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Le frasi sul mestiere di scrittore che mi fanno schiumare di rabbia

(Considerato il grande successo, riporto anche qui il post sul mestiere di scrivere scritto oggi su Facebook, affinché non si perda per sempre nella serendipity zuckembergiana).

Le frasi sul mio lavoro che mi fanno schiumare di rabbia:

Ma tanto puoi scrivere ovunque, basta portarti dietro il computer!
No, perché, come per tutti i mestieri, hai bisogno di uno spazio dedicato, comodo, confortevole e silenzioso. E soprattutto che conosci e in cui ti senti a tuo agio. Non so scrivere sul divano di mia zia, nel baretto sotto casa o sul charter per Fortaleza. Io scrivo al mio tavolo di lavoro, nel silenzio.

– Ma se scrivi 10 ore al giorno, in una settimana hai finito il libro.
Se scrivi 10 ore al giorno, la maggior parte delle pagine sarà ahdjaduhaihdafuehnandahehakdnahdajdfhehifhfjhakdha perché l’attenzione creativa non dura per ore (dicono che oltre i 45 minuti hai bisogno di un break). Devi fare spesso pause, a volte fissi il foglio per un pomeriggio senza scrivere nulla, altre passi notti senza alzare mai le mani dalla tastiera. Se ci fosse una regola fissa ore di scrittura/pagine scritte, saremmo tutti Dostoevskij.

– Ma scusa, non ti dicono loro che storia devi scrivere?
Loro chi? Gli alieni? Gli spiriti? I Marò? Le storie sono una mia invenzione e sono l’80% del lavoro di uno scrittore. Come e cosa racconti vanno di pari passo e non importa se sono storie autobiografiche, storiche, inventate o rielaborate. Dovrebbero essere tue. Anche perché, che interesse avrebbe un editore a far pubblicare chi non ha niente da raccontare? Sarebbe un folle a inventare TUTTI i soggetti dei libri che pubblica. Oppure sarebbe un genio.

– Va be’, ma quest’anno hai scritto solo per tre/quattro mesi, il resto del tempo non hai fatto un cazzo.
Leggere, prendere appunti, viaggiare, parlare con la gente, intervistare, andare al cinema, studiare sceneggiature, discutere con editor ed editori, leggere ancora e poi leggere ancora fanno parte del lavoro. Una grande parte del lavoro. Poi ci sono quelli che scrivono una pagina al giorno, ogni giorno per tutto l’anno e gli altri, come me, che si chiudono in casa e in un mese e mezzo sfornano il libro, perché sanno mettere su carta tutto quello pensato e immaginato solo sotto pressione.

-Che significa che hai “il blocco”? Tu comincia e scrivere e poi la storia viene.
Sei un cretino.

-Ma si guadagna a scrivere libri?
Una volta per tutte e definitiva: non si guadagna a scrivere libri. Si guadagna a venderli. E su quello nessuno può esserne certo. Non è un modo per arricchirsi, a patto di non essere bravissimo o fortunatissimo. È un modo per vivere una vita bellissima, anche, magari, facendo la fame.

Anche io leggo perché

Oggi, 23 aprile, è la Giornata Mondiale del Libro e del diritto d’autore, un momento da dedicare ai nostri migliori amici di carta (e non) senza sentirci pelandroni, snob o fuori dal mondo.

Io leggo moltissimo, tutti i giorni, con avidità e con tenacia, nel silenzio. Dopo una vita passata a sognare un’esistenza diversa e a rintanarmi nella pagine dei romanzi quando tutto era solo “tirare a campare”, i libri sono diventati il mio mestiere e ho la fortuna di poter leggere per lavoro, che – vi assicuro – è molto più gratificante di scrivere per lavoro.
Sono giorni di vita intensa e di mirabolanti avventure, anche se spesso non mi alzo dal divano, e vorrei poterlo condividere con tutte le persone che amo, chiamarle al telefono per raccontare loro storie incredibili, condividere la speranza che duri per sempre e ascoltare quello che hanno letto, prendere appunti, correre in libreria a cercare i titoli suggeriti.
Sono circondata da mangialibri di ogni tipo, che fanno ogni genere di mestiere, che hanno gusti simili ai miei o diversissimi.  Eppure moltissimi nostri connazionali non leggono. Per pigrizia, disinteresse, per carenza di stimoli. A molti non è mai stato spiegato che sfogliare un libro significa attraversare un mondo diverso, emozionante e sconosciuto, ad altri è stato detto che solo alcuni libri sono da leggere, perchélascuolalaclassificaFabioFazio, ed è stato spento in loro qualsiasi entusiasmo. Ad altri ancora è stato fatto credere che leggere sia uno spreco di tempo, tolto alla televisione, agli aperitivi, al Facebook e a tutto il resto.
Perché leggere, quando puoi fare altro?

Un po’ come lo splendido Troisi che spiega perché non legge durante il suo viaggio in treno nelle Le vie del Signore sono finite.

È vero che leggere richiede tempo, richiede spazio, richiede voglia. Restituisce, però, spazi emotivi immensi, tempi interiori infiniti, desiderio di vivere. E non c’è alibi di crisi che tenga: i libri si possono trovare gratis nelle biblioteche, si possono prestare, si possono sfogliare, una pagina al giorno, mentre si va in tram a lavoro. Nei lunghi anni in cui ho fatto da pendolare tra Padova e Venezia ho letto moltissimo, così appassionatamente da dimenticare (quasi sempre) l’odore cattivo dei vagoni, i ritardi, la folla stanca e arrabbiata che viaggiava con me.

Non credo che sia obbligatorio leggere libri. Non è qualcosa da fare per forza. Si può vivere senza, continuare a respirare, lavorare, mangiare, dormire. Sono però convinta che non farlo sia un’occasione sprecata, una perdita, un peccato. Un po’ come passare una vita senza conoscere il vero amore, come crescere senza abbracci, come stare sempre a dieta e non concedersi mai mai mai una porzione di Tiramisù.
Si può vivere senza libri, anche cent’anni, ma è la qualità della vita a essere diversa. Diversa.

Stasera, in alcune città, si terranno gli eventi conclusivi della manifestazione Io leggo perché che negli ultimi mesi ha coinvolto associazioni, scrittori, lettori, radio e televisioni. Sul sito dell’evento potete trovare il calendario degli appuntamenti.
Io sarò, insieme ad altre decine e decine di scrittori, tra il pubblico della diretta di RaiTre. Presenta Pierfrancesco Favino. Ripeto per le amiche: PIERFRANCESCO FAVINO sarà a pochi metri dalla mia bava.

Adesso capite perché leggere è una cosa meravigliosa?

Io leggo perché

P.s. a differenza di molti, preferisco non suggerirvi titoli di libri da leggere. Ho gusti piuttosto personali e non sempre incontrano quelli dei miei amici. Vi invito, però, a fare il giro in qualche bella libreria indipendente (quelle poche che restano) e a chiacchierare con i librai. Sono persone piene di idee e suggerimenti e amano il loro lavoro “di frontiera”. Non ve ne pentirete.

Il futuro è un posto meraviglioso

Sono in vacanza.

Non ferie, vacanza, perché noi liberi professionisti ci ritagliamo il riposo quando abbiamo poco o niente da fatturare.

Ho passato nove mesi a lavorare ininterrottamente, anche nei fine settimana, ed è una cosa bella, anche se faticosa, perché oltre a bollette e mutuoaffitto pagato, ho anche avuto l’illusione che la crisi stesse per sparire. D’estate mi sono chiusa in casa a scrivere. Tutto agosto a Milano, da sola, rintanata nel mio appartamento silenzioso insieme al gatto. Ho scritto un romanzo, un racconto e tre proposte per nuovi libri. Ho fatto pace con le parole e adesso mi sembra di averne tantissime da usare e troppe storie da raccontare. Consegnato il libro nuovo, chiuse un paio di collaborazioni, sono in vacanza.

Parto in viaggio, a visitare posti belli, prendere appunti, buttare giù soggetti, abbozzare capitoli, salutare gli amici.
Da grande mi piacerebbe fare questo: viaggiare, scrivere, leggere, fotografare, mangiare, chiacchierare.
Piacerebbe a tutti, certo, ma io ci credo davvero che possa diventare un lavoro. Forse non l’unico, ma – diciamo – il principale. Dopo aver fatto tanto, atteso, sperato, rischiato, perso spesso e raramente vinto, dopo aver faticato, elemosinato il mio dovuto e tenuto la testa bassa per portare a casa la pagnotta, credo che sia giunto il momento di sognare a occhi aperti e voce alta e di puntare il più in alto possibile.
E se non dovessi farcela, posso sempre rimettermi a fare quello che faccio da una vita intera: la simpatica precaria che, nonostante tutto, crede ancora che il futuro sia un posto meraviglioso.

Ci vediamo presto.

Ansia da partecipazione

Dopo aver  consegnato l’ultimo racconto e aver visto le vetrine col librozzo con la copertina a cuore e aver fatto la dedica a mia madre e mia cugina, mi ero ripromessa di mettermi a scrivere un po’ “per me”.

Al momento non lavoro e l’estate fa meno male, perché tutti stanno per andare in vacanza e l’ansia per le bollette si attenua e pensi anche tu che a settembre andrà tutto meglio, pulluleranno contratti, chiamate, strette di mano, gettoni presenza.

Ho pensato riprendo il blog, torno a scrivere sull’Unità.it, scrivo tutte le cose che non ho avuto il tempo di scrivere e commentare durante l’anno, tutte le cose che mi passavano in testa mentre leggevo i giornali, guardavo la tv, viaggiavo, parlavo, bevevo l’aperitivo.

E poi non l’ho fatto. Non ci sono riuscita.

Ogni mattina aprivo un post bianco di questo vecchio blog e provavo a mettere in riga le parole ammassate dentro. E niente. Non mi andava.

Proprio non avevo voglia.

Sono andata ad allenarmi tutti i giorni in palestra e a prendere il sole sul solarium (che è un tetto in centro a Milano, con lettini e docce, e fa un caldo pazzesco, però ti abbronzi che nemmeno a Formentera, perché è come infilarsi in un forno), a camminare, chilometri e chilometri, a fare la spesa, a leggere, a morire di serie tv e film, a guardare i saldi senza comprare quasi nulla, a prendere treni per andare a Padova a fotografare la casa da mettere in vendita.

Non sono riuscita a scrivere nulla. Non ne sentivo il bisogno. E se non senti il bisogno di comunicare allora – senti a me – è meglio che non scrivi.

I primi giorni di silenzio mi sono sentita in colpa. Hai notato che, ormai, se non hai letto i titoli dei quotidiani online in tempo, ti senti in colpa? Se buchi una news su twitter, sei fuori dal mondo? Se nasce il Royal Baby e tu eri in bagno e non hai aggiornato-retweettato-instagrammato-tumblerato in tempo, nessuno ti vorrà più bene?

Non ha più importanza la tua vera partecipazione emotiva, ha importanza la tua partecipazione sociale. Mastichiamo informazioni su informazioni e siamo coinvolti così intensamente per quella manciata di minuti da farci sentire davvero parte della storia. Fino a quando arriva la nuova Ansa e si ricomincia. Se non sei infilato fino al collo nella conversazione su qualsiasi argomento hic et nunc, pur non sapendone nulla, pur attingendo informazioni dalle fonti meno attendibili, pur condividendo i post sgrammaticati di tua zia su FB che ha un’amica che ha un cugino che ha un nipote che ha un amico che sa, sei una persona spregevole.

E non importa quanto tu sia realmente impegnato civicamente, quale sia il tuo grado di cultura o sensibilità, quanto tu sia ignorante o attento. Non partecipare a questa sbronza di informazioni ti fa sentire fuori dal mondo.

Ma dura solo un paio di giorni. Un paio di giorni in cui ti sforzi di non trasformare ogni notizia di cronaca in una polemica e ogni notizia politica in una battuta su twitter (non avrei mai creduto di arrivare a detestare l’abuso di senso dell’umorismo. Un Paese di battutisti mediocri è terrificante come un Paese di politici mediocri).

Dopo due giorni passa la crisi d’astinenza e non sei più schiavo del commento compulsivo.

Ho letto il giornale tutte le mattine e sfogliato riviste e guardato programmi d’approfondimento e mi sono fatta le mie idee e non ho ritenuto di condividerle con nessuno a suon di commenti sempre più aggressivi e di sempre più millantata competenza su qualsiasi argomento. Ho parlato con gli amici e usato sempre meno il mio iPhone. Mai più quando sono a tavola. Mai più mentre mi parli e mi guardi negli occhi. Mai più sempre acceso. Mai più controllato in continuazione (a parte – ça va sans dire – quando si ripristinano le vite in Candy Crush).

Ho fatto una detox da social media e ho capito che il 70% delle cose che avrei voluto dire non erano affatto necessarie.

Milano è bella in questi giorni, perché è deserta e silenziosa. Peccato che faccia così caldo che è impossibile uscire a godersela.

Devo consegnare un lavoro per fine agosto e non ho ancora scritto una riga.

Controllo le news sul Corriere e poi mi apro una birra e mi stendo sul divano e non twitto et voilà.

L’umidità

Quelle giornate in cui il cielo è bianco vorresti soltanto rimanere a letto e rigirarti tra le lenzuola e non aprire gli occhi, fino a quando non fanno male i muscoli o devi fare la pipì, e restare fermo, nel dormiveglia, a pensare e sognare, sognare e pensare.

Quelle giornate umide e grigie, come oggi, come forse l’altro ieri, non sono fatte per vivere, sono fatte per resistere, sono fatte per escogitare una fuga, sono fatte per sopravvivere.

Così cammino poco, leggo, scrivo, però lascio a metà le frasi, rileggo dieci volte le e-mail prima di spedirle, prendo il telefono, provo a chiamarti, poi prima del primo squillo metto giù. Ti chiamo dopo. Anzi ti scrivo.

È umido. Il gatto dorme da ore. Ho rotto quella regola che mi ero imposta di non bere più caffè il pomeriggio, dopo le sei.

Ascolto una canzone, ma la interrompo a metà. Preferisco il silenzio, oggi. E il rumore lontano della strada che entra dalla mia finestra al quinto piano.

È umido. Ho i capelli gonfi. Tu non rispondi. Ti scrivo ancora. Poi conto fino a cento. Poi ti chiamo. Faccio solo tre squilli. Se non rispondi metto giù. Se rispondi, ti dico che mi manchi.

E poi aspetto che faccia buio buio, chiudo la finestra, accendo la TV e guardo e penso e mi addormento sul divano, senza dire una parola.

Scrivo tanto

In questi giorni scrivo così tanto che potrei quasi iniziare a dire a che è un lavoro, mentre il lavoro è un po’ vago, appare, scompare, viene pagato a 90 giorni, non viene pagato nemmeno dopo 120 giorni.

Ho chiuso dei progetti per iniziarne altri e sono stata molto concentrata a modificare la mia vita.

Poi sono successe cose, stragi, terremoti e tutto quello che ho mi è sembrato piccolo, così poco solido, così fragile.

Sono molto stanca, ma è una stanchezza condivisa. Sono gli entusiasmi esauriti di una generazione che ha capito, purtroppo, che il meglio è già alle spalle. Sono stanca e resto a galla e non è facile non affogare. Ma sopravviviamo, ci arrangiamo, teniamo duro. Beviamo caffè, la sera continuiamo con il nostro bicchiere di vino, siamo sempre pronti a trasformarci ancora, a partire, a cambiare vita.

Scrivo così tanto che non ho il tempo per parlare con nessuno. Però mi concedo qualche ora di pausa. Passeggio nell’estate precoce e penso, penso, penso.

Un giorno tutto andrà come deve andare e se non succederà daremo la colpa al destino.

Non ci resta altro da fare che continuare a vivere, bere caffè, fare l’amore, ridere, spendere i soldi che abbiamo, sperare ne arrivino altri, ridere ancora, avere fiducia, non avere paura.

Tra cinque minuti

Scrivo poco perché non ho più patimenti, non ho messaggi da lanciare, non ho voglia, aspetto la primavera, dovrei pulire casa e perdo tempo, dovrei consegnare quel progetto e guarda, c’è un programma inutile alla TV! Adesso lo guardo e procrastino, non sono più innamorata, non sono ancora innamorata, non so cosa dire, se lo dico non mi viene bene, non ho tempo, perdo un sacco di tempo, devo lavorare, c’è troppo lavoro, c’è poco lavoro allora lo cerco, ho l’ansia per i debiti, mi trascuro, prenoto il parrucchiere, prenoto l’estetista, aspetto la fashion week, leggo, leggo, guardo film, bevo tre moka di caffè al giorno, mi metto a dieta, mi dimentico di essere a dieta, vado in palestra, mi stanco, mi lavo i capelli e perdo tempo a stirarli, non sono felice, non sono triste, non sono molto, aspetto.

Scrivo poco, non è un dramma. È molto peggio non pulire casa. Adesso vado, davvero. Tra cinque minuti vado.

Le più belle

Quelle volte che scrivo di notte lo faccio in modo che nessuno mi legga o senta. Le volte che scrivo di notte poi cancello tutto e vado a dormire e riscrivo tutto nella testa e poi nei sogni ed è sempre pieno di frasi belle, frasi bellissime che a scriverle davvero non vengono mai fuori così bene, con tutta la vita dentro.

Quelle volte che scrivo di notte penso agli amori finiti e penso ai viaggi e a Venezia, alle calli notturne, a Parigi, al Marais, penso a quell’amica che amavo tanto e che poi è partita per l’Africa, penso ai pensieri e i pensieri sono pesanti, ma lisci, non li sollevi, li fai solo scivolare un po’ più in là, ti fai solo un po’ di spazio, non li elimini, non li sopprimi.

Quelle volte che scrivo di notte guardo il gatto e il gatto sembra dirmi lascia perdere, hai già il cuore a brandelli e quelle occhiaie scure, hai già usato tutte le parole e non sono servite, fai come me, che sogno tutto il giorno, arrotolato sul divano, dormendo un sonno giusto e sazio, dimenticandomi di ciò che non è stato.

Quelle volte che scrivo di notte parlo col gatto e poi con me stessa, ma a bassa voce, sentendomi appena, buttando giù parole che non fanno stare bene, ma nemmeno male, che sono solo trama che ordisco per terminare la tela.

È passato un anno esatto da quando mi sono esplose le parole. Le ho usate per riempire tutti i silenzi, i miei, i tuoi, i suoi. Di notte ne ho cancellate centinaia. Le ho riscritte nella testa. Sono le parole che non leggerà nessuno. Peccato. Secondo me, sono le più belle.

La nuova abitudine

C’è questa nuova abitudine che mi piace molto.

Quando cominci ad avere nuove abitudini, il tuo bar, la tua bancarella della verdura preferita, l’angolo dove dare gli appuntamenti, il tuo ufficio postale, quando cominci ad avere nuove abitudini ti senti a casa.

C’è questa nuova abitudine che mi piace molto che è iniziare a bere l’aperitivo con le amiche in un locale, per poi spostarci in un altro a mangiare dolci e bere vino. È un rituale che è nato come tutti i rituali, un po’ per caso e un po’ per destino, com’è nata la nostra amicizia, che poi io, un anno fa, non uscivo mai con loro e adesso sono le persone che cerco quando mi succede qualcosa di bello e quando, ahia!, mi succedono le cose brutte, quando la nostalgia mi assale, quando non ho muri abbastanza duri contro cui sbattere la testa, quando ho bisogno di qualcuno che mi salvi la vita.

E una sera eravamo lì, a bere e poi camminare e poi bere ancora vino e scegliere i dolci e lì, mentre raccontavamo la nostra quotidianità così terribilmente importante, il marito di un’amica ha detto una cosa così semplice e bella che avrei voluto pensare da me.

Lui ha detto, tra un bicchiere di Nero d’Avola e un boccone di cheesecake, che si smette di scrivere tanto e appassionatamente quando non si ha più bisogno di mandare messaggi.

E io ho capito perché quest’anno ho scritto tanto, perché dovevo dire le cose, a chi avrei voluto dirle e a chi no. Ho capito che avevo bisogno di lanciare segnali, di aspettare che la corrente trascinasse i miei messaggi nella bottiglia, avevo bisogno di parlare ad alta voce e avere qualcuno che ascoltasse, qualcuno soprattutto sconosciuto e attento.

C’è questa nuova abitudine che mi piace molto, che è capire me stessa ascoltando gli altri, che è bere vino con persone belle, che è sentirmi a casa in questa Milano che ha angoli nuovi e il sole caldo anche a novembre.