idolatrare un politico ultrasettantenne che va con le ragazzine e a disprezzare un ragazzo che ama un altro ragazzo fino a fargli togliere la vita. Avrei voluto sapere se disimpariamo la civiltà perché siamo in guerra per il pane o se abbiamo sempre mascherato una nostra profonda ignoranza con le griffe che non possiamo nemmeno più permetterci all’outlet.

Volevo sapere se siamo un paese cattivo o solo un cattivo paese, perché nonostante il disprezzo che provo per molti di noi, nel leggere i titoli dei quotidiani, io penso ancora che possiamo essere migliori di così.

Non sono mai partita. Forse un giorno lo faccio. Nell’attesa, anche solo per farmi un favore, potremmo provare tutti a essere gente meglio, bravissima gente, italiani belli.

I signori delle mosche

Non so chi sia stato il primo a mettere in giro la bislacca idea che a quarant’anni tu sia “un giovane”.

Non che tu non possa sentirti un eterno pischello e andare a ballare ogni fine settimana e indossare pantaloni dal cavallo bassissimo con il boxer triste in bella vista. E se sei donna, puoi continuare a fingerti adolescente e indossare la minigonna, anche se le tue ginocchia stanno diventando rugose come lo sharpei di mia zia.

Non dipende dall’abito né dallo spirito. Siamo liberi di vivere da ragazzini, pur sembrando grotteschi, perché nessuno ci vieta di coltivare i nostri imbarazzi, nel terrore che Peter Pan non entri più dalla nostra finestra e non ci porti nell’Isola che non c’è (quando a me basterebbe anche solo che, da quella finestra, mi portasse una pizza d’asporto e il voltaren per il mal di schiena).

Possiamo sentirci ragazzi in eterno, ma – e mi duole dirvelo, rovinando il vostro pasto domenicale – non lo siamo.

Potremmo barare un po’, alzando l’asticella di un decennio, fingendo che l’adolescenza arrivi fino ai venticinque e i venticinque durino fino ai trentacinque. Ma lo sappiamo tutti che il tempo infame corre più veloce di noi e che, a un certo punto, bisognerà accettare l’evidenza.

Enrico Letta è nato nel 1966, undici anni prima che in Italia arrivasse la tv a colori. Quando il fucile ha spappolato il cranio di Kurt, lui aveva quasi trent’anni e non so se ha pianto come noi che abbiamo fatto le veglie al liceo, indossando le nostre camicie sudicie da boscaiolo e i capelli sporchi. Leggere Dylan Dog non ti rende ragazzo, ché sono 27 anni che compriamo i suoi albetti e se il tempo scorresse tra la carta, come nella vita, l’indagatore dell’incubo avrebbe sessant’anni e sarebbe così sfatto che nessuna delle figone che si porta a letto lo degnerebbe di uno sguardo. Sempre meglio dell’Ispettore Bloch, che se ne sarebbe andato già al creatore, senza nemmeno essersi goduto la pensione.

Non ho nulla contro i quasi cinquantenni e non ho nulla contro Carla Bruni che dice “sono tornata una cattiva ragazza” quando ha già soffiato 45 candeline.

Non ho nulla contro la gente che invecchia. Lo faccio anche io, sebbene preferirei evitarlo. E un tempo sono stata tra quelle giovani, la più giovane, nella compagnia teatrale, all’università, a lavoro. Poi smetti di essere giovane, anche se rimani il più giovane. Non è la stessa cosa.

Sono consapevole che la nostra classe politica è piena di cariatidi in via di decomposizione, per lo più sagge, meritevoli e autorevoli, eccetto una minoranza (a esser buoni) che avrebbe dovuto avere la decenza di tirare le cuoia da mo’. Un abbassamento dell’età media potrebbe riuscire a riportare la merda a un livello più basso, magari sotto le narici, così riusciamo a respirare.

Il punto è che non basta essere giovani. Avere qualche anno in meno non è una competenza. Non basta a consolarci, a darci l’idea che tutto vada meglio.

È che essere giovani non è soltanto una questione di spirito. Potrebbe esserlo e fa bene preservare l’entusiasmo e la speranza dei nostri vent’anni per sempre. Ma bisogna accettare di essere adulti, perché il rischio di fingersi giovani è l’alibi per essere imperfetti, per sbagliare, per stravolgere le poche cose buone che restano, per distruggere, senza poi ricostruire, per non ascoltare, per fare compromessi, pur di rimanere i più giovani attaccati alla poltrona. Perché poi, “i giovani”, hanno sempre i grandi dietro che danno indicazioni.

Il paese è pieno di giovani veri. Ragazzi e ragazze disimpegnati, emigranti, disoccupati e inoccupati. Molti con l’unico grande sogno di ballare/cantare/piangere nei reality, altri col desiderio di ottenere almeno un terzo di quello che i loro genitori hanno sudato, altri ancora inconsapevoli e inetti, con l’idea che nulla cambierà e tanto vale lasciarsi vivere.

Dopo mesi di attesa di cambiamento, ci propinano il solito compromesso schifoso. Particolarmente schifoso, perché mascherato da incredibile innovazione. È un esecutivo di giovani! È un esecutivo di donne!

Ben vengano. Alcuni nomi sono commoventi, altri rischiosi e tanti imbarazzanti.

C’è da chiedersi quando basti abbassare l’età e cambiare il genere per fare meno danni. Abbiamo fatto fuori i pupari che reggono i fili o abbiamo solo mandato avanti la fanteria a farsi maciullare per prima?

È bello sapere che esiste un ricambio generazionale, purché sia possibile cambiare davvero le cose. E a leggere tra le righe, mi sa che verremmo ancora una volta delusi.

Ecco, una cosa che hanno capito i giovani, quelli veri: l’unica cosa a cui puoi ambire è “il meno peggio”.

Mi dicono “diamogli fiducia, non abbiamo nulla da perdere. Almeno sono più giovani”.

I naufraghi del Signore delle Mosche erano tutti ragazzini e il loro governo è finito a schifio.

Ma io sono cinica e disillusa. Forse non sono la persona giusta per comunicare entusiasmo. Forse sarei stata comunque insoddisfatta. Mi consola il fatto che sono ancora così giovane da poter migliorare.

 

P.s. mentre stavo per pubblicare il post, alcuni folli hanno sparato sulla folla, fuori da Palazzo Chigi, ferendo due carabinieri. Non abbiamo bisogno di criminali per tornare così tanto indietro. Noi abbiamo un disperato bisogno di andare avanti.

Dodici giorni di pagina bianca

Eravamo tutti occupati a capire come sarebbe andata a finire. La politica era il primo argomento, al bar, in palestra, a cena, a lavoro, in treno, al telefono, al cesso, a letto.

Un’infinita soap opera, ogni giorno un colpo di scena. Come quando scrivi romanzi rosa, in cui hai bisogno di continui mutamenti e sorprese. Che poi sono sempre amarsi/non amarsi, mettersi/lasciarsi, piangere/stare bene, tradirsi/perdonarsi, allontanarsi/ritrovarsi.

La vita, insomma. E la politica.

A furia di aspettare, abbiamo perso la cognizione del tempo. Che giorno è? Quando abbiamo iniziato ad aspettare? Quando finiremo, decideremo, andremo avanti?

Giorni fa ho finito i maledetti colpi di scena. Fisso la pagina bianca da dodici giorni. Dodici. Non ce la farò mai.

Mi dici che è colpa mia, ho perso tempo. Il tempo non lo perdi, non è un mazzo di chiavi che ti cade dalla tasca. Il tempo lo consumi, a volte lo sprechi, altre volte lo vivi, ma non capita quasi mai quando vorresti.

Dici ti amo, ma non possiamo stare insieme e non possiamo vivere separati. Non possiamo andare avanti, non possiamo tornare indietro. È un gran casino. Tu – mi dici – hai combinato un gran casino. E non chiedermi perché. Non me l’aspettavo che andasse così.

Dodici giorni di pagina bianca, due mesi senza governo, sette anni di nuovo vecchio Presidente.

Siamo fuori tempo massimo. È troppo tardi e quando la scadenza arriva sei fottuto. E se sei Superman, fai girare al contrario il mondo e torni indietro nel tempo. Torni indietro anche se hai una DeLorean. Io non ce l’ho una DeLorean. Ho un Sì Piaggio immatricolato nel 1992. Ancora funzionante. La miscela era al 2%. Adesso devi fartela tu da solo. Non ci torna indietro quel Sì, ci ho provato. Fa al massimo 35 km/h, se lo tiri a manetta e ti metti in posizione aerodinamica.

È meglio se non mi muovo e resto qui. Aspetto il colpo di scena. Tanto oggi a Milano piove e a Roma si dimettono tutti e ho comprato le nespole e, se ho davvero perso tempo, lo vado a cercare in qualche cassetto.

La generazione dello speriamo

“Siamo la generazione dello speriamo”, ci siamo dette un paio di sere fa io e la mia coinquilina, mentre consumavamo una delle nostre cene improvvisate davanti al solito telegiornale apocalittico.

Le nostre non sono speranze allegre e motivanti, così normali da giovani e così appaganti da vecchi. Il nostro speriamo nasconde fatica, frustrazioni, terrore per il futuro e un enorme dispendio di energie.

L’Italia non è mai stato un Paese meritocratico e non ne ha mai fatto mistero. Importa molto poco il talento. Quello che ha davvero valore è il cognome. Eppure siamo riusciti ad andare avanti senza estinguerci (forse nostro malgrado) e a costruire qualcosa che sembra progresso e, molto raramente, sembra anche democrazia.

Per quelli come noi, nati alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80, c’è stata anche la sfiga generazionale. Siamo entrati nel mercato del lavoro quando stava cambiando, sgretolando certezze e condannandoci a effimeri spiragli di normalità professionale che la storia ha bollato come precariato.

È vero, e lo sosterrò fino alla morte (che mi travolgerà precoce per l’ansia da mutuo), che la rivendicazione di un diritto al lavoro non deve essere alibi per mascherare incompetenza, inadeguatezza e pigrizia. Non tutti siamo bravi, non tutti siamo all’altezza, non tutti ci facciamo davvero il mazzo e meritiamo di poter progettare un futuro. La crisi aumenta la competitività e dovrebbe fare emergere talenti.

Dovrebbe.

Purtroppo non ci riesce sempre, perché qualsiasi talenti e idee hanno bisogno di un fazzoletto di terra per essere piantati, curati e lasciati crescere. Un piccolo capitale da investire, un mecenate, un’occasione, un contatto, un’università prestigiosa pagata dai genitori, la casa di tua zia presa in affitto per due lire. Esistono persone che si sono fatte da sole, ma la maggior parte ha iniziato a navigare nel grande mare delle professioni aggrappata a un piccolo salvagente che aveva in dotazione.

E comunque non siamo giustificati, quando ci lamentiamo senza dare il massimo, quando ci rassegniamo e smettiamo di cercare, quando pur di rimanere nello stesso quartiere in cui siamo nati, rinunciamo a possibilità di lavoro più lontane.

Nella giungla, se ti fermi troppo tempo sotto a un albero ad aspettare che la frutta ti cada in mano, rischi di essere sbranato dai ghepardi o, se ti va di lusso, che le scimmie ti usino come toilette.

Chi si ferma è perduto, ragazzi! Celacrisi, celacrisi, celacrisi!

Detto questo, però, non raccontiamoci balle. Anche quando diamo il meglio e siamo bravi e non molliamo e rischiamo e abbiamo coraggio e non tentenniamo, finiamo a guardare il calendario sul nostro computer, a contare i giorni che ci separano alla fine del mese e a dire speriamo.

Nell’ultimo periodo, mi sono ritrovata a sopravvivere facendo solo cose che mi piacciono. Dopo anni e anni di frustranti lavori svolti, anche con entusiasmo, solo in funzione dello stipendio, inizio a occupare il mio tempo facendo cose molto vicine a quelle che avrei voluto fare da grande.

Va bene, certo, non mi ci mantengo ancora, ma spero di farlo molto presto (e lo spera anche la mia commercialista, che passa il tempo a tirarmi le orecchie per la mia incapacità non di essere libera, ma di essere professionista).

Quando mi dicono eh, però hai avuto fortuna, avrei voglia di saccheggiare tribù e radere al suolo villaggi. La fortuna è quella di Gastone Paperone, che si china ad allacciare la ghetta e trova un portafogli colmo di dollari. La fortuna è quella della ragazza della porta accanto che accompagna l’amica a un casting e viene scelta come testimonial planetaria di una campagna pubblicitaria fichissima (NdR storia che, tra l’altro, fa parte della mitologia di quasi tutte le top model, pensaunpo’).

La fortuna è quando a prescindere da merito, impegno, fatica, dolori, lacrime, porte in faccia, le faremo sapere, ti viene dato qualcosa.

In pochissimi hanno davvero fortuna e, tra questi pochissimi, non ci siamo né io né te.

Siamo una generazione fondata sullo speriamo. In questi giorni speriamo addirittura che ci diano un governo che finalmente possa indicarci come continuare a morire ammazzati. Speriamo e stiamo invecchiando. Facciamo progetti sperando, conviviamo sperando, figliamo sperando.

La sola consolazione è che abbiamo imparato la leggerezza e che, mai come ora, l’ironia sembra essere epidemica.

Dicono che toccato il fondo, si inizi a risalire.

Speriamo.

Speriamo.

Chi vive sperando, muore cagando! Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941.

Ma per fortuna o purtroppo lo sono

All’età di circa dieci anni, in una di quelle estati nelle quali i miei fratelli e io venivamo spediti in Olanda da mio padre, ho letto il libro Cuore. E ho pianto.

In una tournée teatrale a Utrecht, con i miei compagni di teatro, tutti appena maggiorenni, abbiamo improvvisato un concerto al ristorante cantando e suonando Paolo Conte, commuovendoci con Azzurro.

Nei miei anni parigini, il proprietario del ristorante in cui facevo la giovane camerierina mi chiedeva sempre “un vrai espresso italiano, s’il te plaît!”.

Al Cairo, ho passato una notte al Fishawi, con un giornalista svedese e un attivista egiziano, fumando shisha e parlando degli anni di piombo.

Una suora, ad Aleppo, mi ha chiesto se avevo mai incontrato di persona il Papa.

A San Pietroburgo, in una komunalka di amici, ho cucinato pasta per tutti in un bollitore per il tè.

Al matrimonio di mio fratello, in Bolivia, ci hanno chiesto di ballare la tarantella.

In un locale gay di Buenos Aires ho cantato una canzone di Laura Pausini perché volevano sentire le parole in italiano (sì, conosco a memoria La solitudine e non riesco a rimuoverla dalla testa).

Sono scappata molte volte e sono sempre ritornata.

Sono una cittadina del mondo e non so fare altro che essere italiana.

Mi vergogno quando disprezzo il mio paese e mi vergogno quando amo il mio paese. Questo è essere italiani.

Però la festa di oggi mi piace, mi piace pensare al risorgimento, mi piace sentirmi una carbonara, mi piace pensare che, nonostante i leghisti, i mafiosi, i qualunquisti, i fascisti, i berlusconiani e gli interisti, siamo un paese unito, di brava gente.

E poi, Gaber l’ha già detto molto meglio di me.

150 anni e non sentirli

Domenica 13 marzo, dalle 11 alle 13, sarò all’Unità a parlare di Unità (eh) d’Italia vista dal web, insieme un tavolata di prestigiosi blogger, fortunatamente più autorevoli di me.

Rappresenterò quella parte della rete che vuole costruire un paese migliore con il disimpegno perché, va bene, the revolution will not be televised, però anche il web ci rende pigri nell’essere italiani, che basta stare sul pezzo per essere presenti, che ritwitto tutto, ma non vado alla manifestazione perché ho le partite su mediaset premium, ma seguo la diretta streaming, che guardo Saviano e Fazio allora sto partecipando al nuovo risorgimento, che sono a favore della festa il 17 marzo, ché l’Unità d’Italia è sacra, però un euro agli alluvionati del Veneto no, perché a loro fa comodo fare i leghisti federalisti quando serve, che apro gruppi su Facebook per salvare la costituzione, ma non la conosco, ma se un giorno dovesse servirmi la gùgolo, che il mio paese lo difendo fino alla fine e scrivo e leggo e scrivo e leggo e scrivo, però non voto, perché è tutto un magnamagna.

Potrete seguire la diretta in streaming sul sito dell’Unità e su twitter e su facebook e mandarci le vostre considerazioni o domande a unisciti@unita.it.

Per grazia di Dio e volontà della nazione.

Se non ora, quando?

Oggi pomeriggio andrò a manifestare anch’io, insieme a tante altre donne che chiedono più dignità.

Non lo faccio perché credo che cambi le cose, non lo faccio perché mi aspetto che scendere in piazza sensibilizzi, non lo faccio perché ho smesso di essere cinica e ho iniziato a credere davvero in un cambiamento possibile.

Lo faccio perché -e mi si perdoni la metafora poco femminile- mi sono rotta i coglioni!

Me li sono così fracassati che ho bisogno di uscire, marciare, gridare, stare con gente stufa quanto me, non sentirmi sola, non sentirmi cretina per essere così inadeguata in questo paese, non sentirmi sempre incazzata, non sentirmi sempre una donna fuori luogo, non dover sempre spiegare la differenza tra libertà e mercimonio, tra indignazione e frustrazione.

Manifesterò per il motivo meno nobile e non sono nemmeno convinta che una manifestazione del genere sia qualcosa di positivo.

Però camminare e urlare non ha mai fatto male a nessuna.

E poi fa dimagrire.