Il tutto migliore

Ho ripensato a tutto.

A tutti i particolari, a tutti i momenti, a tutte le cose dette e non dette.

Ho immaginato inizi diversi, reazioni giuste, parole perfette, silenzi allegri, decisioni corrette, ritorni improvvisi, colpi di scena. Ho anche già immaginato un futuro ideale, un finale felice, con tutti noi al posto giusto, con la musica giusta, i tempi giusti, gli spazi giusti.

Ho ripensato a tutto, l’ho trasformato, l’ho reso migliore.

Nel tutto che ho ripensato e immaginato ogni cosa ha una soluzione.

Mi fa bene pensarlo così, il tutto che non è stato e non sarà.

Però, finché funzioni e mi consoli il pensiero quando torneranno i tempi bui, dovremmo lasciarlo lì, non toccarlo più, non parlarne più, non vederci, non cercarci, non sentirci, non piangere, non scriverci, non leggerci, non pensarci.

Facciamo che ci inventiamo questo tutto perfetto e lo pensiamo così e lo conserviamo dentro e poi continuiamo a vivere, distanti. Facciamo che, per una volta, invece di essere razionali, siamo matti e ci teniamo dentro la versione migliore di quello che sarebbe potuto essere. Facciamo che l’immaginazione ci aiuta a non perderci anche se non ci rivedremo mai, mai, mai più. Facciamo che la testa aggiusta quello che il cuore distrugge. Facciamo che non ci frega più niente del vero e del falso, ma solo dello stare bene.

La verità, quella vera, la sapremo solo noi, ma non la diremo a nessuno, nemmeno a noi stessi e poi ce ne dimenticheremo e alla fine sarà solo un ricordo confuso e non farà più male, come quei sogni violenti che sembra ci rimangano attaccati per sempre e poi, quando apriamo gli occhi, sono già spariti insieme alla notte.

Ce ne dobbiamo fare una ragione

Ci sono quei periodi in cui il mondo sembra essersi fermato, in cui tutto è in equilibrio e tu stai bene e ti sembra di non voler desiderare altro, di poter stare lì a vivere la vita immobile, senza cambiare nulla, senza spostare nulla.

Poi arriva, un giorno, un nuovo impercettibile desiderio e provi ad allungare una mano, a fare un passo, a spostare gli oggetti, a toccare le persone. Arriva il giorno in cui ti muovi e perdi l’equilibrio e la vita torna a essere un torrente e le cose cambiano e cambiano, lo fanno senza chiederti il permesso, senza aspettare che tu sia pronto.

Ce ne dobbiamo fare una ragione.

Niente resta sempre uguale, niente dura per sempre.

Ce ne dobbiamo fare una ragione.

E possiamo provare a resistere, a lottare, a cercare di tornare indietro, a implorare le persone di non andarsene, a gridare aiuto, a piangere, a spaccare gli oggetti, a strapparci i capelli, ma la vita se ne fotte, ce ne dobbiamo fare una ragione.

Dopo aver provato tutto, dopo aver usato tutte le parole, anche le più crudeli e difficili, dopo aver ucciso il nostro orgoglio ed esserci mostrati fragili, dopo aver sofferto e fatto soffrire, dopo aver amato e aver smesso di amare, dopo aver sbagliato e aver chiesto perdono, non ci resta che farci trascinare dalla corrente.

Non possiamo che scorrere, in questo torrente del cazzo che è la vita, e accettare la fine e aspettare gli inizi, coltivare le speranze giuste e abbandonare le illusioni, trattenere chi vuole essere trattenuto e lasciare andare chi vuole starci lontano.

Le cose cambiano senza chiederci il permesso e un giorno ci distruggono e un giorno ci ricostruiscono.

Domani andrà meglio, lo so. Oggi, però, resto qui a cercare di farmene una ragione.

Una pagina bianca

In questa primavera dovremo sopravvivere al silenzio degli spazi lasciati vuoti, alla stupida malinconia delle occasioni mancate, all’amara dolcezza dei ricordi, alle parole che avremmo dovuto tacere, a quelle che avremmo dovuto dire, alla lunga strada da fare, tenendoci in equilibrio solo sulle nostre due gambe.

In questa primavera siamo pagine bianche che nessuno ha fretta di riempire.

E aspettiamo, bevendo troppi caffè, che il tempo mantenga le sue promesse.


Ora e sempre Resistenza!

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

(Lapide ad ignominia – Pietro Calamandrei)

Per ricordare quelli che scelsero di stare dalla parte giusta, di diventare, senza volerlo, eroi e di regalare a me e a voi questa tanto bistrattata libertà.

Vi segnalo il lavoro di questi giovani resistenti della Brigata Barabba, che da un paio di anni raccolgono racconti sui partigiani e li leggono in giro per l’Italia. Oggi esce il loro libro chiamato Schegge di Liberazione, che contiene alcuni dei brani prodotti dai nuovi volontari della memoria nei mesi passati. Hanno fatto anche un’ebook. È bello, leggetelo!

E resistete, sempre!

L’evasione

Inizio ad accettare i cambiamenti, a rassegnarmi alle cose che succedono anche se non voglio, ad assecondare il tempo che passa e che mi invecchia, a rinunciare alle cose che non posso avere, a godere di quello che mi resta.

Solo penso sempre a quella cosa che dicevamo da ragazzini, quell’idea della fuga, quel folle desiderio di svegliarci una mattina e salire su un treno a caso e vedere dove ci porta e andare avanti finché bastano i soldi, finché la distanza non fa troppo male, finché non ci manca casa e abbiamo voglia di tornare.

Penso sempre che ogni partenza è un viaggio per cercarmi e che dovrei perdermi davvero, adesso, per trovarmi.

Allora aspettami lì, dall’altro lato del mondo, perché lo sento, lo so, che prima o poi salterò su un treno a caso, su una nave, su un aereo, senza meta, finché mi basteranno i soldi, finché mi basterà il tempo, finché le distanze non si accorceranno, finché ti incontrerò per caso e potremmo di nuovo essere vicini e ridere come bambini e fare un pezzo di strada insieme e dirci che, tutto sommato, riusciamo sempre a sopravvivere.

Ecce Homo

Di tutta questa storia, che ho ascoltato e letto tante volte, per scelta o mio malgrado, mi ha colpito soprattutto la faccenda dell’amicizia tradita.

C’era quest’uomo carismatico, trascinatore, ammirato, amato. Aveva un gruppo di amici fidati, giovani, forti, che avevano il sogno folle che abbiamo tutti noi giovani, quello di salvare il mondo.

Le cose non sono andate molto bene. Trascinare le folle provando a opporsi al potere non è mai una buona idea. L’uomo carismatico ha iniziato a farsi dei nemici e i nemici hanno corrotto uno dei suoi amici che l’ha tradito.

Lui lo sapeva che sarebbe stato tradito, sapeva anche da chi, ma amava i suoi amici e forse fino alla fine aveva creduto che potessero essere migliori di quello che il destino aveva deciso per loro. Quindi, non era scappato, non si era nascosto. Era rimasto lì a cenare, a bere vino con loro. Però glielo aveva fatto sapere, aveva detto lo so che uno di voi mi tradirà, io lo so, l’ho capito, ma questa è la vita per cui sono nato e non fa niente, non fa niente se un amico, con il quale ho viaggiato, dormito, riso, pianto, mi pugnalerà alle spalle.
Non mi pento di avergli voluto bene.

C’era quest’altro amico, che io ho sempre pensato fosse il suo migliore amico, che era lì a cena e diceva io non ti tradirò mai. E ci credeva, lui non l’avrebbe mai fatto, lui amava quell’uomo carismatico, non avrebbe mai tradito la sua fiducia. E l’uomo carismatico che era condannato a capire e sapere tutte le cose, ha dovuto dirglielo, gli ha detto guarda che anche tu mi tradirai, farai finta di non conoscermi, e non una, tre volte, vedrai, ma non importa, amico, beviamo, mangiamo, stiamo insieme.

E poi è finito tutto male. Hanno arrestato l’uomo, gli hanno fatto un processo, lo hanno condannato a morte.

Il suo amico, il migliore amico, era lì ad aspettare che decidessero che fine far fare all’uomo carismatico che tanto amava. E stava lì, disperato, impotente, distrutto. La gente lo riconosceva, gli diceva ma tu sei quel suo amico, tu eri con lui. Lui era spaventato, terrorizzato, aveva paura di finire in croce, non era mica pronto a morire, non era pronto a salvare da solo il mondo. Allora ha negato, non lo conosco!; una, due, tre volte.

E qui c’è un solo libro di quelli che ti fanno leggere su questa storia che la termina in questo modo. C’è questo libro di Luca che dice che alla terza volta, la terza volta che il suo migliore amico ha negato di conoscerlo, l’uomo carismatico si è voltato, ha cercato il suo volto e l’ha guardato.

Io mi sono sempre immaginata questo momento della vita dell’uomo carismatico come il più triste, il più umano. Lui sapeva come sarebbero andate le cose, ma avrà sperato fino alla fine che potessero cambiare.
In quello sguardo, in quegli occhi feriti che incontrano gli occhi di un amico che gli aveva promesso che non l’avrebbe tradito mai, che gli aveva detto io sarò sempre il tuo migliore amico, io ci sarò sempre per te, in quello sguardo ferito e rassegnato io ci ho sempre letto l’enorme fatica di essere uomini.

E non lo so se, come dicono, quell’uomo carismatico fosse davvero figlio di un dio.
Io so che anche per lui amare ed essere amato non è stato facile.
Come per noi, che promettiamo, ci impegniamo, sbagliamo, tradiamo, ci guardiamo negli occhi, piangiamo e, qualche volta, siamo così divini da perdonare e perdonarci.

“E il Signore, voltatosi, guardò Pietro; e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detta: «Oggi, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte». E, andato fuori, pianse amaramente.” (Luca 22, 61-62)

L’amica dagli occhi chiari

Quella volta che volevo capire e sbattevo la testa contro il muro e cercavo le risposte ai perché più atroci e inutili, tu mi ha detto le parole a cui più penso e con le quali provo a farmi una ragione.

Mi hai detto che i sentimenti sono cose mie, tue, sue, non sono cose nostre, cose condivise. I sentimenti ci capitano, non li scegliamo e abbiamo questa stupida idea che ci sia un’equità sentimentale secondo la quale se io ti amo così, tu devi amarmi proprio così, uguale.

Quindi siamo questi animali stupidi e ci nascono cose dentro, senza che possiamo farci nulla.

Se io provo sentimenti  e li provi anche tu, allora c’è una relazione e quella, sì, è di tutti e due.

Se io provo sentimenti e tu no, io sono un’infelice e tu un carnefice senza colpa.

Ci sono le relazioni e dentro ognuno ci mette la sua quantità di sentimenti, finché dura. E questo fa di noi esseri umani.

Mi hai detto queste parole, amica, mentre cercavo di mettere ordine nella testa, tra le persone, tra quelli a cui volevo bene e quelli a cui no e facevamo questa cernita e dicevamo questo non posso proprio tenerlo dentro, questo lo tengo ancora un po’, questo non avrei mai dovuto farlo entrare.

E io ti ho chiesto “ma non pensi che sia troppo, troppo difficile?” e tu mi hai risposto “ma ti sembra che per noi due sia mai stato facile? Però, se finiamo presto, facciamo ancora in tempo ad andare a bere qualcosa insieme”.

Tra le pagine

Ho ripreso in mano un libro che non sfogliavo da tempo per trovarci dentro una risposta.

Cercavo di capire se un personaggio sfocato della mia recente vita non fosse solo l’ombra di un personaggio che avevo amato in un romanzo dimenticato sullo scaffale.

Tra le pagine ho trovato un foglio color salmone, con un messaggio che mi avevi lasciato tu.

Ho ritrovato, dopo tredici anni, il tuo messaggio che parlava delle tue scarpe rosse e di uno dei tuoi viaggi, in un libro che non avevo più aperto, ma al quale avevo pensato spesso.

L’ho trovato stamattina, dopo che ieri, rompendo un silenzio durato un decennio, tu sei venuta da me a cercare un sorriso, tra le pagine di un social network che non ha il colore, l’odore e il rumore di tutta la carta che abbiamo consumato.

Non lo so se sono solo coincidenze, non lo so se il destino ha deciso che per ogni persona che si allontana ce n’è sempre una che ritorna da un lungo lunghissimo viaggio.

So solo che il tempo è la distanza più crudele.

E che quando tu, troppi anni fa, in quella Napoli che non era già più nostra, mi ha chiesto se sarebbe stato per sempre non ho avuto il coraggio di mentirti, come farei ora, per non lasciarti andare via.

Il moto dei nostri corpi verso il centro della Terra

Mentre camminavamo con il nostro solito passo distratto, qualcuno ha inclinato il mondo.

Abbiamo iniziato a precipitare, giù per questo nuovo pendio che era la vita, più veloci, sempre più veloci.

Dietro di noi gli oggetti, le altre persone, i ricordi, le tazzine del caffè vuote, abbandonate sul tavolo in cucina, il giornale appena sfogliato sul divano, il tubetto del dentifricio aperto, una camicia stropicciata sulla sedia in camera, la Tv accesa su un programma a caso, senza audio.

Abbiamo iniziato a precipitare giù, senza sosta.

A volte sembra quasi di volare, con il groppo in gola e l’ansia grande del momento in cui ci fermeremo.

Nell’attesa che la terra torni piatta, che ci si possa rialzare in piedi, scrollare di dosso la polvere, medicare le ferite e riprendere, lentamente, a camminare.

Saperci leggere

Mi innamoro spesso dei libri.

Li sfoglio e ci leggo la mia vita, proprio uguale, e mi ritrovo a Praga, in Cile, a Mosca, in una stanza chiusa, in un ristorante di Roma, in un ufficio di Tokyo, nel tribunale di Napoli, in una milonga di Buenos Aires, in una casa in affitto, in un hammam, in alto mare.

Sono sempre io, che dico parole mie, che penso pensieri miei detti da altri, che vivo la vita mia vissuta da altri, che piango, che rido, che mangio, che scopo, che muoio.

Mi piace far leggere i libri che adoro alle persone che amo.

Non li presto mai, li ricompro nuovi e glieli regalo. Alcuni li rileggo prima di regalarli, perché mi dico fammi controllare se dentro ci leggeranno proprio me, fammi verificare di essere ancora tra le pagine.

Ad alcuni non piacciono. Troppo difficili o troppo poco difficili.

E io mi chiedo a lungo come puoi non aver capito? Come puoi non averci letto quello che ci ho letto io?

Quando le persone che amo non amano i libri che amo mi sento ferita, tradita.

Però insisto e regalo libri ad altre persone e, a volte, quelle più inaspettate mi dicono grazie, grazie per aver condiviso con me questa storia, grazie per avermi fatto entrare dentro queste parole, perché sono belle, perché fanno male, perché fanno bene.

Allora sono contenta e mi dico che è bello amare persone che sanno leggere come me.

A volte penso che anche noi siamo come i libri: non tutti riescono a capirci, non tutti riescono ad amarci.

Come quella volta che tu, che sei arrivata e poi sparita, mi hai detto che sono troppo difficile da amare.

Però insisto e mi regalo ad altre persone.

Perché nessuno è un libro sbagliato se trova qualcuno che lo sa leggere.

 

Solo le cose

Quello a cui non penso mai sono le cose.

Siamo pieni di cose, accumuliamo cose, compriamo cose, buttiamo cose, regaliamo cose, ci dimentichiamo delle cose.

Poi arriva il momento in cui dobbiamo guardarci intorno e vedere solo le cose.

E non riusciamo più a ricordare se sono mie, tue o nostre.

Chi ben comincia

I momenti che preferisco di più nella vita sono quelli in cui inizio a realizzare progetti.

Amo le startup personali, quelle in cui organizzo le mie risorse, azzardo, provo a credere in me stessa, festeggio ogni piccolo traguardo, sbaglio, piango, mi perdono l’errore (a fatica) e vado avanti.

Sono i periodi più felici e quelli più disperati, in cui mi sveglio la mattina in lacrime e vado a dormire sbronza e sorridente.
Sono i periodi di più grande emotività, quelli in cui ho voglia di parlare con le persone, di vederle, di toccarle, di sentirle in continuazione, di spiegarmi e farmi spiegare, di abbracciarle, di capire se posso fidarmi di loro, di capire se ho fatto bene a tenerle distanti, se ho fatto bene a farle entrare così tanto dentro di me.
Sono i periodi in cui sono più molesta, più cacacazzo. Però divertente.
E sono i periodi di cui ho più paura, perché quando il progetto partirà, quando il dado sarà tratto, sarà il momento di capire se sarò all’altezza, se ce la farò davvero, se sarò abbastanza adulta, se potrò sopravvivere a un sì o a un no.

Vorrei potermi fermare al progetto, un attimo prima che sia definitivo, per poter modificare, ripensarci, aggiustare, migliorare, tornare indietro, rifare tutto, riprovare all’infinito.

Vorrei poter essere una startup perenne, nella vita, nel lavoro e in amore. Avere sempre l’entusiasmo dell’inizio, avere sempre la certezza che posso riprovarci, posso ricominciare.

Vorrei essere come Penelope, disfare la mia tela di notte per essere obbligata a ripartire dall’inizio e non finire mai.

Vorrei essere meno pigra e meno spaventata, perché, come dici tu, solo quando avrò smesso di progettare e mi sarò buttata nella mischia potrò abbandonare i miei fantasmi passati e vivere davvero la mia ennesima vita nuova.