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I love Chanel

“Tre cose non passano mai di moda: il tubino nero, il rossetto rosso e il vero amore”

Come sarebbe andata a finire tra Rebecca ed Étienne?

Negli ultimi mesi me l’hanno chiesto in tanti, tantissimi. Il finale di Via Chanel n.5 lasciava cavalcare la fantasia dei curiosi.

Dopo averci pensato (a lungo), ho deciso di andare a curiosare ancora nella vita dei due per provare a raccontare quello che succede dopo, dopo il colpo di fulmine, dopo l’inizio.

Raccontare la ricerca del Principe Azzurro è divertente e anche piuttosto facile. Abbiamo tutte provato gli stessi struggimenti, le delusioni, le illusioni, le fregature, le farfalle nello stomaco e le gioie indescrivibili.

Raccontare la vita di coppia è più complicato. Ci vogliono pazienza, coraggio, nervi saldi, grande amore e tanto vino per riuscire a far funzionare una storia. E se la ex di lui torna a rompere le scatole? E se un altro bonazzo entra all’improvviso nella vostra vita? E se…?

I love Chanel, il mio terzo libro, esce il 4 luglio 2013.

La copertina è rosa, come piace a me. La storia è ambientata a Parigi, una delle città che amo di più. Dentro ci sono gli amici del primo libro e tanti personaggi nuovi. E poi c’è un sacco di Coco Chanel.

Io, fossi in voi, lo comprerei. Dicono sia molto bello.

copertinaIlove

Ci segnalano che il libro è stato avvistato in anteprima in qualche Coop, aeroporto o libreria. A volte sono più avanti di me stessa.

È tutto. Anzi, no.

Il blog è migrato (finalmente) sul nuovo server.
Ringrazio tanto, tanto, tantissimo Andrea Beggi per il prezioso aiuto tecnico. Un giorno, questo salvatore del wordpress verrà ricordato nei libri di storia.

Tra qualche giorno partirà il Dania World Tour: 8 febbraio a Roma, 9 a Padova, dal 10 al 13 a Parigi, 14 e 15 a Roma, dal 16 al 18 a Padova, brevissima sosta a Milano e partenza il 19 febbraio per il Brasile, con rientro a Milano il 6 marzo.

Mi scuso con i creditori e, soprattutto, con la mia meravigliosa editor (sì, sto cercando di blandirti) per i ritardi che accumulerò.

Fatemi un fischio se la situazione in Italia precipita. Potrei decidere di restare nel Maranhão.

È tutto.

Anzi, no: l’amore è una cosa faticosissima. E fa bruciare molte meno calorie del Body Pump. Non sono mica sicura che ne valga la pena.

Il pane come la Francia

Ho mangiato un pezzo di pane che somigliava alla Francia e mi sono ricordata di te.

Chi lo sa se poi ci siamo davvero voluti bene, in quei vent’anni splendidi e problematici, tra quelle pareti piene piene di libri e di ricordi non nostri.

Mi sono ricordata di te e poi di com’ero e cosa pensavo e cosa volevo, quando pensavo che non avrei mai lasciato il teatro e Parigi e gli amici e quella casa così bella e quei capelli corti come adesso che tu mi carezzavi prima di dormire.

Ho mangiato un pezzo di pane che somigliava alla Francia e non ho voglia di cucinare e continuo a bere caffè e a pensare a quello che dovrei fare, scrivere, finire, iniziare.

Sono senza un soldo, come allora, ma non sono più così giovane e non farò la cameriera in un bistrot per riuscire a pagare il nostro vino. Anche Milano a volte sembra essere magica, ma non ci troveresti i tuoi fantasmi. E poi chi lo sa se disegni ancora, se ancora hai la barba lunga, se ancora fotografi tutto quello che ti piace.

Stamattina ho perso tempo invece di lavorare e poi sono inciampata nei ricordi e non c’è sole e il cielo è grigio e non lo so, non ho voglia e sono in ritardo e il mio conto corrente piange e fuori c’è il mercato e forse farò due passi, forse andrò in palestra, forse ti cercherò per sapere come stai. O forse no.

Chez moi

Ci sono città in cui nasci, città in cui finisci senza averle scelte e quelle che scegli ma che non ti calzano mai bene, che sarebbe stato meglio non, che devo ripartire, che non dovrei essere qui, che è ora di fuggire via, lontano.

Ci sono città che ti scelgono, che ti rapiscono, che ti trattengono e non riesci a lasciare, città che porti dentro sempre, città che ti stanno alla perfezione come quel vecchio cappotto caldo, città che ritrovi ovunque, negli angoli più nascosti del mondo, città che hai sempre nella testa, nella borsa, tra le righe dei libri, tra le pieghe polverose dei ricordi.

E poi scendi dall’aereo, prendi il bus, arrivi in centro e inizi a camminare con il tuo passo sicuro, il passo di chi sa dove andare, di chi conosce l’inizio e la fine della strada, riconosce muri e semafori, colori e odori.

Sei esattamente dove dovresti essere, riprendi il tuo monologo interiore interrotto anni fa, ti confondi tra la folla che ti somiglia, non sei straniero, sei parte del tutto, sei un tassello del mosaico, sei un cittadino tra i concittadini.

Continui a camminare, senza chiedere informazioni, raggiungendo le tue mete, senza perderti, senza sorprenderti se non della bellezza dalla quale sei stato così tanto lontano.

Continui a camminare tranquillo, con le membra rilassate, con i pensieri liberi di allontanarsi e poi tornare, con lo sguardo distratto, il sorriso abbozzato, le mani in tasca e quella serenità così facile che hai solo quando sei, finalmente, a casa.

Non di martedì

Quando mi sono trasferita a Parigi, un terzo di vita fa, Roberto ha iniziato a scrivermi delle lunghe lettere.

Ci scrivevamo le lettere quelle di carta, quelle che arrivavano quando decideva la posta, tutte un po’ sgualcite, ma che sapevano di viaggio, di distanza, di attesa. Erano lettere con la calligrafia nervosa o serena, lettere che dicevano più delle parole scritte, che raccontavano la stanchezza delle mani o l’allegria delle dita, che dicevano se ero stata in cartoleria a scegliere la carta o se l’avevo strappata da un quaderno durante una lezione di ebraico particolarmente noiosa.

A volte, nella fretta di raccontarci cose, le lettere successive partivano prima di ricevere le risposte e le cose da dirci, i pensieri che dovevamo per forza condividere, che non potevamo non far sapere all’altro, si confondevano. E dovevamo rileggere le vecchie lettere per capire, per ricostruire.

Spesso ci mettevo un po’ a decifrare una parola, studiavo la calligrafia da ingegnere di Roberto per intuire cosa significava uno sgorbio, se un tratto aveva un senso o era solo uno sputo di penna lasciato lì, a fissarmi dal foglio.

Ricordo che una volta, dopo aver spedito le mie ansie e i miei dubbi per posta aerea, arrivò una busta blu, piena di fogli, fogli tutti pieni di parole, parole tutte scritte fitte fitte, avanti e dietro, in tutte le pagine.

In quella lettera dalla busta blu, Roberto aveva capito le cose, aveva preso tutte le paure che mi si erano attaccate come sanguisughe al cuore e le aveva staccate e poi schiacciate, aveva lisciato i miei progetti accartocciati e li aveva messi al sole, aveva fatto entrare aria nella mia testa di ventenne arrabbiata e aveva fatto uscire i pensieri belli, in volo. Mi aveva raccontata in quelle pagine e mi aveva permesso di leggermi, con le parole sue, nei miei occhi, sulla sua carta, nei miei pensieri.

Roberto mi aveva lasciato una traccia, mi aveva scritto dentro, in quella lettera che ho riletto due, tre, quattro, mille volte.
Aveva saputo leggermi, sbirciando con discrezione sotto la mia corazza che credevo impenetrabile. Aveva fiutato i sorrisi, capito i silenzi, ascoltato, osservato. E poi aveva usato una penna biro blu per cancellare la mia tristezza e camminare un po’ come me, nella tasca del mio cappotto leggero, nei tramonti sul Quai de Seine.

Ci sono state altre lettere, poi gli abbracci, poi le sbronze, poi le fughe, poi i ritorni, poi le altre lettere. Un giorno abbiamo iniziato a usare l’email. Lui dall’università, io dalla biblioteca.

Poi, anni dopo, è stato tutto più difficile. È stato difficile leggersi, è stato difficile capirsi.
Un giorno volersi bene è diventato più faticoso che non volersene, a due come noi, che si erano guardati dentro dentro, che si erano capiti così tanto, che si erano cercati tante volte perché stare lontani era un pensiero osceno.

Un giorno che non c’erano più chilometri tra di noi ci siamo accorti di essere tanto, troppo distanti.

Ma questa è un’altra storia, che non parla di lettere.
Quest’altra storia parla di distanze, di amicizia e di amore.
E io non so parlar d’amore il martedì.

L’oublié

Il mio ex parigino, di cui non avevo notizie da 10 anni, mi ricontatta su facebook qualche giorno fa per invitarmi a un pic-nic al parc des Buttes-Chaumont per il suo compleanno.

Sono riuscita a superare la sorpresa per il bizzarro invito e quella di vederlo in salute, nonostante l’abuso di droghe negli anni passati.

Quello che proprio non riesco ad accettare, in lui come in tutti i miei ex, è che si sia permesso di sopravvivere senza di me.

Certe persone dovrebbero finire quando finisce l’amore.
E rimanere taggate solo nei ricordi.

La gallina e l’arlecchino

Durante gli anni della mia vita parigina ho vissuto qualche mese nell’enorme appartamento che il mio eccentrico ex aveva ereditato dal padre saggista.

Un giorno, per pagare le bollette dell’elettricità arretrate e smettere di vivere a lume di candela, si è messo sottobraccio un pacchetto contenente un lungo scambio epistolare tra suo padre e Jean Cocteau ed è andato a venderlo a un gallerista.

Quella sera abbiamo mangiato foie gras.

Sono sicura che, un domani, se un mio eventuale figlio si trovasse con l’acqua alla gola e provasse a vendere uno scambio di e-mail tra la sottoscritta e qualche blogstar riuscirebbe a stento a pagarsi un sacchetto d’olive.

E un po’ mi dispiace per lui.