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E non c’è nulla di male

Questa volta sono dall’altro lato del mondo.

Se c’è una cosa che amo più dell’esercizio dei miei diritti democratici è la mia famiglia.

Non stavamo tutti insieme dal 2008. Quasi sei anni. Sei anni in cui skype e aerei ed email e pacchi postali sono stati il legame fondamentale.

Il 20 febbraio è nato Diego. In Brasile. Da mamma boliviana e padre italiano. Nei pochissimi giorni della sua nuova vita, ha vissuto in una chiassosa e ansiosa babele. Lo spagnolo della madre e della nonna materna, il nostro italiano, il brasiliano degli amici e dei vicini.

Ogni volta che siamo qui, in questo paese bellissimo e pieno di contraddizioni, ci chiediamo sempre la stessa cosa: chi ha avuto ragione? Hanno fatto bene loro a partire o noi a restare? Sono più coraggiosi loro o noi? La nostra è dedizione o incoscienza?

Ogni volta progettiamo anche noi una fuga. Qui si cresce, si fanno figli, si comprano case senza essere strangolati dai debiti, nei fine settimana si mangia pesce sulla spiaggia.
Da noi no. Da noi si sopravvive, ci si guarda alle spalle sospirando e davanti con terrore, si fanno debiti, si chiedono prestiti a genitori sempre più stanchi, si progetta un mese alla volta.

Ogni volta, trasportata dall’entusiasmo e dallo sdegno, ho pensato a quali ritorni mi avessero provocato più rimorso. Tutte le volte che ho vissuto all’estero, poi sono tornata. A volte con sollievo, spesso con nostalgia.

La mia generazione ha avuto come unica alternativa la fuga. Sempre meno una scelta, sempre più una necessità. Abbiamo studiato insieme, nelle aule vecchie dei nostri atenei dal passato glorioso, abbiamo provato e poi ce ne siamo andati. Continuando a occuparci di quello che succede, informandoci, sperando di poter tornare e intanto costruendo equilibri sempre più negati a casa nostra.

Ieri, a cena nel patio, provando a godere del vento fresco della sera, durante una discussione sul futuro politico del Paese, noi qui, la gente a casa in cui riporre fiducia, ho realizzato per la prima volta il perché dei miei continui ritorni.
Sopra ogni cosa, al di là di ogni difficoltà, più di tutto il resto del mondo, io amo l’Italia. Non solo perché io sia in grado solo di scribacchiare e di parlare parlare parlare e non potrei farlo altrove. Anche perché c’è qualcosa di coraggioso, temerario e folle nel provare a cambiare le cose, quando tutto sembra ormai disperato.

Il vero coraggio non è partire, ma restare.

Come quegli eroi dei film che si sacrificano per mettere in salvo tutti gli altri e restano sulla barca che affonda o sull’astronave che esplode, dopo aver aiutato anche l’ultimo essere vivente a fuggire.

Siamo quelli che restano mentre Tara brucia, quelli che annegano per salvare donne e bambini sul Titanic, i 300 spartani che si immolano per una causa più grande di loro.

Siamo quelli che rischiano di più e che soffrono e che si fanno un mazzo così grande che nemmeno il Colosseo potrebbe contenerlo.

Siamo, forse, i folli che non ce la faranno mai. Ma quante cose fuori di testa si fanno per amore.

Anche questa volta tornerò, ma senza pentirmene. Non c’è posto migliore in cui vivere di quello che consideri casa. Anche se è la peggiore, la più sgarrupata, la più marcia e corrotta delle case.

Qualcuno dovrà pur restare per mettere tutto in ordine. E per lamentarsi. E per indignarsi e poi indignarsi ancora. E per resistere.

Resistere.

Resistere.

Perché solo gli amori folli sanno essere così ottusi, suicidi e disperati.

E non c’è nulla di male ad amarla, davvero, la nostra piccola Italia.

State buoni (nella cabina) se potete

Superato il periodo di sconforto nichilista che, un paio di anni fa, mi aveva quasi portata sulla strada senza ritorno dell’astensionismo, oggi mi recherò alle urne per compiere il mio dovere di cittadina votando alle elezioni regionali.

Con me porterò la consueta scheda elettorale, un documento di identità, l’indignazione ormai vicina al limite di tolleranza e una discreta quantità di bile travasata con regolare continuità nei mesi passati.

L’idea che la mia regione stia per diventare il primo feudo concesso ai vassalli verdi in cambio di una rinnovata e stabile fedeltà al sovrano mi spinge a sperare, fino a domani pomeriggio, nella redenzione cerebrale dei miei corregionali e nel sovvertimento dell’ineluttabile.

E se è vero, come dice Monicelli, che la speranza è una trappola, dovrò comprare un paio di scarpe comode per essere pronta alla rivoluzione (o per scappare dal Paese).

Penitenziagite

Analizzando i preziosi suggerimenti elargiti dal Cardinale Bagnasco su chi votare alle prossime elezioni possiamo desumere che:

– i preti pedofili non sono gli unici pedofili e si sa che mal comune…

– I politici che rubano sono peggio dei preti pedofili perché in nessun comandamento c’è scritto “non desiderare il bambino d’altri”.

– Meglio votare i politici che rubano che quelli a favore dell’aborto.

– L’interruzione di gravidanza è molto più grave della pedofilia.

– Se avessimo dovuto votare duemila anni fa, avremmo fatto vincere comunque Barabba.

Romanzo epistolare

“Gentile Signora,
[…] Da qualche mese a questa parte, con il nostro Paese immerso in una crisi economica grave e profonda, la vita si è fatta ancora più difficile. […]
Magari si vorrebbero aiutare i propri figli o i propri nipoti, perché pensando a loro le preoccupazioni sono tante: se troveranno mai un lavoro che non sia così precario, se dopo aver fatto tanti sacrifici per farli studiare si potrà finalmente vederli sereni e soddisfatti, se questi ragazzi riusciranno a sposarsi e ad avere i soldi per l’affitto o meglio ancora per un mutuo.
Le donne italiane hanno faticato tanto nella vita. Lavorando, in casa e fuori casa e sempre occupandosi della famiglia, sempre colmando le assenze di noi uomini. […]
Metteremo ogni nostra energia per sconfiggere le ingiustizie e le disuguaglianze che vediamo ogni giorno e che gridano vendetta.”

Da dove sono tratte queste toccanti parole?

– Dalle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
– Dalla seconda lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi.
– Da La lettera scarlatta.
– Da I dolori del giovane Werther.
– Dalla Lettera a un bambino mai nato.
– Dalla lettera di un democristiano, ora a capo del PD, a tutte le basite sessantenni italiane.

Nel PD che vorrei

Nel PD che vorrei, i leader hanno una faccia (e un carisma) che riesco a ricordare.
Nel PD che vorrei, le posizioni rispettate sono quelle degli elettori, non quelle personali di ogni singolo piccolo culo seduto sullo scranno.
Nel PD che vorrei, si propone e non, solamente, ci si oppone.
Nel PD che vorrei, i cattolici rispettano la laicità dello stato.
Nel PD che vorrei, i democristiani si vergognano di esserlo.
Nel PD che vorrei, ci si ricorda di essere la Sinistra.
Nel PD che vorrei, chiunque abusi della parola “strumentalizzazione”, viene obbligato a friggere cosce di rana, a vita, durante le feste dell’ex Unità.
Nel PD che vorrei, non si fa gossip, ma politica.
Nel PD che vorrei, non si frigna perché Di Pietro ruba i voti, ma si cerca di capire perché la gente preferisce votare altrove.
Nel PD che vorrei, non si candidano pregiudicati, idioti, ladri o furbetti.
Nel PD che vorrei, Rutelli sta zitto.
Nel PD che vorrei, il mio voto non sarebbe sprecato. Ancora una volta.

Proponi anche tu, nei commenti, la tua idea di PD.
È molto probabile che Franceschini non la legga mai, ma mi faresti sentire molto meno sola.