Quando mi sono trasferita a Parigi, un terzo di vita fa, Roberto ha iniziato a scrivermi delle lunghe lettere.
Ci scrivevamo le lettere quelle di carta, quelle che arrivavano quando decideva la posta, tutte un po’ sgualcite, ma che sapevano di viaggio, di distanza, di attesa. Erano lettere con la calligrafia nervosa o serena, lettere che dicevano più delle parole scritte, che raccontavano la stanchezza delle mani o l’allegria delle dita, che dicevano se ero stata in cartoleria a scegliere la carta o se l’avevo strappata da un quaderno durante una lezione di ebraico particolarmente noiosa.
A volte, nella fretta di raccontarci cose, le lettere successive partivano prima di ricevere le risposte e le cose da dirci, i pensieri che dovevamo per forza condividere, che non potevamo non far sapere all’altro, si confondevano. E dovevamo rileggere le vecchie lettere per capire, per ricostruire.
Spesso ci mettevo un po’ a decifrare una parola, studiavo la calligrafia da ingegnere di Roberto per intuire cosa significava uno sgorbio, se un tratto aveva un senso o era solo uno sputo di penna lasciato lì, a fissarmi dal foglio.
Ricordo che una volta, dopo aver spedito le mie ansie e i miei dubbi per posta aerea, arrivò una busta blu, piena di fogli, fogli tutti pieni di parole, parole tutte scritte fitte fitte, avanti e dietro, in tutte le pagine.
In quella lettera dalla busta blu, Roberto aveva capito le cose, aveva preso tutte le paure che mi si erano attaccate come sanguisughe al cuore e le aveva staccate e poi schiacciate, aveva lisciato i miei progetti accartocciati e li aveva messi al sole, aveva fatto entrare aria nella mia testa di ventenne arrabbiata e aveva fatto uscire i pensieri belli, in volo. Mi aveva raccontata in quelle pagine e mi aveva permesso di leggermi, con le parole sue, nei miei occhi, sulla sua carta, nei miei pensieri.
Roberto mi aveva lasciato una traccia, mi aveva scritto dentro, in quella lettera che ho riletto due, tre, quattro, mille volte.
Aveva saputo leggermi, sbirciando con discrezione sotto la mia corazza che credevo impenetrabile. Aveva fiutato i sorrisi, capito i silenzi, ascoltato, osservato. E poi aveva usato una penna biro blu per cancellare la mia tristezza e camminare un po’ come me, nella tasca del mio cappotto leggero, nei tramonti sul Quai de Seine.
Ci sono state altre lettere, poi gli abbracci, poi le sbronze, poi le fughe, poi i ritorni, poi le altre lettere. Un giorno abbiamo iniziato a usare l’email. Lui dall’università, io dalla biblioteca.
Poi, anni dopo, è stato tutto più difficile. È stato difficile leggersi, è stato difficile capirsi.
Un giorno volersi bene è diventato più faticoso che non volersene, a due come noi, che si erano guardati dentro dentro, che si erano capiti così tanto, che si erano cercati tante volte perché stare lontani era un pensiero osceno.
Un giorno che non c’erano più chilometri tra di noi ci siamo accorti di essere tanto, troppo distanti.
Ma questa è un’altra storia, che non parla di lettere.
Quest’altra storia parla di distanze, di amicizia e di amore.
E io non so parlar d’amore il martedì.