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Il DNA della procrastinazione

Sono un’amante della procrastinazione.
Credo che tutto quello che può essere fatto domani, senza o con poco danno, non meriti di essere sbrigato oggi. Mi piace passare il tempo a sentirmi in colpa per le iniziative che non prendo, per i lavori che non finisco, per le pagine che non scrivo. Salvo poi recuperare tutto sotto scadenza, ridurmi all’ultimo minuto, cuore in gola, per accorciare le distanze.
Si nasce procrastinatori, è nel nostro DNA.
Quelli come me, che spostano sempre un po’ più in là la fine temporale di qualsiasi evento, non potrebbero mai vivere iniziando subito, adesso, in fretta, quello che necessita di lunga, inutile e pigra pianificazione.

L’altro ieri, dopo aver – appunto – procrastinato per quasi due mesi, ho deciso di portare il mio vecchio e fidato iPhone 4S in un centro di riparazioni cinesi, per risolvere un paio di problemi che cominciavano a renderlo utile come una piastrella del bagno. E visto che avevo rimandato di ora in ora il mio rituale appuntamento con la palestra, mi sono detta che avrei potuto unire l’utile al dilettevole, arrivando a piedi in Via Paolo Sarpi.
C’era il sole, l’aria fresca e Milano era bella, quella bellezza intima, che vedi perché ami questa città, te la sei scelta, hai capito che è più tollerante di tutte le città italiane in cui hai vissuto, compresa quella in cui sei nata.
Ho camminato per cinque chilometri, con la testa al contacalorie bastardo che da una settimana mi ricorda che i vizi di gola si pagano, come quelli di gioco. Ho camminato tanto, ascoltando la musica, scoprendo luoghi e locali che non avevo mai visto, annotandoli nella mia mappa interiore e poi sono entrata nel bugigattolo che amo, quello in cui risolvono i tuoi problemi in fretta e a poco prezzo, gli ho lasciato il telefono e il nome e mi hanno chiesto di passare a ritirare tutto dopo un’ora. E io ho pensato “che bello, un’ora intera di passeggio per la splendida Chinatown. Un’ora per guardare vetrine, osservare la gente, rilassarmi”.
Dopo essermi allontanata di pochi passi dal negozio, ho istintivamente toccato la tasca del parka in cui tengo sempre il telefono e ho avuto un sussulto.
Era vuota.
Era ovviamente vuota perché avevo appena lasciato l’iCoso in assistenza, ma era incredibilmente vuota di senso. Che ore erano? Come facevo a sapere quando sarebbero passati sessanta minuti, se l’unico orologio è sul telefono? Cosa avrei fatto in quel frammento improvvisamente lungo senza Twitter, Facebook, Whatsapp? Che scopo aveva passeggiare in una Milano benedetta dal sole se non potevo fotografarla e postarla su Instagram?
Mi capita spesso di spegnere il telefono, soprattutto quando scrivo, perché i social network sono i nemici della scrittura, ti rubano il tempo, ti fregano l’attenzione. Spengo il telefono quando sono in viaggio, quando sono in palestra, quando sono triste e non voglio parlare. Ma l’ho sempre con me. Ho sempre la sua rassicurante presenza fisica, come se fosse un organo che posso non usare per lungo tempo, ma che devo avere vicino perché mi serve per vivere. Un po’ come il cuore.
Ero nuda, senza il mio mondo amplificato, in un posto che amo e che mi è sembrato improvvisamente misterioso, difficile, sconosciuto.
Per un paio di minuti mi sono sentita frastornata. Poi ho continuato a passeggiare, ho notato un orologio su un palo e ho annotato mentalmente l’ora, ho cominciato a muovermi con passo inspiegabilmente veloce, ho sbirciato le scarpe esposte in un paio di negozi, comprato della frutta, guardato la gente indaffarata che sembrava sapere esattamente cosa fare e non dover aspettare, come me, un’ora incredibilmente lunga, seppur breve, per riavere in mano il mio piccolo mondo.
Siccome il tempo che ogni giorno corre, mi sfugge via, si esaurisce troppo in fretta, quel pomeriggio sembrava non scorrere mai, per ingannare l’attesa mi sono seduta al tavolino di un bar, ho preso uno, poi due caffè, ho tirato fuori dalla borsa un libro, ho iniziato a leggere. E allora tutto è tornato al proprio posto, l’ansia dell’irreperibilità svanita, la stanchezza per la camminata alleviata, il terrore delle scadenze evaporato, il fastidio di non poter scrivere a tutto il mondo “sono seduta a un bar a leggere” dissolto.

Le storie belle, che leggi, che guardi, che ascolti sono lo strumento più potente per superare la paura del tempo, la paura della solitudine, la paura del vuoto di senso. E non c’è nulla di sbagliato o spaventoso nello scendere qualche istante dalla giostra del mondo che gira troppo velocemente e prendersi una pausa, facendo qualcosa che ti fa stare bene.

La luce è calata quasi di colpo. Ero seduta al tavolino da forse troppo tempo. Quando sono tornata nel negozio c’era molta coda al bancone. Il telefono era stato riparato. Ha anche una batteria nuova, che dura più delle due ore della precedente. L’ho preso e l’ho rimesso in tasca, cercando di dimenticarmene mentre andavo verso la fermata del tram. Ma quando sono entrata nel mezzo e mi sono seduta, l’ho tirato fuori e, con una sottile punta di delusione, ho capito che il mondo aveva girato lo stesso senza che io partecipassi a tutto, senza che fossi connessa per un paio di ore.
Sono arrivata a casa, mi sono accorta di aver passato tutta la giornata, un’altra, senza scrivere nulla, ho segnato in agenda un’altra virtuale scadenza nella scadenza per rimettermi in riga, ho nutrito il gatto, guardato fuori dalla finestra la notte che arriva sempre un po’ più tardi, ho ritirato il libro fuori dalla borsa, tolto la suoneria e ho continuato a leggere fino all’ultima pagina.