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I signori delle mosche

Non so chi sia stato il primo a mettere in giro la bislacca idea che a quarant’anni tu sia “un giovane”.

Non che tu non possa sentirti un eterno pischello e andare a ballare ogni fine settimana e indossare pantaloni dal cavallo bassissimo con il boxer triste in bella vista. E se sei donna, puoi continuare a fingerti adolescente e indossare la minigonna, anche se le tue ginocchia stanno diventando rugose come lo sharpei di mia zia.

Non dipende dall’abito né dallo spirito. Siamo liberi di vivere da ragazzini, pur sembrando grotteschi, perché nessuno ci vieta di coltivare i nostri imbarazzi, nel terrore che Peter Pan non entri più dalla nostra finestra e non ci porti nell’Isola che non c’è (quando a me basterebbe anche solo che, da quella finestra, mi portasse una pizza d’asporto e il voltaren per il mal di schiena).

Possiamo sentirci ragazzi in eterno, ma – e mi duole dirvelo, rovinando il vostro pasto domenicale – non lo siamo.

Potremmo barare un po’, alzando l’asticella di un decennio, fingendo che l’adolescenza arrivi fino ai venticinque e i venticinque durino fino ai trentacinque. Ma lo sappiamo tutti che il tempo infame corre più veloce di noi e che, a un certo punto, bisognerà accettare l’evidenza.

Enrico Letta è nato nel 1966, undici anni prima che in Italia arrivasse la tv a colori. Quando il fucile ha spappolato il cranio di Kurt, lui aveva quasi trent’anni e non so se ha pianto come noi che abbiamo fatto le veglie al liceo, indossando le nostre camicie sudicie da boscaiolo e i capelli sporchi. Leggere Dylan Dog non ti rende ragazzo, ché sono 27 anni che compriamo i suoi albetti e se il tempo scorresse tra la carta, come nella vita, l’indagatore dell’incubo avrebbe sessant’anni e sarebbe così sfatto che nessuna delle figone che si porta a letto lo degnerebbe di uno sguardo. Sempre meglio dell’Ispettore Bloch, che se ne sarebbe andato già al creatore, senza nemmeno essersi goduto la pensione.

Non ho nulla contro i quasi cinquantenni e non ho nulla contro Carla Bruni che dice “sono tornata una cattiva ragazza” quando ha già soffiato 45 candeline.

Non ho nulla contro la gente che invecchia. Lo faccio anche io, sebbene preferirei evitarlo. E un tempo sono stata tra quelle giovani, la più giovane, nella compagnia teatrale, all’università, a lavoro. Poi smetti di essere giovane, anche se rimani il più giovane. Non è la stessa cosa.

Sono consapevole che la nostra classe politica è piena di cariatidi in via di decomposizione, per lo più sagge, meritevoli e autorevoli, eccetto una minoranza (a esser buoni) che avrebbe dovuto avere la decenza di tirare le cuoia da mo’. Un abbassamento dell’età media potrebbe riuscire a riportare la merda a un livello più basso, magari sotto le narici, così riusciamo a respirare.

Il punto è che non basta essere giovani. Avere qualche anno in meno non è una competenza. Non basta a consolarci, a darci l’idea che tutto vada meglio.

È che essere giovani non è soltanto una questione di spirito. Potrebbe esserlo e fa bene preservare l’entusiasmo e la speranza dei nostri vent’anni per sempre. Ma bisogna accettare di essere adulti, perché il rischio di fingersi giovani è l’alibi per essere imperfetti, per sbagliare, per stravolgere le poche cose buone che restano, per distruggere, senza poi ricostruire, per non ascoltare, per fare compromessi, pur di rimanere i più giovani attaccati alla poltrona. Perché poi, “i giovani”, hanno sempre i grandi dietro che danno indicazioni.

Il paese è pieno di giovani veri. Ragazzi e ragazze disimpegnati, emigranti, disoccupati e inoccupati. Molti con l’unico grande sogno di ballare/cantare/piangere nei reality, altri col desiderio di ottenere almeno un terzo di quello che i loro genitori hanno sudato, altri ancora inconsapevoli e inetti, con l’idea che nulla cambierà e tanto vale lasciarsi vivere.

Dopo mesi di attesa di cambiamento, ci propinano il solito compromesso schifoso. Particolarmente schifoso, perché mascherato da incredibile innovazione. È un esecutivo di giovani! È un esecutivo di donne!

Ben vengano. Alcuni nomi sono commoventi, altri rischiosi e tanti imbarazzanti.

C’è da chiedersi quando basti abbassare l’età e cambiare il genere per fare meno danni. Abbiamo fatto fuori i pupari che reggono i fili o abbiamo solo mandato avanti la fanteria a farsi maciullare per prima?

È bello sapere che esiste un ricambio generazionale, purché sia possibile cambiare davvero le cose. E a leggere tra le righe, mi sa che verremmo ancora una volta delusi.

Ecco, una cosa che hanno capito i giovani, quelli veri: l’unica cosa a cui puoi ambire è “il meno peggio”.

Mi dicono “diamogli fiducia, non abbiamo nulla da perdere. Almeno sono più giovani”.

I naufraghi del Signore delle Mosche erano tutti ragazzini e il loro governo è finito a schifio.

Ma io sono cinica e disillusa. Forse non sono la persona giusta per comunicare entusiasmo. Forse sarei stata comunque insoddisfatta. Mi consola il fatto che sono ancora così giovane da poter migliorare.

 

P.s. mentre stavo per pubblicare il post, alcuni folli hanno sparato sulla folla, fuori da Palazzo Chigi, ferendo due carabinieri. Non abbiamo bisogno di criminali per tornare così tanto indietro. Noi abbiamo un disperato bisogno di andare avanti.

Ma per fortuna o purtroppo lo sono

All’età di circa dieci anni, in una di quelle estati nelle quali i miei fratelli e io venivamo spediti in Olanda da mio padre, ho letto il libro Cuore. E ho pianto.

In una tournée teatrale a Utrecht, con i miei compagni di teatro, tutti appena maggiorenni, abbiamo improvvisato un concerto al ristorante cantando e suonando Paolo Conte, commuovendoci con Azzurro.

Nei miei anni parigini, il proprietario del ristorante in cui facevo la giovane camerierina mi chiedeva sempre “un vrai espresso italiano, s’il te plaît!”.

Al Cairo, ho passato una notte al Fishawi, con un giornalista svedese e un attivista egiziano, fumando shisha e parlando degli anni di piombo.

Una suora, ad Aleppo, mi ha chiesto se avevo mai incontrato di persona il Papa.

A San Pietroburgo, in una komunalka di amici, ho cucinato pasta per tutti in un bollitore per il tè.

Al matrimonio di mio fratello, in Bolivia, ci hanno chiesto di ballare la tarantella.

In un locale gay di Buenos Aires ho cantato una canzone di Laura Pausini perché volevano sentire le parole in italiano (sì, conosco a memoria La solitudine e non riesco a rimuoverla dalla testa).

Sono scappata molte volte e sono sempre ritornata.

Sono una cittadina del mondo e non so fare altro che essere italiana.

Mi vergogno quando disprezzo il mio paese e mi vergogno quando amo il mio paese. Questo è essere italiani.

Però la festa di oggi mi piace, mi piace pensare al risorgimento, mi piace sentirmi una carbonara, mi piace pensare che, nonostante i leghisti, i mafiosi, i qualunquisti, i fascisti, i berlusconiani e gli interisti, siamo un paese unito, di brava gente.

E poi, Gaber l’ha già detto molto meglio di me.