Domani pomeriggio parto per New York.
Ci resterò otto giorni.
È il viaggio più meritato della mia vita.
Porto una valigia piena a metà. Lo spazio vuoto lo riempirò di progetti futuri.
Fate i bravi.
Domani pomeriggio parto per New York.
Ci resterò otto giorni.
È il viaggio più meritato della mia vita.
Porto una valigia piena a metà. Lo spazio vuoto lo riempirò di progetti futuri.
Fate i bravi.
Piove e io non ho fatto progetti. L’anno rotola verso la fine e mi sembra di non aver ancora iniziato a camminare.
Quando mi chiedono “ma tu cosa vorresti fare?”, non dico più viaggiare, scrivere, recitare, leggere, ascoltare musica, cucinare, io dico “vorrei essere felice”.
Sono stati tempi strani per me, veloci, nuovi, confusi, emozionanti e disperati. Non mi sono arricchita. Anzi. Vivo di prestiti e attese, sperando che un giorno la vita mi bonifichi il dovuto e mi faccia sentire serena, senza acqua alla gola.
Non sono nemmeno soddisfatta e forse questa è la chiave per crescere, per dare sempre di più, per diventare migliori.
Per molto tempo ho dato retta alle persone sbagliate, quelle che pensano di conoscerti senza sforzarsi di farlo davvero, e ho perso tutte le mie motivazioni. Ho iniziato a fare le cose che la gente si aspettava da me, perdendo la passione e diventando una ragioniera dei sentimenti.
Qualche settimana fa è successo qualcosa. Mi sono accorta che non ho più paura delle lancette dell’orologio, ho capito che amo davvero il silenzio che mi circonda e che la solitudine non è privazione, ma è crescita, benzina per le emozioni più profonde, rispetto per te stesso.
Allora ho preso le decisioni che avrei dovuto prendere tempo fa, ho scritto le email alle persone giuste, ho richiamato quelli che pensavo di dover tenere distanti e ho allontanato quelli che mi hanno resa infelice.
Stamattina non ho acceso la musica, ho comprato un nuovo ebook, archiviandolo insieme a tutti quelli in cui spero di tuffarmi presto, ho scritto il buongiorno alle persone che mi amano, ho fatto partire la lavatrice, ho bevuto molto caffè, guardando gli ombrelli che camminavano sotto la mia finestra, e mi sono messa a immaginare la prossima avventura.
Domani vado a Roma.
Dicono che pioverà.
Indosserò le scarpe basse e una giacchetta a righe e un fiore tra i capelli e gli occhiali da sole. Gli occhiali da sole anche con la pioggia.
Domani, prima di salire sul treno, farò colazione con una di quelle brioche alla crema che mangiamo sempre e diciamo, ogni volta, nessuna colazione vale la pena di essere consumata se non ha queste brioche.
So cosa farò domani e sono serena. Poi sarà di nuovo un altro domani e dovrò inventarmi nuove cose.
Forse è meglio che vada a dormire.
Buonanotte.
Sono passati sei mesi.
Lavoro molto meno, faccio cose che mi piacciono molto. Guadagno più o meno lo stesso, ma è tutto pagato a novanta, centoventi giorni. Scrivo tanto, leggo meno di quello che vorrei, parlo molto, viaggio sempre, tutte le settimane, più volte alla settimana, prendo treni, dormo da amici, dormo in hotel, dormo in monolocali in prestito. Quando riesco. Per il resto non dormo, prendo sonniferi, se li dimentico sto sveglia, guardo gli oggetti, penso, ripenso, rifletto, penso, ricostruisco.
Esco con persone che non frequentavo da anni, esco con persone che non avevo mai visto. Bevo, mangio poco, faccio sport, provo a non ingrassare di nuovo, provo vestiti, compro vestiti, pago con la carta, controllo il saldo della carta.
Cerco casa, torno a casa, compro casa, vendo casa, pago affitti, pago spese.
Sono passati sei mesi e ho vissuto tre vite.
Ho cambiato la pelle, svuotato la testa con un cucchiaio da zuppa. Ha fatto male, malissimo. Adesso lascio che si asciughi prima di riempirla di nuovo.
Sono passati sei mesi dall’inizio della nuova vita, ma proprio tutta nuova e che fatica! e che difficile! e il senno di poi sempre col fiato sul collo.
Sono passati sei mesi – ecchecazzo! – e ho pianto, sospirato, fatto strage di fantasmi, pulito, aperto le finestre, comprato sandali nuovi, visto il mare, fatto spazio, comprato vino buono, pettinato i capelli, lucidato le labbra.
Adesso mi siedo e aspetto le cose belle.
I momenti che preferisco di più nella vita sono quelli in cui inizio a realizzare progetti.
Amo le startup personali, quelle in cui organizzo le mie risorse, azzardo, provo a credere in me stessa, festeggio ogni piccolo traguardo, sbaglio, piango, mi perdono l’errore (a fatica) e vado avanti.
Sono i periodi più felici e quelli più disperati, in cui mi sveglio la mattina in lacrime e vado a dormire sbronza e sorridente.
Sono i periodi di più grande emotività, quelli in cui ho voglia di parlare con le persone, di vederle, di toccarle, di sentirle in continuazione, di spiegarmi e farmi spiegare, di abbracciarle, di capire se posso fidarmi di loro, di capire se ho fatto bene a tenerle distanti, se ho fatto bene a farle entrare così tanto dentro di me.
Sono i periodi in cui sono più molesta, più cacacazzo. Però divertente.
E sono i periodi di cui ho più paura, perché quando il progetto partirà, quando il dado sarà tratto, sarà il momento di capire se sarò all’altezza, se ce la farò davvero, se sarò abbastanza adulta, se potrò sopravvivere a un sì o a un no.
Vorrei potermi fermare al progetto, un attimo prima che sia definitivo, per poter modificare, ripensarci, aggiustare, migliorare, tornare indietro, rifare tutto, riprovare all’infinito.
Vorrei poter essere una startup perenne, nella vita, nel lavoro e in amore. Avere sempre l’entusiasmo dell’inizio, avere sempre la certezza che posso riprovarci, posso ricominciare.
Vorrei essere come Penelope, disfare la mia tela di notte per essere obbligata a ripartire dall’inizio e non finire mai.
Vorrei essere meno pigra e meno spaventata, perché, come dici tu, solo quando avrò smesso di progettare e mi sarò buttata nella mischia potrò abbandonare i miei fantasmi passati e vivere davvero la mia ennesima vita nuova.